4- SAPORE DI MIELE
"Ehi,
Chiara! Pomeriggio ti va di andare a fare un giro?".
Mi
voltai verso Carlo, sorridendo mentre prendevo la mia merenda dalla
macchinetta. "Mi dispiace, ma non posso".
"Dai",
insistette lui, "È bel tempo oggi e non ho voglia di tornare
a
casa subito", mi pregò, esibendo una discutibile faccia da
cucciolo bastonato.
"Ho già un impegno, davvero. Ho il
treno alle due e mezza, subito dopo scuola", gli spiegai, mentre
ci incamminavamo verso le nostre classi.
"Perfetto, ti
accompagno in macchina!", esclamò lui e, senza lasciarmi
nemmeno il tempo di rispondere, mi salutò e raggiunse alcuni
suoi
amici.
Sospirando, tornai in classe e mi sedetti al mio posto.
"Il paradiso non è più così rosa?", mi
prese in giro
Greta, seduta al mio fianco.
Le lanciai un'occhiataccia. "Scema",
sbottai. "È che Carlo...".
"Oh, Carlo!",
esclamò lei, ridendo.
"State davvero bene, insieme",
aggiunse Elisa sorridendomi dolce.
"Non stiamo insieme",
borbottai ricordandomi la discussione del giorno precedente con i
miei genitori. Ma perché cavolo tutti vedevano cose che non
c'erano?
Io e Carlo eravamo amici e ci comportavamo da tali, non capivo
davvero perché la gente continuasse a ricamarci sopra.
"Sì,
certo, per ora", mi zittì Greta. "Quindi che fate oggi?
Altra sessione intensiva di studio?", mi chiese maliziosa.
Ignorai la sua battutaccia e sbuffai. "No, ho appuntamento
dal fisioterapista", risposi lanciandole un'occhiata eloquente.
"Oh", si limitò a rispondere lei.
"Già, oh.
Ma Carlo ha deciso che vuole andare a fare un giro con me senza
nemmeno ascoltarmi. Lo picchierei quando si comporta così".
"Un appuntamento?", esclamò Elisa spalancando gli
occhi luccicanti.
Sbuffai. "Non è un appuntamento perché
non stiamo insieme. E soprattutto perché non usciremo
insieme".
"Vai a parlargli", mi disse ovvia Greta.
"Sì,
come se non ci avessi provato. Dopo lo tartasserò anche di
messaggi,
ma se ho capito qualcosa di Carlo è che ama decidere al
posto degli
altri. Imbecille", borbottai incrociando le braccia al petto.
Greta ed Elisa ridacchiarono, non convinte delle mie parole o,
più precisamente, della faccenda dell'appuntamento. Avrei
preso a
sberle anche loro, se solo non fossimo state a scuola e se non fosse
stato un gesto tremendamente infantile.
Sbuffai nuovamente,
nervosa, mentre la campanella che segnava la fine dell'intervallo
suonava. Sicuramente tutta quella tensione era dovuta al mio
appuntamento per quel pomeriggio, ma decisamente anche alla sindrome
premestruale che mi avvisava che in un paio di giorni mi sarei
ritrovata a volermi strappare le ovaie a morsi. Di bene in meglio,
insomma.
Come avevo detto alle mie amiche, che non avevano smesso
un attimo di fare stupide allusioni e battutine, riempii Carlo di
messaggi, ma alle due, quando suonò la fine delle lezioni,
lui non
ne aveva visualizzato nemmeno uno.
Mentre uscivamo dalla scuola
lo vidi appoggiato al cancello, come tutti i giorni, con alcuni
amici. Mi fece segno di raggiungerlo ma lo ignorai volutamente,
decisa a non rivolgergli più la parola, o i messaggi, fino a
quando
non mi avesse chiesto scusa. Per cosa, esattamente, non avrei saputo
dirlo: mi ero arrabbiata perché mi aveva incluso nei suoi
piani
senza nemmeno chiedermelo e, per giunta, aveva ignorato le mie
richieste di una spiegazione. Forse era un po' stupido reagire in
quel modo, ma non avevo alcuna intenzione di farmi comandare a
bacchetta da nessuno, e nemmeno di farmi dare ordini da un cretino
patentato.
