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Autore: Mirin    22/06/2015    2 recensioni
Yoshino Yukinohana, un brillante procuratore distrettuale della misogina e razzista Tokyo. Shikaku Nara, geniale fisico teorico le cui idee sono inevitabilmente destinate a cambiare il mondo in modo radicale. Shibi Aburame, uno dei migliori avvocati della capitale nipponica, l'anima nera quanto il colore della pelle, o così pare, l'esemplificazione vivente secondo la quale nulla deve per forza rimanere com'è.
Dal capitolo quarto:
“L’avvocato Aburame non è stupido” Yoshino ribatté, cercando di trattenere un ringhio, “di certo non si farebbe infinocchiare in questo modo.”
“Yoshino, io sono un uomo” Tarou si inclinò verso di lei, gli occhi scuri, non particolarmente belli, brillavano, “ed un uomo non guarda così tutte le donne. Una bella donna la si fissa, ci si compiace della sua fisicità, ma lui era… ipnotizzato da te.”
[...]
“Lei vuole che io lo seduca” Yoshino tradusse, un cipiglio da falco inaspriva la dolcezza orientale dei suoi connotati. “Lei vuole che io giochi con lui come il gatto col topo."

[ShikakuXYoshinoXShibi - ispirato a Rinne, Your Other Self di Kiarana]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Shibi Aburame, Shikaku Nara, Yoshino Nara | Coppie: Shikamaru/Ino
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessun contesto
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ATTENZIONE: IN QUESTO CAPITOLO C'E' UNO SVILUPPO INTROSPETTIVO SU UNA VITTIMA DI STUPRO, ANCHE SE NON E' NARRATO NULLA DELL'ATTO. UOMO AVVISATO, MEZZO SALVATO.

5 Giugno 2015, ore 20.34, Tokyo, Giappone sud-occidentale.

Yoshino inchiodò alla fine del vicolo con violenza, Shikamaru fu spinto in avanti per inerzia e quasi si sarebbe schiantato contro il parabrezza, se la cintura di sicurezza non avesse frenato il suo movimento.
“Ma sei impazzita, donna?” l’apostrofò il Nara, tentando di riprendersi dallo spavento, il cuore nel petto gli batteva ad un miglio orario. Maledizione, quella vecchia arpia stava tentando di farlo fuori!
Yoshino parve sorda al suo mezzo impropero, si era già tuffata all’interno della propria capiente borsa di pelle nera per trarne fuori un curioso oggetto: il proprio portafogli. Sfilò da esso dieci banconote da mille yen e le porse al figlio senza neanche una parola.
“Oh-oh, la questione è seria” ridacchiò Shikamaru, temporeggiando in modo snervante prima di arraffare il denaro, “normalmente è il vecchiaccio che mi paga.”
“E sono certa che ti dia molto meno di così” ringhiò lei, fulminandolo con un’occhiata quasi assassina -seppure Shikamaru non ne rimanesse molto impressionato: dopo diciannove anni di un tale trattamento, ci si faceva il callo.
“Infatti adoro quando sei tu quella needy” sospirò il ragazzo, accettando i soldi che gli venivano offerti da una non-così-conciliante Yoshino, che sbuffò infastidita dalla sfrontatezza mostratale, “sei molto più generosa di Anan-Heisenberg.”
Yoshino si impedì di ridere per quel nomignolo insolente affibbiato al proprio compagno e si concentrò sulla propria irritazione; in men che non si dica, ogni traccia di solarità era scomparsa dal suo volto, sostituita da un’area funerea. “Chiama Choji, fatevi un giro insieme e rimani a dormire dagli Akimichi. Quei soldi ti servono anche a comprare anche una bottiglia di vino da dare a Chouza, quindi non spenderli tutti.”
“Addirittura tutta la not-” “-Nara Shikamaru, se non scendi immediatamente da questa macchina, le mani che ti hanno creato ti spediranno all’altro mondo.”
Il ragazzo rise di gusto, aprendo la portiera per sloggiare dall’abitacolo condiviso: quella donna quando ci si metteva era un vero spasso. Certo che però, per essere una vittoria quella che andava a festeggiare a casa con il vecchiaccio, sembrava piuttosto incazzata. Che avessero litigato? Magari la casa libera serviva per non fargli udire passivamente le grida… non che fosse un bambino impressionabile, ma comunque Yoshino sapeva che Shikamaru non era un grande fan dei litigi epocali. Lui era di gran lunga il tipo da preferire la tranquillità di un buon battibecco.
“Stai attento, idiota” lo salutò la madre, ripartendo con una sgommata nella sera grigia di Tokyo.
 
