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Autore: _sonder    25/06/2015    4 recensioni
In una battuta di caccia c'è la sfida di due avversari che fanno il loro gioco, fino a sfiancare l'altro e ad attendere la sua caduta.
| Questa storia ha partecipato al Summer Contest Special Edition "Royal Flush" indetto da My Pride sul forum di EFP. |
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Blue, Quent Yaiden
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Volta la carta
Autore: _Sonder sul forum / _sonder su EFP
Fandom: Wolf's Rain
Carte pescate: (Quadri: 8♦ e 4♦, 3fiches❂, Doppia coppia)
Tipologia + numero di parole: Oneshot, 2000 parole
Personaggi: Quent Yaiden, Blue, Russe Yaiden, moglie di Quent (qui ribattezzata Joanna), Cher e Hubb (solo menzionati)
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico
Rating: Arancione
Avvertimenti: Nessuno
Introduzione: In una battuta di caccia c'è la sfida di due avversari che fanno il loro gioco, fino a sfiancare l'altro e ad attendere la sua caduta.

(Partecipa al Summer Contest Special Edition "Royal Flush" indetto da My Pride sul forum di EFP)
Note dell'autore: L'aggressivo utilizzato nel testo indica il giocatore che rilancia, controrilancia e raramente fa call.
Piccolina è il nomignolo che Quent affibbia al povero Hubb durante il loro viaggio assieme.
Ho dato un nome di fantasia alla signora Yaiden, in quanto non ne esiste uno canon nella serie animata.

Volta la carta

Volevo guardare il mio recinto. Lasciare tutto oltre la staccionata: i problemi, gli intrusi e le belve. Giocare alla guardia contro pochi ladri, per lo più di bestiame, o scavezzacollo coi denti da latte e nessun santo da invocare; incamminarmi sul crinale e sanzionare i cacciatori che battevano i boschi nei giorni proibiti…

E mi ingannavo a credere in questa vita.
Chiudere la partita coi crimini di poco conto e accompagnare il cancello di legno, levare il cappello in alto e un saluto sbrigativo, non significava lasciare il male fuori dalla mia dimora.
Le bestie ruggivano a fauci aperte, i prati s’incendiavano di sangue rappreso sugli steli e nel cielo fischiava il vento, di un pianto ripetuto sulle cime dei comignoli; il fuoco allargava le braccia e stringeva le membra. Altre urla morivano tra le fiamme; restava la polvere da mangiare.

Quello che hai messo sul piatto, i risparmi di una vita, le piccole gioie a cui tenevi… stanno perdendo i loro contorni e restano alla vista degli altri sfidanti. Non sono più tuoi: neanche se li hai ottenuti col sudore della fronte, vincendo l’orgoglio, spezzando i denti e chinando il capo davanti a una manciata di arroganti.

Il piatto è zona franca. Non importa che la tua mano possa coprirlo allungando le dita.
Ciò che hai lasciato non torna.

Alla sera si chiudeva tutti un occhio in complicità, quando l’oste prendeva i mazzi di carte da sotto il bancone e la bisca allestita alla buona svuotava le tasche dei poveri disgraziati, per qualche soldo morso, dato che soltanto i denti potevano saggiare l’oro.
Il fumo si incollava ai vestiti come una donna di mestiere e l’alcol girava di pinta in cicchetto: raschiava la gola, scaldava e rendeva la mente leggera. Fra strida e vecchie storie, la notte si beveva tutti i malanni del tavolo tarlato.






Quent arrancava sulla salita col pelo irsuto che prudeva e il passo da orso. Gli alberi si drizzavano sull’attenti: rami lisciati dal nevischio e ceppi marciti stavano a testa alta. Sembravano tralicci fieri nella loro desolazione.

La tesa del cappello gli arroventava la fronte. E ricordava memorie e macerie, mentre macinava lo stuzzicadenti all’angolo della bocca. Tante persone che non esistevano più e tornavano a colmare i suoi silenzi, quasi a guidargli il braccio, perché restasse vigile e tendesse meglio il fucile.