Il cretino patentato in questione stava letteralmente
strillando il mio nome per tutto il piazzale della scuola e,
considerata la discreta fama che la ginnastica mi aveva attribuito e
il fatto che ormai tutti sapessero chi fossi, ogni persona al mio
fianco si voltò verso di me, guardandomi divertita.
Io continuai
imperterrita a camminare, con lo sguardo alto davanti a me e le gote
in fiamme. Stupido cretino patentato.
Non riuscii a fare però un
altro passo verso la salvezza, ovvero il mio pulman, che mi sentii
afferrare per la spalla e girare come se fossi una trottola senza
volontà. Mi trovai davanti gli occhi neri di Carlo e il suo
volto
corrucciato, ma non mi lasciai ingannare.
"Devo andare",
dissi tagliente.
"Ti avevo detto che ti avrei accompagnato
io", ribatté lui, prendendo un grosso respiro. Era ancora
più
carino così, mi ritrovai a pensare, con gli occhi lucidi e i
capelli
scopigliati dalla corsa. Mi lasciai incantare per un attimo e lui
continuò a parlare. "È successo qualcosa?", mi
chiese
quindi.
Alzai un sopracciglio. "Se non avessi ignorato i
miei messaggi lo sapresti", sbottai.
"Mi è morto il
telefono", disse semplicemente, tirandolo fuori dalla tasca e
mostrandomelo spento. "Non l'ho messo in carica stanotte",
commentò alzando le spalle.
"Devo comunque andare",
ripetei. "Ho un treno da prendere".
"Ti porto io",
ribatté lui, sicuro.
Incrociai le braccia al petto. "Potresti
almeno chiedermelo, ti pare?", sbottai.
Lui rimase un attimo
spiazzato. "Sì, beh, io ho dato...".
"Hai dato
per scontato che avrei accettato", continuai per lui,
interrompendolo. "Già", dissi solo, guarandolo ovvio.
"Merda", borbottò tra se, passandosi una mano tra i
capelli. "Sono uno scemo".
"Stupido idiota
patentato".
"Ehi", esclamò lui, sorpreso.
Lo
guardai un attimo poi scoppiai a ridere. Carlo mi seguì a
ruota,
scuotendo poi la testa. "Scusa, Chiara. Accetti un mio
passaggio?".
"In realtà", mormorai abbassando lo
sguardo. Non mi vergognavo a dire che avevo bisogno di un
fisioterapista, anche perché non ce ne era affatto motivo,
ma ero
restia a confessarlo a Carlo, principalmente per quella stupida
convinzione che lui rappresentasse il mio nuovo mondo e non volevo
mischiarlo con quello vecchio. Mi bastò però
alzare gli occhi nei
suoi per capire che era stupido pensarla in quel modo,
perché la mia
vita era una sola e la ginnastica ne avrebbe sempre fatto parte. "Ho
un appuntamento con il fisioterapista", ammisi. "Per il
ginocchio".
Lui si limitò ad annuire, senza guardarmi con
quella pietà o quella compassione che riempiva lo sguardo di
tutti
quelli a cui accennavo quell'argomento. "Okay. Allora ti
accompagno e poi ti aspetto, così andiamo a prenderci una
cioccolata", mi propose, allungando la mano.
Io lo guardai
incerta. Le mie sedute non erano sempre semplici e mi era spesso
capitato di tornare a casa con il cuore pesante e gli occhi gonfi di
lacrime e non volevo che Carlo mi vedesse così. Poi, sempre
per
un'illuminazione divina, mi resi conto che Carlo era proprio
ciò di
cui avevo bisogno per non cadere in quel baratro. Mi serviva sapere
che la mia esistenza si stava allargando anche ad altri orizzonti ed
era bello accorgersi quanto potessi rendere felice qualcuno anche
solo con poche parole. Fino a poco tempo prima mi ero convinta che
non sapevo fare molto altro, esclusa la ginnastica, ma riuscire a
condurre una vita normale era diventato quel traguardo che forse mi
avrebbe aiutata ad andare avanti e iniziare a vivere di nuovo.