Shikaku Nara aveva il cervello bollito. Con il caldo che faceva e tutta l’acqua che aveva bevuto per combatterlo, non si sarebbe sorpreso se qualche parte del suo corpo si fosse cotta a bagnomaria. Era nella stanza più fresca della casa, il salone, seduto sul divano bianco con di fronte un plico traballante di fogli incolonnati alla rinfusa ed altri cento sparsi sul tavolino, pieni di formule matematiche ed algoritmi complicati. Stava inseguendo la sua solita fissa: la teoria dell’esistenza di universi paralleli; si chiese se, in un qualunque altro mondo speculare al proprio, un altro suo se stesso avesse avvalorato la sua teoria. Era questione di tempo, lo sapeva, era su una buona pista, doveva soltanto concentrarsi ed aspettare l’ispirazione. Yoshino, grazie a Schrodinger, era sempre fuori per lavoro (essere un procuratore distrettuale doveva essere una tale noia!) e Shikamaru, tra la nuova ragazza e l’università non aveva molto tempo da dedicare al suo vecchio, quindi Shikaku aveva tutta la calma e la tranquillità che gli servivano per correre dietro ai suoi folli progetti.
“Entanglement… ‘sollecitazione di una particella subatomica’… teletrasporto…” continuava a ripetere da ore, tracciando le costanti e i parametri atomici su un pezzo di carta di giornale. Nel retro della sua mente c’era una specie di ronzio che gli impediva di fissarsi completamente sui propri calcoli.
Perché Yoshino non lo aveva ancora chiamato? Lo chiamava sempre dopo essere uscita dal tribunale, che fosse andata bene o male; e perché sarebbe dovuta andare male? Era da settimane che preparava il discorso per la giuria, persino lui ricordava a memoria le parole della sua arringa. Dov’era, la bambolina di porcellana?
In quello stesso istante, la porta d’ingresso sbatté con un terribile fragore, facendolo sobbalzare.
“Ma che diavolo…?” imprecò, mentre si alzava in piedi per andare a controllare cosa fosse stato a provocare il rumore molesto. ‘Peccato’ che il suo movimento fosse stato bloccato dalla propria compagna, la quale gli si era letteralmente buttata addosso ed aveva preso a baciarlo furiosamente.
“Mph! Yosh…” tentò di parlare Shikaku, il cervello che da bollito gli si friggeva istantaneamente alla visione della gonna sollevata di Yoshino ed alla buona porzione di fondoschiena lasciata in mostra da questa.
“Sta’ zitto, sta’ zitto” mugugnò lei, le mani che si infilavano oltre la maglia slabbrata per toccare i dorsali allenati. Shikaku sorrise contro la sua bocca, ricordando le ore spese in palestra sotto lo sguardo scioccato dei suoi due migliori amici soltanto per irrobustirsi un po’ e piacerle di più… oh, quanto ne era valsa la pena!
“Tesoro, andiamo in camera da letto” sussurrò Shikaku, afferrandola per i fianchi che muoveva tanto bene sopra il suo bacino, “se Shikamaru torna e ci trova così…”
“Shikamaru non torna a casa stasera” sussurrò la donna, affannata, riempendogli il collo di baci e morsi in egual misura, “sei mio… sei tutto mio…”
Oh” seppe di aver impresso un po’ troppo compiacimento in quel monosillabo, ma con le labbra di Yoshino sul mento non gli riusciva proprio di restare calmo. Le sue mani callose salirono ad accarezzarle i seni, così lei non fu in grado di reprimere un brivido misto ad un gemito.
“Sarà che la materia è solo energia ed elettricità… ma senti qua…” sospirò Shikaku al suo orecchio, “senti che roba…”
“Non fare il nerd anche mentre facciamo sesso, Shika” si lamentò Yoshino, sciogliendogli i capelli che andarono a solleticarle le guance.
“Non fare finta che non ti ecciti, Yosh” Shikaku le mordicchiò un orecchio per dispetto, attirandola più vicina a sé, “ti piace quando faccio il nerd, è bello essere attratti dall’intelligenza.”
“Oh, risparmia il fiato Nara” lo riprese la consorte, sbottonandosi la camicetta con un sorriso a trentadue denti, “stanotte saprai dire solo ‘Yoshino’.”
Le predizioni di Yoshino si rivelarono autentiche: Shikaku quella notte finì davvero per urlare il nome della compagna durante l’orgasmo, più volte anche.
Yoshino boccheggiò un’ultima volta mentre il Nara le baciava lo stomaco nudo, entrambi affannati, le gambe le tremavano per il picco di piacere appena raggiunto. La donna gli gettò le braccia al collo e le loro labbra si incontrarono in un’interazione lussuriosa, piena di passione intensa e travolgente.
Shikaku ansimò contro le sua bocca, voltandosi supino e trascinandosela addosso, le mani che le accarezzavano la schiena morbida e liscia, le loro gambe intrecciate. Erano ore che andavano avanti, fermandosi solo per riprendersi dalla libidine appena consumata, Yoshino gli dava soltanto il tempo strettamente necessario a recuperare le energie e ricominciare, non c’era un attimo di respiro.
“Calmiamoci un attimo” le sussurrò, la voce roca era resa ancora più vibrante e graffiata dall’affanno. Percepiva il cuore di Yoshino contro il petto, batteva veloce come un piccolo uccellino in gabbia che tenti una disperata fuga attraverso le sbarre della sua cassa toracica. Stavano andando troppo di fretta, Yoshino non dava a nessuno dei due il tempo di godere delle loro azioni e non sopportava essere interrotta.
“Che hai, piccola?” Shikaku le baciò una guancia, i denti che andavano a segnare la pelle tenera e diafana della spalla, “stai pensando a me, o hai la mente altrove?”
“Certo che penso a te, stupido” Yoshino lo rimbrottò, le mani che si intrecciavano dietro la sua nuca e lo spingevano verso l’incavo del suo collo, dove la barba ispida di Shikaku la solleticava e le pungeva l’epidermide, “ne ho solo voglia.”
“E sarei felice di questo, in condizioni normali” Shikaku annuì, pizzicandole la guancia con le labbra arricciate in un ghigno canzonatorio, “molto felice, come tu ben sai. Ma non stai facendo l’amore per divertiti piccola, mi stai scopando e basta. Che è successo?”
La testa di Yoshino collassò sul cuscino accanto al suo. “Sei sicuro che non preferiresti essere scopato, Shika? Vuoi proprio parlarne adesso?”
“So che me ne pentirò, ma sì” il fisico teorico sorrise, la mano si mosse adagio tra i suoi capelli scuri e leggermente arricciati per il sudore di cui erano ricoperti. Cosa poteva mai essere accaduto di tanto terribile?
Yoshino scandì il nome seguente con lentezza, quasi come ad assicurarsi di sapere bene come si pronunciasse. Ogni sillaba scivolò sulla schiena di Shikaku con la stessa simpatia di un cubetto di ghiaccio gelido in pieno inverno, come stille di neve fredda sulla pelle nuda: glaciale ed incandescente insieme.
Shibi.”
La bocca gli si schiuse per lo shock: era da quasi vent’anni che non sentiva Yoshino mormorare quel nome, e grazie ad Heisenberg era la prima volta che lo sentiva dire in una situazione del genere.
Per alcuni secondi non si udì nulla nella stanza, nemmeno i loro respiri. Yoshino tratteneva il suo per paura della reazione dell’uomo, Shikaku semplicemente era troppo sconvolto per immaginare una possibile reazione da mostrare.
“Cosa è successo, Yoshino?”

Qualche ora prima, Tribunale minore di Tokyo.