Masticava e deglutiva a vuoto; aveva le labbra screpolate e la voglia di bere qualcosa di forte. Non allungava le dita verso la borraccia, teso nell’intuito da cacciatore, nel presagio di avvertire la preda scuotere la borraccina o spezzare le frasche cadute. Le iridi puntavano la distesa di ghiaia, dove i banchi di nebbia spiegavano un lenzuolo bianco. Un’atmosfera degna dei morti e del respiro fetido dei lupi.
Un brivido gli corse sulle ginocchia e aguzzò la vista per stracciare il velo pesante della foschia. Era sicuro che presto avrebbe udito il ringhio di Blue levarsi in un latrato sostenuto, la coda gonfia e il manto irto. Soltanto allora Quent avrebbe spianato le canne lucide e imposto loro di parlare, senza ammettere replica.
Sulle braccia dei tronchi era sospesa una spolverata di grigio, come in attesa del piombo e degli stormi alti a gracchiare i richiami del pericolo.

Blue avanzava sulle gambe esili. Le orecchie tirate indietro e la coda che schiaffeggiava qualche mosca. Era diventata inquieta e rassomigliava all’uomo che la seguiva. Da lontano, entrambi erano un’unica macchia di colore: un’ombra che cadeva sulla terra e strisciava incerta verso il crocicchio dei sentieri.

Dal fogliame, Quent udì i tordi zirlare e sentì lo stirare delle ali, pronte a precipitare e poi planare in volo. Tolse la sicura e accompagnò il loro tragitto, col gomito che indugiava e si dibatteva nel solito tremolio scomposto. Era colpa del bere.
Joanna, se fosse stata in vita, lo avrebbe ammonito con un unico sguardo. Quent avrebbe potuto pesare i suoi bronci al suono del mestolo che batteva sul pentolame, al tendergli un piatto di malagrazia.
Nell’orecchio, invece, rombava solo l’eco dei fruscii del bosco.

Un ringhio frantumò i tronchi malfermi e, dalle fronde secche, il corpo massiccio di un lupo saltò su di lui. Rovinarono ambedue sui licheni.
Quent percepì il sangue colare sul collo e alzò d’istinto un braccio a parare la furia delle zanne avventatesi su di lui. Il morso lacerò la pelle e penetrò la carne viva; sbraitò e aprì la mascella per cacciare un grido, che gli risalì dal petto e vomitò assieme a gocce di saliva, contro quel diavolo a quattro zampe.
Altri uccelli abbandonarono di fretta le chiome: parevano mosche che vorticavano nel cielo soffocato da foglie e rami rachitici.

Blue addentò una zampa posteriore del lupo, nell’atto frettoloso di tirarlo via: il pelo chiaro si macchiò di sangue. Strattonò, ma la fiera fissava negli occhi Quent; alla pari e con identica ferocia, serrò la bocca sul braccio.
Le iridi piccole di Quent si riempirono d’odio: tastò la cartuccera e i proiettili rotolarono sugli sterpi. Spinse le dita sino alla tasca interna del trench e la mano tremolò di nuovo, come la fiammella di un cero. La vista sdoppiò le forme e la testa gli dolse: strinse le palpebre per vedere abbastanza e centrare il bersaglio.

Poggiò le canne della pistola fra gli occhi dell’animale e sparò un colpo.
Ci fu silenzio.

“L’ho preso, quel maledetto.”
Affamato d’aria, emise più di un respiro a pieni polmoni.
Blue appiattì il muso sul braccio e leccò la ferita. Quent strusciò i canini gli uni sugli altri. Bruciava: più del rancore che nutriva e gli torceva le viscere. Scansò il cane con un gesto brusco e tornò sui propri piedi, barcollando.
Il fucile pesava: sangue e sudore si erano uniti e fluivano sul corpo come neve sciolta. Al naso giungeva un odore di fango e di pino.

Il lupo muoveva ancora l’addome. La pelliccia si gonfiava di vita e si aggrappava alla possibilità di resistere. Come un giocatore che non riusciva ad abbandonare il tavolo per tempo. Non mollava l’opportunità di ribaltare le carte della sfida. La disperazione rendeva i lupi pericolosi. Di una tenacia che non era seconda al risentimento che Quent covava per tutti loro.
Li avrebbe estirpati. Uno ad uno. Avrebbe voltato la carta e affrontato la battuta di caccia, aggressivo.
Si avvicinò all’animale. Fra i denti stringeva la cintura dei suoi pantaloni e adagiò il tronco del revolver sulla pelle dilaniata. Le molle dei percussori scattarono.
Lo schioppo scosse le chiome e spennò gli uccelli di qualche piuma.