Per
questo accettai la sua mano con un sorriso, seguendolo poi verso la
sua macchina. Per la prima volta, mi lasciai trasportare dalle mie
sensazioni e mi resi conto di quanto fosse bello tenere stretta una
mano così, semplicemente. Carlo aveva le dita lunghe e forti
e
avvolgevano le mie completamente, infondendomi una sensazione di
calore e benessere. Sentii una scarica attraversarmi la schiena
quando pensai ad altri usi che avrebbero reso giustizia a quelle dita
ed avvampai, sorpresa da me stessa. Da quando facevo pensieri simili?
Decisamente era l'influenza di Greta e delle sue confessioni e decisi
che non le avrei più permesso di raccontarmi in quel modo le
sue
avventure con Lorenzo.
La maggior parte del viaggio in macchina
fu silenzioso, ma non era quel silenzio pesante dato dall'imbarazzo.
Eravamo semplicemente consci entrambi che le parole erano inutili e
che significava molto di più la mia mano, ancora stretta
nella sua,
fissa sulla leva del cambio. Gli diedi le indicazioni per raggiungere
l'ambulatorio e poi continuammo a fluttuare in quell'atmosfera
tranquilla e pacifica.
Quando Carlo fermò la macchina nel
parcheggio, istintivamente, lo invitai a salire con me, soprattutto
per non lasciarlo da solo in macchina. Almeno, quello era
ciò di cui
mi convinsi.
Salutai Enrica, la donna all'accettazione e, sempre
con le dita strette nelle sue, gli feci strada fino alla sala
d'aspetto, dove mi sedetti, in attesa del mio turno. Carlo
iniziò a
muovere lentamente il pollice e, mentre lo guardavo ipnotizzata
disegnare immagini senza senso sulla mia pelle, pensai che avrei
voluto stringere quella mano per sempre.
"Quanto dobbiamo
aspettare?", mi chiese.
Alzai le spalle. "In teoria
sono la prossima, quindi non molto".
Lui annuì, pensieroso.
"Mi aiuti con i compiti di inglese, allora?", mi propose.
"Certo!", acconsentii allegra.
Lui estrasse il
libro dalla cartella e sentii come un senso di mancanza quando
sciolse le nostre dita per prendere l'astuccio e la matita. Ma non
dovetti aspettare molto, perché appoggiò il libro
sulle sue gambe
e, dopo averlo aperto alla pagina giusta, mi riafferrò la
mano,
lanciandomi un piccolo sorriso.
Io avevo il cuore che batteva
all'impazzata e faticai a concentrarmi sulle sue frasi da completare,
completamente persa nella sua stretta calda e rassicurante.
Poco
dopo il dottor Calvani uscì dal suo studio e, di nuovo,
dovetti
lasciare la mano di Carlo. Lui mi guardò, sempre con quel
sorriso
dolce dipinto sulle labbra, ed entrai in quella piccola stanzina con
la testa tra le nuvole e il cuore leggero. Mi sentivo come se potessi
volare.
Il dottor Calvani, Giorgio per gli amici o per i pazienti
di lunga data come me, mi guardò divertito, ma non disse
nulla. Mi
chiese del mio ginocchio e di altre cose che feci fatica a capire,
con tutte quelle nuvole rosa intorno al mio cervello. Mancava solo
l'unicorno bianco che cavalcava su un arcobaleno e sarei stata
completamente fregata.
Come avevo immaginato, la presenza di
Carlo nella stanza accanto e l'effetto che aveva su di me, mi
aiutarono ad affrontare la visita in modo più tranquillo.
Non ero
spaventata, soprattutto perché sapevo che ormai ero quasi
del tutto
guarita, ma non potei fare a meno di irrigidirmi quando mi
accennò a
quella maledetta proposta.
"Non l'ho detto a nessuno",
gli rivelai a voce bassa, mentre mi rivestivo.
Lui mi guardò
comprensivo. "Capisco cosa provi, Chiara, ma dovresti provare a
darti una possibilità".
"Io non ho più possibilità",
dissi veloce e dura. Ed era vero, alla fine. La ginnastica
professionale era ormai un mondo a porte chiuse, per me. Che senso
aveva continuare a sperare di poterci entrare?
"Invece sì, e
lo sai", ribatté lui, sospirando. "Ma è una
scelta tua,
ovviamente. Potresti parlarne con qualcuno di esterno a tutta questa
faccenda. Quel ragazzo la fuori, ad esempio", aggiunse con un
piccolo sorriso.