“Avvocato per la difesa: Aburame Shibi.”
Yoshino ruotò la testa di scatto, incredula e sconcertata. Che diavolo ci faceva in un tribunale penale? Perché stava difendendo un criminale? E, ancora peggio, perché era dall’altro lato della barricata?
“Avvocato Aburame, è in ritardo” lo fulminò il notaio da sopra gli occhialini in equilibrio sulla punta del naso. Yoshino sapeva quanto detestasse non essere puntuale, ma anche il signore era stato piuttosto scortese: Shibi era di un quarto d’ora in ritardo, non così imperdonabile in fin dei conti.
‘È il colore della sua pelle, è soltanto il colore della sua pelle’ Yoshino strinse i pugni involontariamente, fulminando il vecchio notaio da dietro le spalle del proprio avversario. Una donna avvocato nella Tokyo misogina ed un hafu di colore nel Giappone razzista: almeno se la sarebbero giocata ad armi pari, pensò con una lieve punta di sarcasmo acido.
“Mi scuso per la mia distrazione” l’uomo si inchinò brevemente, l’attimo successivo era già in piedi davanti al banco del notaio a controllare le prove fornite dall’accusa.
Yoshino era confusa: l’eccitazione degli attimi prima del processo si era tramutata in orrore alla vista dell’uomo che avrebbe dovuto fronteggiare. Tra tutti gli avvocati del Giappone, perché proprio lui? Perché proprio il suo sempai, il suo maestro? Perché proprio… lui?
“Avvocato Yukinohana” la voce del giudice la riprese con disapprovata fermezza, risvegliandola dal torpore.
Maledizione, Yosh! Devi svegliarti! Quel tizio in un’aula giudiziaria è capace di schiaffeggiarti talmente forte da farti tornare a casa piangendo come una scolaretta! Concentrati!
“Prima di procedere con le altre fasi del processo, vorrei far notare un’incongruenza nelle prove fornite dall’accusa che sfavorisce il mio cliente” la voce sottile ma incisiva di Shibi era come il suono stregato di un flauto per la giuria, i loro occhi erano incollati sulla figura alta e robusta dell’avvocato come quelli di un serpente davanti al proprio incantatore.
“Incongruenze?” la frase di Yoshino schioccò come una frusta sul pavimento, non si rese nemmeno conto di stargli parlando per via diretta dopo più di diciannove anni dall’ultima volta. Le parve quasi di sentire il dondolio di una canoa sull’acqua del laghetto circondato dagli alti sempreverdi sotto i suoi tacchi a spillo.
“Incongruenze, avvocato Yukinohaha” confermò l’uomo con la pelle scura, i suoi occhi color pece risalirono lentamente la figura di Yoshino fino ad amalgamarsi nel suo sguardo nocciola, “false dichiarazioni, a dire la verità.”
“Potrebbe essere più preciso, avvocato Aburame?” la vista di Yoshino si assottigliò pericolosamente, mentre Shibi estraeva dalla tasca interna della giacca classica una busta chiusa. Sembrava pesante, e Yoshino presagiva già il contenuto di quella minaccia in filigrana costosa: fotografie compromettenti. Shibi era il maestro delle controprove, la donna lo sapeva bene.
“Il miglior testimone dell’accusa è, come tutti ben sappiamo, uno dei più noti rivali politici del mio cliente: Iburi Gotta, zio della vittima e quindi emotivamente coinvolto nel caso in più di un modo” Shibi camminava con calma attraverso l’ampia aula, Yoshino non aveva il coraggio né il fiato per interromperlo. Ayame la guardava come un naufrago perso nelle acque scure e schiumose del mare in tempesta, i suoi occhi erano presenti ma persi nel vuoto.
Quell’espressione la devastò tanto da spronarla a muoversi. “Questo non significa nulla, avvocato Aburame. Iburi-san ha promesso sulla bandiera di dire solo la verità, se iniziassimo a dubitare anche dei giuramenti solenni dei testimoni allora non ci sarebbe nemmeno ragione di iniziare un processo giudiziario. E noi di certo non vogliamo questo, o sbaglio?”
“Assolutamente, avvocato Yukinohana, assolutamente” Yoshino lo sentì trattenere un ‘not at all’ sulla punta della lingua, un sorriso conciliante per lei e la corte, “ma siamo sicuri che Iburi-san abbia realmente visto ciò che afferma di aver visto?”
“Si spieghi, avvocato Aburame” il giudice si stava spazientendo per il modo in cui Shibi ‘ostentava le sue credenziali’. Yoshino sapeva bene che l’atteggiamento di Shibi era ben lungi dall’esibizionismo: era una particolare tecnica oratoria, che si basava sulla ripetizione di alcune parole chiave e di determinati gesti delle mani. Maledizione, vederlo arringare era come riprendere in mano un libro della facoltà di giurisprudenza: quell’uomo era un avvocato dalla punta dei capelli scarmigliati a quella delle costose scarpe di pelle.
“Allora procedo. Chiedo che sia messo agli atti questo scontrino fiscale rinvenuto nella giacca indossata quella sera dal testimone Iburi Gotta-“ “-come l’ha avuta?”
Yoshino non riusciva a crederci. Quel bastardo stava veramente smontando la sua accusa? Lo sapevano entrambi che Tokuma Hyuga era colpevole!
“Al mio cliente è sembrato saggio ingaggiare un detective privato per indagare sulla famiglia della ragazza” Shibi replicò con aria seccata e tagliente, voltando il viso di qualche centimetro all’indietro per osservare Yoshino con la coda dell’occhio, “sarò lieto di mostrare a lei, avvocato, e a tutta la giuria il suo mandato.”
“Ora, come stavo dicendo” riprese Shibi dopo averla gelata sul posto, “questo conto è stato pagato con la carta di credito di Iburi Gotta, e reca il contrassegno fiscale del locale a luci rosse dove la signorina Ichiraku lavora. Secondo questo documento, il signor Gotta avrebbe consumato tre bottiglie di alcolici vari prima di allontanarsi dal bar all’ora dichiarata presso la polizia di Tokyo, nella quale dice di aver visto il mio cliente trascinare di peso la signorina Ichiraku in bagno.”
Dannato bastardo, dannato bastardo! Se Iburi veniva considerato un testimone non idoneo, tutta la loro linea d’accusa era mandata a puttane! Come poteva fare una cosa del genere? Maledetto figlio di puttana!