In giorni remoti, la caccia era stata un passatempo da praticare in compagnia dei compaesani. Gente cresciuta spalla a spalla, che Quent aveva misurato con i semi delle carte. Si appendeva la vita sulla soglia di casa prima del far dell’alba e, sulle pendici della collina, dove i crestoni delle rocce si inasprivano, era d’abitudine fermarsi a mangiare un tocco di pane e un po’ di formaggio stagionato.
Con le prede da stanare si instaurava un legame intimo. A vittima abbattuta, si moriva con essa e si raccoglievano le miglia percorse dalla selvaggina, l’erba brucata e le notti vissute negli anfratti della boscaglia.
C’era rispetto, perché si sosteneva un confronto in cui vinceva il più astuto. Si svuotava il cuore e si ingannava l’avversario.

Quent squadrò la carcassa ai suoi piedi e calcò il cappello.

“Sono lune finite.”
*

Ingollò d’un fiato dal bicchiere. Sentiva il fuoco in gola. Placava i rimpianti e fondeva l’odio con le sue carni. Gli occhi cisposi squadrarono com’era ridotto il compagno di viaggio. Ne aveva visti di borghesucci imbellettati sino a odorare di donna. Quella piccolina era messa male.
Aveva perso contro una regina. Gareggiare a viso scoperto contro una donna era pura follia.

Quent crollò di peso sulla seggiola e allacciò le mani dietro la nuca. Sbirciò in direzione del damerino e della bionda. Le dita di quella femmina portavano una pesante traccia di alcol. Non a buon mercato. Ed erano agili e svelte come caprioli. Non c’era dubbio che il ragazzo fosse costretto a inseguirla… e più lei s’imbizzarriva, più il pollo desiderava avvicinarla.

Sua moglie era stata di tutt’altra pasta.
Alle mani di Joanna aveva provato risparmiare la vecchiaia, le spine e i morsi delle ortiche. A quelle mani da sartina aveva desiderato evitare il soffio dell’inverno. Permettere una vita da signora. Lei, però, si era opposta. Aveva governato la casa e si era caricata di lavoro come se avesse potuto portarlo tutto sulle spalle.
Delle sue dita avevano fatto scempio l’incendio e un branco di lupi.
Delle sue spalle rette serbava il ricordo nitido.

Sviò lo sguardo all’angolo della taverna. Il vociare degli uomini ronzava fra pesanti apprezzamenti alle cameriere e insulti alticci. Puntavano beni materiali. Ormai il denaro era un lusso dentro bettole simili.

Il tavolo verde gli ricordava la piana della sua cittadina. Il verde delle querce possenti da cui filtrava oro diverso da quello delle monete.
Lungo la valle correvano tanti giovani. Si ergevano, ciuffi di erba alta e capricciosa, a sfidare la corsa del vento. A gonfiare le vele del rischio e ad alzare la posta con facce di bronzo. Tanti sbarbatelli da tenere in riga gli passavano sotto gli occhi. Ed era un fiume di lavate di capo, tirate d’orecchio, minacce di bussare all’uscio di casa e avvertire i genitori.

La domenica usciva con la sua famiglia. Si alzava il vento in mattinate senza traccia di scuro all’orizzonte.
Quent chiamava Russe e Blue, che ancora giocavano a rincorrersi a qualche metro di distanza. Joanna rideva e lamentava la sua morbidezza nei confronti del bambino. Da coniugi dovevano essere due sceriffi. E lei il più severo dei due.