"Non sono pronta", mormorai,
chiedendomi per un attimo se fosse vero o se stessi solo cercando di
convincermene.
Lo guardai annuire, seriamente, mentre scriveva
qualcosa a computer. Poi sentii la stampante accendersi. "Metti
questa pomata quando ti fa male, ma cerca di non abusarne. Devi
riabituare il ginocchio agli sforzi ed è normale che se fai
qualcosa
di eccessivo all'improvviso diventi un po' dolorante. L'importante,
Chiara, è non pretendere troppo, lo sai".
"Sì",
risposi solo, prendendo la ricetta dalle sue mani. "Grazie mille
dottore", lo salutai poi.
"A presto, Chiara. E
pensaci", mi ripeté prima che uscissi dalla porta.
Già,
pensarci. Come se non avessi fatto altro negli ultimi mesi.
Continuavo a ripetermi che forse era troppo presto, ma in
realtà
avevo solo paura. Una fottutissima, tremenda paura.
Ogni brutto
pensiero, però, scomparve quando incontrai la figura di
Carlo. Aveva
riposto il manuale di inglese e ora teneva in mano un libro, in cui
sembrava completamente immerso. Lo raggiunsi lentamente, memorizzando
ogni dettaglio del suo volto così concentrato. Le
sopracciglia
arcuate sopra gli occhi scuri, i denti bianchi che mordicchiavano il
labbro e i capelli che gli ricadevano sulla fronte. Perché
all'improvviso mi sembrava di essere di fronte ad un angelo?
Mi
tornarono in mente le parole del dottore ma scossi in fretta la testa
per cancellarle. Ora volevo solo sorridere. Per questo mi sedetti di
nuovo vicino a Carlo, che alzò una mano per avvertirmi di
non
interrompere subito la sua lettura. Finì probabilmente un
paragrafo
e poi alzò la testa, sorridendomi. "Finito?", mi chiese.
Annuii. "Cosa stai leggendo?", gli chiesi curiosa.
"Oh, una stupidata. Adoro i fantasy", si giustificò,
mostrandomi la copertina.
"Hyperversum", lessi. "È
bello?".
"Dipende. Ti piacciono i videogiochi e la
storia?".
"I videogiochi non molto, lo ammetto; la
storia sì".
"E allora potrebbe interessarti",
disse chiudendolo e infilandolo nello zaino. "Te lo
presterò",
aggiunse.
"Credo che dovrà mettersi in lista con tutti gli
altri libri che ho sempre voluto leggere ma che non ho mai avuto il
tempo di aprire. Ora di tempo ne ho un sacco in più, quindi
credo
che ne approfitterò", dissi ridacchiando.
"Allora ti
consiglio un paio di titoli", disse alzandosi e porgendomi la
mano. "Cioccolata?", mi chiese poi.
Il mio sorriso si
allargò e mi affrettai ad alzarmi, stringendo poi la mano
nella sua.
Il mio cuore perse un battito, poi continuò a battere
tranquillo. Mi
piaceva la sensazione che il suo tocco mi infondeva, forse
perché
era stranamente e terribilmente simile a quella che avevo provato la
prima volta che avevo toccato le parallele quando ero bambina.
Carlo
guidò verso il centro e questa volta riempimmo il silenzio
parlando
di libri. Ero contenta di aver trovato una passione in comune e
soprattutto che Carlo non fosse uno di quei ragazzi che avevano paura
di prendere fuoco soltanto a leggere qualche parola. Lo guardai
incantata mentre mi raccontava la trama del libro che stava leggendo
e, mentre parlava di videogiochi e viaggi nel medioevo, mi accorsi di
quanto le sue labbra sottili e rosa fossero belle.
Avrei voluto
baciarle.
Trasalii a quel pensiero, arrossendo. Cavolo, ma cosa
mi stava succedendo? Mi sentivo una ragazzina stupida, ma non potevo
fare a meno di sorridere davanti all'evidenza che mi stavo davvero
prendendo una bella cotta per Carlo. E, decisamente, non era una cosa
che mi dispiaceva.
Carlo parcheggiò vicino al bar e camminammo
fianco a fianco, con le mani strette l'una nell'altra, continuando a
parlare. Entrammo e ci sedemmo ad un tavolino appartato, ordinando
subito due cioccolate calde con panna, il rimedio perfetto per il
freddo di inizio novembre.