“Questi frame, invece” Shibi li mostrò alla giuria, prima di poggiarli sul banco del giudice, “sono stati estrapolati dalle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza del night club. In questa foto, è ben visibile Iburi-san bere in compagnia di una ragazza, presumibilmente non ancora maggiorenne, molto più piccola di lui. Questo, signori della giuria, è reato di somministrazione di alcolici ai minori, non ché di ipotizzabile pedofilia. In ordine a ciò, ritengo che Iburi Gotta non sia idoneo a presiedere a questa udienza preliminare.”
“Ti hanno spostato il processo per mancanza di prove?” Shikaku non riusciva a crederci. In diciannove anni di carriera in cui la compagna gli raccontava ogni singolo particolare delle udienze a cui aveva partecipato, era la prima volta che sentiva una cosa simile: rimandata per mancanza di prove.
“Quel bastardo vuole costringermi a patteggiare” Yoshino era riversa prona accanto a Shikaku, la guancia schiacciata contro il cuscino, voltata verso la finestra accanto a sé da cui filtravano lame di luna argentea, “spareranno una cifra enorme che Ayame non potrà rifiutare per insabbiare l’accaduto, e quello stronzo di Tokuma la passerà liscia senza farsi neanche un giorno di galera.”
Yoshino sorrise contro il cuscino, “è stato clemente, glielo concedo; anzi, a dire il vero, sono stata io sfacciatamente fortunata. Se fosse arrivato al momento della consegna degli atti, probabilmente mi avrebbe fatto a fette e quello stronzo di uno Hyuga se la sarebbe cavata senza spendere un centesimo.”
“Oltre alla parcella dell’avvocato” le ricordò Shikaku, baciandole la spalla, “oh, avanti Yosh, non ti farai buttare giù da un Aburame qualunque! E poi insomma, dannazione, se quella ragazza è stata stuprata, ha ragione lei, no?”
La donna si voltò verso di lui, frustrata. “Ma allora non capisci? Nel mio lavoro, torto e ragione non significano nulla! Lecito ed illecito sono soltanto parole per definire cosa portare davanti ad una giuria e cosa no! Niente ha un vero valore nel mio mondo, niente! Le nostre parole, i nostri gesti, persino le nostre reazioni emotive, vengono analizzate ed interiorizzate da coloro che ci osservano e giudicate! Lui non fa mai un passo falso, sa controllare ogni minimo sbalzo umorale, potrebbe sorridere col cuore pieno di rabbia e scoppiare a piangere nonostante la gioia! Quell’uomo è una macchina ben oleata col solo compito di vincere, vincere, vincere, vincere! Mi farà a pezzi, capisci? E non è… non è giusto! Mi fa persino dubitare della reale innocenza di Ayame, lui ti entra nella mente e ti confonde, non riesci più a ricordare chi sei ma soltanto chi devi essere per Shibi Aburame. Quell’uomo è… è… disumano.”
“Oh, più che disumano, quello è un vampiro succhiasangue nero come il carbone venuto fuori dalla peggior fanfiction su Twilight” Shikaku si chinò ad abbracciarla, maledicendo ogni singolo dio del cielo per lo stato di angoscia in cui era stata gettata la sua bambolina di porcellana, “ma ricorda che tu sei distruttiva, impulsiva, forte e terribile come un lupo mannaro, mia piccola Yoshino Black. Lo sfilaccerai in tribunale.”
“Non è vero” bisbigliò lei contro il suo petto, “non è vero. Mi farà a pezzi, Shika, mi distruggerà…”
“Ehi, seccatura, devi stare calma” le sussurrò all’orecchio, accarezzandole la schiena con movimenti lenti e circolari, “guardami.”
“No.”
“Guardami, Yosh.”
La donna sollevò gli occhi lievemente lucidi per incontrare quelli del compagno, ansiosi, spaventati, smaniosi di conforto. Il respiro che le abbandonava le labbra era inghiottito da Shikaku in un gioco interminabile di dare ed avere, esattamente come era sempre stata la loro relazione; concedersi, donarsi, accettarsi, amarsi.
“Andrà tutto bene, piccola” Shikaku tracciò col pollice il contorno delle sue labbra morbide ma piene di tacche di morso, “non dubitare di te stessa. Io credo in te, Yosh, come Shikamaru, come tutti quelli che ti amano.”
“Perché tu mi ami, vero, fricchettone?” Yoshino si abbandonò con la fronte contro il suo petto, le iridi color nocciola erano ancora puntate nell’ossidiana di quelle appartenenti al consorte.
“Ogni giorno della mia vita, avvocata pazzoide” il pugno di Shikaku le sollevò il mento con garbo e grazia, facendola sorridere, “per ogni giorno in cui mi sveglio, sappi che tu sarai nella lista dei miei primi dieci pensieri.”
La donna rise. “Oh beh, tu pensi parecchio, quindi essere tra i primi dieci non è male.”
Sì, essere tra i suoi primi dieci pensieri non era affatto male. Shikaku aveva la mente costantemente occupata da idee, progetti folli, numeri, algoritmi, date, nomi… eppure in quel totale caos, esisteva una costante capace di riordinare ogni elucubrazione e confinarla nel proprio angolo: lei. Yoshino era il valore X della sua vita, il trucchetto algebrico col quale cavarsi d’impiccio da ogni situazione. Lei era il suo principio di indeterminazione, lei era l’indeterminata ed indeterminabile incognita sempre presente nella sua vita, ma mai compresa appieno nella sua indomabile concretezza. Yoshino era un’idea, un progetto, un sogno… una donna di diamante, robusta certo, ma soprattutto sfaccettata e dannatamente bella, brillante.
Shikaku scosse la testa. Dannazione, l’aveva fatto di nuovo: era andato in tilt per colpa di Yoshino.
“Che ne dici di essere il primo per un po’?” le mani di Shikaku si spostarono giù lungo la sua schiena, e Yoshino per tutta risposta sorrise maliziosa, fremente.
“Per una decina di minuti, Nara?” Yoshino scoppiò a ridere nel vedere la sua espressione ferita, baciandolo sonoramente sulla guancia sfregiata, “dai che scherzo, Brontolberg! Vieni qui… ho freddo…”
“A Giugno?” Shikaku sorrise, “poi sono io quello con le scuse patetiche per fare sesso!”
“Vuoi che ti mandi in bianco, fricchettone?”
“Oh santo cielo, no.”