E intanto la sera era scesa, imprevista e frettolosa; aveva steso le nubi cariche dei primi temporali…
Quent camminava mano nella mano con Joanna e teneva il naso alto. Le narici dilatate inspiravano l’odore di carne alla brace del vecchio Gordon, dal fondo della china dove si trovava l’osteria. Una colonna di fumo si sollevava esile nell’aria satura di umidità. C’era anche la promessa del bagnato e la muta risposta della terra, che si preparava a ricevere acqua.
Un sorriso si allargava sulla sua bocca alle prime gocce del rovescio. Joanna non gongolava affatto e gridava a Russe di non saltare nelle pozzanghere. Non le avanzava tempo di badare alla febbre in caso di malattia, perché in casa aveva del lavoro arretrato da finire. Stirare i panni della signora Wilson, rammendare i calzoni del giovane Petir, che intendeva partire per la città…

Intriso di ricordi, Quent lanciò due monete sul bancone e inforcò il suo cappello. Durante la venagione lo riempiva d’acqua e lo usava come una scodella per dissetare Blue.

Fuori dal locale, le mura erano consumate da graffiti ed edera molesta. Sull’acciottolato lucido e scivoloso, l’acqua scorreva con rapide inarrestabili. Tetti e grondaie sputavano fiotti e lo scrosciare del nubifragio colpiva le guance di acciaio e pietra della città.

Col volto molle di pioggia, Quent guardò l’ombra dell’albero dirimpetto la taverna. Tenue e piccola rispetto a quella del pioppo che gli offriva riparo nelle valli di Kyrios.
Aveva rami nodosi ed era un vecchio ceppo dalla corteccia spenta. Ne aveva viste più di lui. Quel mondo che cadeva a pezzi, ormai non era posto per gli anziani.
Non era luogo per gli uomini.

Penetrando la radura ai confini della città, Quent realizzò quanto aveva perso. Sulla destra del trench aveva ancora un ultimo asso da giocare. Qualche goccio di liquore per bagnare le labbra. Il portafogli che custodiva la foto di famiglia. Gli anni sulla fronte: grammi di esperienza che pesavano più del suo spirito, in un mondo impazzito.




Volevo soltanto proteggere il mio recinto. E mi ero ingannato. Perché chiudere in casa la mia famiglia, pensando che le mura bastassero a difendere dalla crudeltà, aveva mutato coloro che mi erano cari in bestiame.
Perché in un recinto la carne è debole e impreparata. Non esiste legno o spranga che trattenga la violenza esterna.
Non c’è pastore che sappia rendersi scudo, quando la morte volta le carte.




L'angolo di Son: Era da tempo che intendevo scrivere nel fandom di Wolf's Rain. Guardarlo e leggere il manga sono esperienze da fare almeno una volta nella vita. Gonfiano il cuore e lo annientano, anche. Ho amato tanto i personaggi di questo bellissimo anime. Per una volta preferisco la versione animata a quella cartacea, che diverge parecchio dalla serie.
Perché scrivere di Quent e della sua famiglia? In un certo senso avevo bisogno di vederli assieme. Di immaginare la loro routine.
Fermo restando che la sceneggiatura dell'anime - per me - era solida e completa.
E questo è il risultato. Non so se sono riuscita nell'intento di trasmettere la vita e il senso "filosofico" che davano gli uomini di un tempo alla caccia. Ed è buffo pensare a come valutiamo diversamente le cose se le viviamo in prima persona o in terza.
Quando si apriva la stagione negli anni di guerra cacciare era simile a ciò che facevano gli indiani: si stanava la selvaggina per sopravvivere e mangiare e ripararsi dal freddo. Se questo poteva essere vero anche per Quent, è un paradosso ciò che è avvenuto dopo. Ed è tragico. Chiudere gli occhi e affidarsi a una verità, convinti che non ci abbiano ingannato, convinti che sia proprio chi odiamo a essere la ragione della nostra tristezza. E quando si comprende la portata dell'accaduto, il risveglio è brusco.
L'intento era quello di accostare la caccia al gioco delle carte, con qualche accenno al poker. Solitamente da spettatori o appassionati si cerca di dare significato alla passione, qualificandola secondo uno schema di valori condiviso (rispetto, competizione, rapporto creatosi fra avversari); più spesso da giocatori contano la vittoria o la sconfitta. Ed era ciò su cui volevo far ruotare Quent, con la sua nostalgia, il senso del tempo…
  
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