La nostra discussione si spostò sui
film, sugli attori, sui posti nel mondo che avremmo voluto visitare.
Eravamo immersi in una bolla, completamente isolati dal mondo, ma
incapaci di smettere di sorridere. Era, almeno per me, una sensazione
nuova e bellissima.
Non mi ero mai sentita così a mio agio con
una persona che non fosse Greta o Vera e mi batteva forte il cuore al
pensiero che anche Carlo apprezzava la mia presenza. Insomma, non ero
mai stata eccessivamente bella, ero ordinaria, normale, una qualunque
ragazza italiana. Ma davanti agli occhi di Carlo mi sentivo
improvvisamente nuova e stupenda, a posto con me stessa e con il
mondo.
Quasi non ci accorgemmo del tempo che era passato e fu il
telefono che all'improvviso mi suonò in tasca che fece
scoppiare la
nostra bolla. Scoppiammo a ridere, mentre rispondevo velocemente a
mia madre. Erano quasi le sette di sera e non mi ero fatta sentire
per tutto il pomeriggio. Conoscevo abbastanza mia madre per sapere
che dopo la ramanzina, avrebbe preteso di conoscere ogni dettaglio
della mia uscita con Carlo e non volevo tornare a casa.
Ma
proprio Carlo mi costrinse ad alzarmi, ricordandomi che la cena era
l'unico momento in cui una famiglia si poteva riunire e parlare della
giornata appena trascorsa. Mi stupii del tono con cui
pronunciò
quelle parole, così sincero e profondo, e pensai che dovesse
avere
una famiglia davvero fantastica
per anelare in quel modo il momento
della cena.
Carlo mi accompagnò a casa e si fermò davanti al
mio cancello, sorridendomi. "Ci vediamo domani", mi salutò,
mentre frugava nella tasca della giacca e ne estraeva un paio di
caramelle. "Vuoi una?", mi chiese prima che scendessi.
Io
scossi la testa e mi incantai a guardarlo mentre la scartava e se la
infilava in bocca.
"Carlo", lo chiamai, schiarendomi la
voce. "Senti, ma quello di oggi è stato un...".
"Appuntamento?", concluse lui, ponendo la domanda che
mi era ronzata in testa tutto il pomeriggio. Lui alzò le
spalle.
"Per me sì", ammise.
"Anche per me",
mormorai, non riuscendo a trattenere un sorriso.Carlo strinse la
mia mano, che aveva passato tutto il viaggio sotto la sua, sulla leva
del cambio, e si avvicinò al mio volto. Avevo capito cosa
volesse
fare, ma smisi di farmi domande quando incontrai i suoi occhi. Chiusi
i miei e spensi il cervello, facendo incontrare le nostre labbra.
Fu
un bacio delicato e dolce e quando incontrai la sua lingua con la mia
sentii il sapore del miele esplodermi in testa.
Se mi avessero
chiesto una parola con cui descrivere quel bacio, credo che sarebbe
stata quella. Miele. Come la caramella che aveva mangiato poco prima.
Non lo avevo mai adorato particolarmente, ma da quel momento
divenne ciò che caratterizzava Carlo.
Dolce e deciso.
Un
bacio al sapore del miele.
Mi scuso enormemente per il ritardo, ma queste ultime settimane sono state un inferno con la maturità e non sono riuscita a riprendere in mano seriamente la storia.
Ora sono finalmente tornata con il quarto capitolo e da oggi spero di essere più puntuale negli aggiornamenti.
Vorrei fare qui una precisazione sulla base della recensione di Amahy: mi rendo conto che molte scene sembrano banali e noiose, viste e riviste e che forse il personaggio di Carlo può apparire come il solito ragazzo trito e ritrito delle storie d'amore. La verità è che il mio intento non è raccontare una storia straordinaria, ma una normale e quotidiana storia d'amore, quindi gli avvenimenti, così come Carlo, sono ordinari, qualcosa che esiste nella vita reale che è, a conti fatti, la storia più rivista di questo mondo.
Insomma, vi prego di dare una possibilità a Carlo, che nella sua normalità ha molto da offrire o, almeno, spero di farvi percepire tutto il suo potenziale.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e ci rivediamo settimana prossima, speriamo!
A presto e grazie a tutti
mikchan