5 Giugno 2015, ore 23.12, Tokyo, Giappone sud-occidentale.


“Otousan” mormorò stanco un ragazzo dai capelli scuri appoggiato contro lo stipite della porta del suo studio, “devi mangiare qualcosa. È da due giorni che digiuni.”
Shibi alzò gli occhi dalle carte, stranito. “Cosa? Io… l’ho dimenticato di nuovo, vero?”
Shino annuì, strofinandosi gli occhi per il sonno mentre trascinava un carrellino di legno all’interno della stanza. Su di esso trionfava una ciotola di zuppa tiepida, non uno dei pasti più fini che avesse mai consumato, ma di certo il migliore a cui potesse pensare per gli improvvisi crampi allo stomaco che lo avevano attanagliato non appena suo figlio aveva nominato la necessità di mettere qualcosa sotto i denti.
Posò la ciotola sulla scrivania, spostando per un po’ la miriade di fogli che aveva letto e riletto con avidità disumana. Immerse il cucchiaio nel liquido e ne portò una piccola quantità alla bocca: immediatamente, un senso di pienezza lo avvolse; solo in quel momento si rendeva conto di quanto era in effetti affamato.
“Com’è andata in tribunale?” chiese Shino. Una sedia scomoda giaceva nascosta in un angolo buio dello studio, così lui la spostò accanto alla scrivania del padre e vi ci sedette. Era stato tutto il giorno all’università, mentre Shibi era da poco tornato da un appuntamento di lavoro col padre di Hinata, Hiashi Hyuga: non si erano visti né parlati dal mattino, quando si erano fatti gli auguri reciproci per il buon trascorrimento della giornata.
“Tokuma non voleva presentarsi in aula, aveva troppa paura della sentenza, quindi ho dovuto passare tre quarti d’ora nel salone di mister Hyuga per cercare di convincerlo” sbuffò l’Aburame maggiore, facendo rimbalzare il cucchiaio di acciaio contro la ciotola di ceramica, “questo ci ha ritardati di parecchio, e quando siamo entrati...”
Shibi dovette inspirare ed espirare lentamente per impedirsi di lanciare tutto in aria. Potevano esserci decine di centinaia di procuratori distrettuali pronti a sovrintendere a quel processo, letteralmente; perché, perché, perché, perché doveva essere proprio lei la sua avversaria? Non appena l’aveva vista, quando era sulla soglia dell’aula, si era sentito mancare: erano più di vent’anni che non posava gli occhi su di lei, ed un’ondata di ricordi lo aveva travolto fino a stordirlo.

“Shibi-sempai! Ti prego, aiutami a superare quest’esame! È troppo difficile per me, non ne sarò mai capace! Ti prego, tu sei lo studente più brillante di tutta l’università, puoi farlo ad occhi chiusi! Ti prego, ti prego!”

“Ah, cosa… hai le mani fredde, Shibi-kun! No no no, ti prego, hai le mani… così…”

“Shibi, smettila! Dai, no, ti prego, sto malissimo in questa foto! E dai, non consumare una dannata polaroid solo per scattarmi foto in cui sai verrò uno schifo! La prossima ce la facciamo insieme, d’accordo? Tu però mi baci, caro mio!”

“Io… i-io credo… che… debba dirti qualcosa….”

Aveva sentito Hiashi ed altri uomini prorompere in esclamazioni sollevate ed era stato trascinato a forza nel presente. Quella non era più la sua Yoshino: se lo fosse stata, di certo non sarebbe stata dall’altro lato dello schieramento.
Era avanzato con forza lungo l’aula, la rabbia, il dolore, la vergogna lo rinvigorivano, ed era stato ad aspettare istanti che parevano vite eterne sotto il banco del giudice. Lei non si era mossa di un centimetro, stava dritta e composta al suo fianco come un fuso, gli occhi color nocciola dalle intense sfumature cioccolato erano fari puntati sul viso pallido e corrucciato del magistrato, il modo in cui vestiva, le scarpe che indossava, il dolce profumo Lancôme dall’intenso aroma fruttato che riempiva l’aria accanto a sé… oh, era rimasta la stessa di quando l’aveva lasciato.
“…ho fatto il mio discorso e sono riuscito a rinviare il processo.”
“Solo rinviarlo?” Shino ribatté, sorpreso, “erano settimane che ti preparavi… credevo volessi fare di più che rinviarlo…”
“Colpa delle tempistiche” spiegò Shibi, passandosi una mano sul volto dopo essersi tolto gli occhiali, “bastava presentarsi un quarto d’ora prima ed avrei chiuso i giochi in modo pulito, senza dover andare al patteggiamento…”
“Lo temi?” chiese Shino educatamente, piegando di poco la testa per analizzare le reazioni del padre: di norma, non era mai così sconfortato per un patteggiamento, vista la disponibilità economica dei suoi clienti; bastava limare il querelante fino a fargli sputare fuori dai denti una somma accettabile per cancellare tutte le tracce di quel processo, sborsare l’indennità richiesta dagli avversari e poi andare a riscuotere la sua quota. Shibi non aveva mai perso un processo, mai. Perché era tanto dubbioso con questo in particolare?
“Devo vedermela con una brutta gatta da pelare, questo è certo” annuì l’uomo, posando il cucchiaio nella ciotola vuota, “quindi faccio bene ad essere preoccupato. Spuntarla contro la Yukinohana non sarà affatto facile come mi aspettavo.”
“Hai vinto contro i migliori nomi della giustizia giapponese, otousan” lo rincuorò il figlio, cercando di non invadere lo spazio personale dell’uomo con la pelle scura, “hai vinto contro Hoshigaki, Hozuki, Hatake addirittura… non dovresti preoccuparti di una semplice donna avvocato.”
Shibi sorrise, provato dalla stanchezza. Le occhiaie rendevano i suoi occhi neri ancora più penetranti, donandogli un’aria consunta che incideva sull’aura da maledetto di cui era circondato: un hafu, un innominabile, un peccato di gioventù, un emarginato. Era questo quello che tutti pensavano non appena posavano lo sguardo sulle sue forme così anti-giapponesi, sul suo corpo massiccio, sulla sua carnagione color caramello: un uomo segnato, deriso dal fato, destinato ad una carriera da fotomodello o, se proprio gli fosse andata bene, da PR. Ma lui aveva contraddetto ogni singola persona che aveva sputato fuori quella sentenza: era diventato il migliore avvocato dell’intero arcipelago nipponico, consacrando una già ben nota famiglia di difensori legali all’immortalità. Grazie a lui, il nome Aburame non sarebbe mai scomparso dai registri, ognuno l’avrebbe pronunciato con reverenza, timoroso del potere irresistibile che esercitava nei tribunali pubblici e privati.
“Sì, Shino, non dovrei, ma la formazione professionale della Yukinohana è pressoché inespugnabile visto che tuo padre ha ceduto all'errore più comune che un uomo possa commettere: rivelare ad una donna i suoi segreti del mestiere.”

6 Giugno 2015, ore 8.16, Tokyo, Giappone sud-occidentale

“Sarutobi-san” lo chiamò stanco un suo sottoposto, distraendolo dalla placida sigaretta mattutina che stava consumando nel proprio ufficio contravvenendo a tutte le norme possibili ed immaginabili per la sicurezza e quant’altro. Santo Iddio, che noia mortale doveva essere, fare il legislatore? Sempre lì pronti a vietare, ad abolire, a negare… Cristo, quei frustrati del cazzo potevano anche smetterla di rendere la vita delle altre persone un totale inferno!
“Che c’è stavolta?” il poliziotto sbuffò il fumo fuori dai polmoni, guardando con disapprovazione il novellino dalla coda dell’occhio. “Vi siete fatti male con le forbicine di plastica? Porca puttana, voi reclute siete la seccatura più-” “-c’è una donna per lei.”
“Una donna?” Asuma ripeté sorpreso, spegnendo immediatamente la sigaretta nel portacenere, “dimmi com’è.”
“Capelli neri, pallida, piccola, trent’anni forse…”
“Fammi indovinare: tacchi a spillo? Coda di cavallo? Profumo costoso?”
Lo sbarbatello sorrise, imbarazzato. “Sì… il capo dovrebbe saperlo?”
Asuma lo fulminò con lo sguardo, togliendo immediatamente i piedi dalla scrivania quasi come in una reazione istintiva. Quella donna lo avrebbe sculacciato con il battipanni se lo avesse trovato in quel modo, stravaccato alla scrivania come un qualunque ubriacone dopo una notte di baldoria… e svuotò il portacenere dei sette mozziconi consumati in quelle ore mattutine. Non si poteva mai sapere.
“Fai poco lo spiritoso, pivello. Falla entrare.”
Quando Yoshino Yukinohana fece il suo ingresso, Asuma si sentì sudare, e non a causa del caldo, né a causa della tenuta allettante della signora di fronte a lui -maledizione, ma dove li nascondeva quei quarantadue anni? poteva tranquillamente passare per la sorella gemella di una delle sue amanti!-, ma per il timore che quella sventola gli incuteva. Maledizione, quella donna non solo era il demonio, era pure un avvocato! Cosa voleva quella volta?
“Asuma.”
“Miss Tacchi a Spillo.”
Gli occhi a mandorla di Yoshino si strinsero con disapprovazione. “Porta rispetto, Sarutobi. Ti ricordo che il mio compagno ti ha insegnato a raderti.”
“Ha ragione” sospirò l’uomo, schiaffandosi teatralmente una mano in faccia, “Miss Tacchi a Spillo-san.”
Asuma la vide bollire di rabbia, prima di decidere che il Sarutobi le serviva vivo, e che questi faceva le veci del nipote orfano e quindi il suo assassinio avrebbe buttato un bambino che aveva già perso una volta entrambe le figure genitoriali in mezzo ad una strada. “Ho bisogno di un favore.”
Asuma strinse le labbra, guardando Yoshino attentamente. La sua espressione, da bravo avvocato, non tradiva emozioni, ma sul fondo dei suoi occhi riuscì a leggere un piccolo barlume d’ansia. Era chiaro che qualunque cosa la Yukinohana puntava ad ottenere, non era facile da acquisire. E probabilmente nemmeno molto legale.
“Sentiamo allora” l’uomo incrociò le braccia al petto, accavallando le gambe. L’ennesima reazione istintiva che gli capitava: si era in automatico schermato dal possibile assalto della donna, il suo corpo si rifiutava di essere invischiato in simili questioni. D’altro canto, cosa poteva chiedergli Yoshino di tanto terribile?
“Ho bisogno che pedini una persona per me, Asuma” la donna si sporse sul tavolo, attirando i suoi occhi come una calamita, “ho bisogno di tutte le prove possibili di ogni illecito commesso da quel bastardo. Ti è chiaro?”
“Oh andiamo, miss Tacchi a Spillo, lavoro extra non retribuito? Così mi uccidi” Asuma sbottò in una risata incredula, “io sono della Omicidi, non della sezione ‘Buoni Samaritani che aiutano le donzelle in difficoltà’, chiedi a qualcun altro.”
“Hyuga Tokuma” Yoshino scandì quel nome lentamente, lo sguardo nocciola puntato nel castano scuro di Asuma, era come una pantera che non lasciava la presa sulla sua preda neanche da morta, “un mafioso figlio di puttana scagionato già da sette accuse, due proprio per omicidio di primo grado. So che anche tu vuoi sbattere in galera quello stronzo, Asuma… quante volte lo hai incriminato? Quante volte lo hai visto sfuggire alla giustizia? Dammi una mano, e ti giuro che lo sbatteremo in prigione per il resto dei suoi giorni.”
Oh, gli faceva gola, senz’altro. Coglierlo con le mani nel sacco, contribuire alla sua condanna… miss Tacchi a Spillo di sicuro sapeva il fatto suo in materia di convincimento. Maledizione, aveva promesso a Konohamaru di smetterla con le missioni sotto copertura in solitaria, avrebbe dovuto piantarla con quella merda, ore di appostamenti, notti passate fuori casa, sotto il sole, la pioggia, la neve, la tempesta… ma Hyuga Tokuma era un vero bastardo, uno di quelli che si meritava ogni tipo di soprusi, di malignità, soltanto per la tranquillità con cui perpetrava i suoi crimini.
“Tu sei una di quelle che ‘no’ non ha nemmeno idea di cosa significhi, eh, miss Tacchi a Spillo?” Asuma ridacchiò, scatenando un sorriso anche nell’amica, “allora fanculo, ci sto. Ma sappi che voglio una cena speciale alla fine del processo, con il tuo katsu kare segreto.”
“Sta bene. Ah, Asuma?” Yoshino si voltò poco prima di uscire dal piccolo ufficio che puzzava di nicotina, sul volto una strana espressione indecifrabile.
“Cosa c’è ancora, demone?” ragliò il poliziotto, stringendo un’altra bionda tra i denti. Quella donna era tanto sexy quanto rompiballe.
“Se hai tempo, trova anche qualcosa su un certo Aburame Shibi.”
“Aburame Shibi, hai detto? Il cioccolatino? L’avvocato?”
Yoshino sorrise, enigmatica. “Già. Non mi dispiacerebbe avere qualcosa anche contro di lui.”


La ragazza si teneva le mani sullo stomaco, vomitando gli ultimi pasti consumati di malavoglia al ristorante del padre. Tossendo, cercava di recuperare il fiato e la posizione eretta, ma le mancava qualunque forza nelle braccia. Giacque bocconi sul pavimento del bagno, la guancia schiacciata contro le piastrelle gelate, i capelli unti erano avvolti in secche spirali lungo la sua schiena, lo sguardo vacuo.
Oh, Aya-chan, sei così bella stasera…
Toglimi le mani di dosso! AIUTO, AIUTO!

Si mise a sedere di scatto, il cuore che le batteva forte nel petto. Sentiva una mano toccarle il viso, eppure sapeva che non era lì, era da sola, era sola. Nessuno poteva capirla. Il bassoventre le bruciava assieme allo stomaco, pieno di vergogna e ribrezzo. Aveva la tachicardia, non respirava nemmeno.
Tokuma-san, la prego, non mi faccia del male!
Shh, shhh, Aya-chan, va tutto bene. Il tuo unico scopo nella vita, piccola ingenua creatura, è quello di soddisfare gli uomini, persone degne di rispetto. Tu sei un esserino senza significato, dovresti apprezzare quello che ti sto offrendo…

Teneva gli occhi sbarrati, cercando di ritornare al presente, ma le memorie la inseguivano senza possibilità di scampo, nelle mani stringevano marchi arroventati che la segnavano come carne da macello. Lei era carne da macello, sacrificabile, inutile, senza scopo. No, non lo era. Sì, lo era. No, non lo era.
Ayame, guardami, io sono Yukinohana Yoshino, sono il tuo difensore legale per questo processo. So che sei confusa e non vuoi rivivere quella scena, ma è di vitale importanza che tu mi descriva esattamente nei minimi dettagli cosa è successo, così da impedire che una cosa del genere riaccada ad un’altra ragazza. Lo vuoi?
Tremori scuotevano la sottile epidermide come una bestia che lotti per liberarsi da pesanti catene d’acciaio. Deglutì, cercando di cacciare il magone sul fondo della gola. C’era qualcosa che la tormentava, che non la lasciava dormire, un’ansia, una preoccupazione, qualcosa di diverso dal perenne terrore di venire assalita che la costringeva a chiudersi in casa.
Chiudersi in casa… perché non l’aveva fatto anche ieri? Perché era andata al processo? Il giudice non le aveva dato scelta, “il protocollo” l’aveva chiamato. Quel verme strisciava proprio dietro il suo alto avvocato, un armadio a due ante nero come il legno invecchiato, tremava, pallido come un cencio. Brutto bastardo lurido schifoso infame, doveva provare quel terrore! Il terrore della legge, il terrore della giustizia!
Ma se le avesse ancora fatto del male? E se quegli occhi scialbi, argentei sotto la luce delle lampade al neon, iniettati di sangue, le avessero strappato i pensieri a forza dalla mente, come le sue sudicie mani avevano strappato i suoi vestiti?
NOOOOOO! NOOOOOO! NOOOOOOO! TI PREGO, LASCIAMI STARE!
Su, su, Aya-chan, non devi preoccuparti, a tutte le donne piace! Apri le gambe ora… APRILE TI HO DETTO!

La mano della giovane donna si infilò tremante tra le sue cosce per proteggere la sua intimità, sentendo i bozzi delle ferite che lui le aveva inferto sotto le dita. Sapeva che, se avesse indossato una gonna, divaricando le gambe i suoi occhi sarebbero stati colpiti dalla visione di estese e vergognose macchie viola, molte avevano i segni delle sue mani.
Cos’era, cos’era quella cosa? Perché non riusciva a capire cosa aveva così disperatamente bisogno di ricordare?
Per queste motivazioni, ritengo che Iburi Gotta non sia idoneo a presiedere a questa udienza preliminare.
Perché lo aveva fatto, perché? Perché aveva permesso che lui la passasse liscia? Perché l’aveva odiata così tanto da darle nuovi incubi, nuove manie, nuove follie? E se fosse entrato nella sua stanza mentre lei dormiva?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan, quello con i capelli scuri lunghi. È uno Hyuga, sai? Se si è interessato a te, ci tiri su bei soldi!
Il drink. Sì, Yoshino-san le aveva chiesto del drink. L’aveva bevuto? Sì. Era stato l’unico che lui le aveva offerto? Non lo ricordava. Aveva bevuto altro dopo? Non ne era sicura. I ricordi erano così confusi, lei non voleva riviverli ancora. Durante il sonno era già fin troppo difficile.
NOOOOO! TI PREGO, NOOOOO! COSA VUOI FARMI? COSA VUOI FARMI? SMETTILA, SMETTILA!
Maledizione, perché il Rohypnol non ha effetto?!

Rohypnol. Rohypnol. Una veterana del bar l’aveva citato una volta, ne era certa. Il Rohypnol. Rohypnol. Perché lo aveva nominato? Quando? Quando era entrata nella crew di ‘ballerine’ dello strip club, questo era certo. Lei e tutte le reclute avevano subito uno pseudo addestramento con i controfiocchi: niente sigarette, niente droghe e niente alcool che non fosse stato fatto controllare. Nell’alcool ci si può nascondere di tutto, aveva detto, ed aveva mostrato un piccolo flaconcino.
Rohypnol. Questo piccolo figlio di puttana qui è il peggior nemico di una donna: è droga da stupro. Questo stronzetto qui, con le sue belle pilloline bianche e blu, Dio ce ne scansi e liberi, potrebbe rendervi completamente fuori di voi: non ricordereste nulla del vostro aggressore, non riuscireste ad opporvi, sareste del tutto in balia degli stupratori. State attente, signorinelle, questo mestiere sarà anche il più antico del mondo, ma è e rimane uno dei più pericolosi.
Lui aveva detto che il Rohypnol non faceva effetto. Il Rohypnol doveva farle perdere coscienza di sé, doveva cancellarle la memoria. E se… se… se gliel’avesse effettivamente cancellata? Erano passate due settimane da quando lui le aveva messo le mani addosso… che lei stesse riacquistando nuovi ricordi? No, non voleva. Non voleva più pensarci, voleva scappare, voleva andare via, voleva annegare. Morire sarebbe stata una gran bella soluzione, morire per sempre, dormire, dormire per cancellare quella stanchezza cementata nelle sue gracili ossa di donna.
Oh, Aya-chan, oh, Aya-chan, Aya-chan! Aya-chan, sei così bella! Stai godendo, eh, puttanella?
Ayame, ti prego, ho bisogno che ti concentri per me. Chiudi gli occhi, ripensa a tutto quello che è successo. Ci sono buchi di tempo in cui non ricordi cosa è accaduto? Prima che il proprietario entrasse e ti togliesse Hyuga Takuma di dosso, è successo altro? È di importanza vitale per me saperlo, farebbe un enorme differenza. Riesci a dirmelo?

Lui non l’aveva stuprata. Lui non era entrato dentro di lei. Lui era stato fermato. Lei ricordava. Lui non era mai stato dentro di lei. Non c’erano tracce di lui dentro di lei. Lui non era mai stato dentro di lei. Lei ricordava.
Ayame, credi sia possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa? Magari mettendoti di nascosto qualcosa nel bicchiere mentre tu eri distratta? Non avere vergogna tesoro, non ci ascolta nessuno, ed io non dirò mai nulla ad alcuna persona. Ho solo bisogno che tu mi dica la più sincera verità. È possibile, Ayame?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan, quello con i capelli scuri lunghi. È uno Hyuga, sai? Se si è interessato a te, ci tiri su bei soldi!
È possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa?
Questo drink te lo offre il ragazzo al bancone, Aya-chan.
Rohypnol. Questo piccolo figlio di puttana qui è il peggior nemico di una donna: è droga da stupro.
Maledizione, perché il Rohypnol non ha effetto?!
È possibile che lui ti abbia drogata a tua insaputa?

“Yoshino-san” tossicchiò al telefono, lacrime calde e bollenti scorrevano sul suo viso freddo come il ghiaccio, il respiro corto sulle labbra, rannicchiata contro il muro, tremante, “Yoshino-san… la prego… ho paura… lui è qui. Lui è dovunque.”
“Calmati, Ayame, dove sei?” la voce della donna arrivò perentoria dall’altra parte della comunicazione, lei la sentì sterzare decisa, “rimani calma. Ci sono io con te. Arrivo presto.”
“Yoshino-san… lui era dentro di me.”
“No, Ayame, no, lui non ti ha mai toccata.”
“No, Yoshino-san, lui mi ha stuprata. Mi ha drogata. Non ricordavo, ma ora sì. Yoshino-san… lui mi ha sporcata.”

ladie’s a gentleman! (author’s corner)
Voglio aprire quest’angolo autrice con una correzione della versione beta fatta alla fic dalla Ky, che merita il premio Pulitzer per la genialità.
Contesto: flashback del tribunale. (il rosso è Ky.)
Dannato bastardo, dannato bastardo! Se Iburi veniva considerato un testimone non idoneo, tutta la loro linea d’accusa era mandata a puttane! Come poteva fare una cosa del genere? Come poteva difendere un uomo così sfacciatamente colpevole? (mi verrebbe da dire perché è stato pagato xD che fa, va con la lazio e dice che è colpevole il suo cliente? Mi inventerei qualche altro insulto!)
 
Non potrei aggiungere altro.
E invece lo faccio, perché devo spiegare due robe.
Yoshino ha avuto un periodo da Twilighter e se ne vergogna crudelmente, ecco da cosa deriva la battuta di Shikaku (oltre al paragone ovvio avvocato -> succhiasangue). Asuma nell’Alternative World di Rinne (in cui è ambientata questa fic) è un poliziotto della Omicidi, ed essendo Shishi un procuratore distrettuale si conoscono entrambi molto bene. Shikaku, assieme ad Inoichi e Chouza, è stato allievo di Hiruzen durante il suo percorso di laurea in fisica teorica, quindi si può dire che la famiglia Nara/Yukinohana sia pappa e ciccia coi Sarutobi.
Shibi, amore della mia vita, piccolo dolce negretto della mia esistenza <3 Oh, qual è il segreto che lega Shikaku, Yoshino e Shibi? Lo scopriremo solo vivendo <3
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e vi prego di farvi sentire nelle recensioni! <3
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori.
Kiss,
la vostra infiammata e dolorante Ladie.
   
 
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