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Autore: Seeph    30/06/2015    1 recensioni
[SOSPESA]
Appena aprì la porta, una ventata d’aria calda li investì, facendo mancare loro il respiro per un secondo. Faceva caldo, davvero troppo. L’aria era quasi irrespirabile e i raggi del sole bruciavano.
“Il sole? Ma è sera…” esclamò Jason, parecchio confuso. “Com'è possibile?”
“E’ proprio per questo che stiamo uscendo: per scoprirlo.”
Kath si richiuse a malincuore la porta di casa alle spalle, prendendo per mano il ragazzino e scendendo poi dal portico.
Entrambi sospirarono, poi si guardarono negli occhi, cominciando ad incamminarsi.
Genere: Azione, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I.


 
 22/07/2017 15:38

 
Era pomeriggio, un caldo e afoso pomeriggio estivo. Il sole batteva forte e le vie della cittadina erano deserte; non c’era davvero nessuno in giro. Tutti gli adulti, nonché genitori avevano categoricamente vietato ai loro bambini di scendere in strada a giocare, ovviamente per non disturbare tutto il vicinato ma soprattutto per paura che per colpa di quel caldo avrebbero potuto prendersi un accidente.
 
In effetti una volta era successo al ragazzino del numero 13 di Slight Drive. Quegli sconsiderati dei genitori l’avevano lasciato giocare in giardino alle due del pomeriggio, sotto il sole con una temperatura di oltre quaranta gradi. Quindi non c’era da stupirsi che l’avessero trovato svenuto nel vialetto nemmeno un quarto d’ora più tardi, chiedendosi addirittura come potesse essere successo.
 
L’unica cosa a regnare in tutto il quartiere nel quale Kath abitava da quando era nata, era la pace. La ragazza sedeva sul parquet dell’ampia veranda, con un libro poggiato sulle gambe incrociate, una lattina di tè ghiacciato alla pesca nella mano destra e una penna nell’altra che, fra parentesi, aveva imparato a far roteare perfettamente, come un batterista con le sue bacchette. Leggeva tranquillamente, avvolta nel silenzio e immersa nel suo mondo. Nessuno sarebbe riuscito minimamente a distoglierla da quel che stava facendo e amava fare più di ogni altra cosa, nessuno a parte sua madre ovviamente.
 
“Kath.” La chiamò la donna che era appena entrata nel salone e aveva notato, attraverso i vetri che dividevano la veranda dal resto della casa, sua figlia seduta comodamente per terra, rigorosamente a piedi nudi. La madre odiava quella sua abitudine, persino d’inverno la ragazza se ne andava in giro scalza per la casa, senza nemmeno far finta di portare un paio di ciabatte.
 
“Kath!” La richiamò la donna, ma la ragazza sembrava non sentirla nemmeno, continuando a sorseggiare il suo tè mediante una cannuccia –dello stesso colore, nemmeno a farlo di proposito, della copertina del libro che era intenta a leggere- e tenendo gli occhi incollati a quelle pagine che tanto amavano entrambe.
 
A volte lei stessa si detestava per aver trasmesso a sua figlia l’amore smisurato per la lettura. Non perché non le piaceva che leggesse, anzi, queste era una delle tante cose che accomunava entrambe, rendendole ancora più legate. Semplicemente non le andava a genio l’idea che per colpa della sua passione potesse isolarsi dal resto del mondo, arrivando a non avere contatti nemmeno con i suoi amici o addirittura con i suoi stessi familiari. Kath era una ragazza disponibile, sempre felice di passare una serata in compagnia dei suoi amici, ma quando c’era un libro di mezzo diventava davvero difficile per lei scegliere tra un pigiama party tra ragazze o una serata passata a leggere in veranda. In quella veranda che aveva visto centinaia di libri, Kath trascorreva ormai la maggior parte del suo tempo. Ma quel luogo non aveva visto solo libri, aveva visto soprattutto una bambina crescere, maturare e diventare una donna, la donna che era diventata.
 
La madre riuscì a fatica ad allontanare quei pensieri, ma quando ritornò in sé, notò con disappunto che sua figlia non l’aveva ancora degnata nemmeno di un misero sguardo. Così, sull’orlo della disperazione, urlò: “Kathriss!”
 
La ragazza sobbalzò. “Che cosa vuoi?!” urlò a sua volta e ancora più forte, per poco infilandosi la cannuccia in una narice anziché in bocca.
 
“KATHRISSA!” la rimproverò sua madre. “Non parlarmi con quel tono.”
 
“Mamma…” si lagnò Kath. “Ti avrò detto un milione di volte di non farlo.”
 
“Fare cosa?” esclamò sua madre, facendo finta di non capire.
 
“Lo sai benissimo!” replicò la ragazza che nel mentre si era alzata da terra e aveva poggiato il libro sul pavimento, accostandogli la lattina di tè.
 
“Non capisco perché ti lamenti tanto.” Dichiarò sua madre, convinta di ciò che affermava. Gonfiò il petto, portando una mano su di esso e sollevando in alto il mento, sbattendo le palpebre più velocemente del normale. “Il tuo è un bellissimo nome!” concluse infine, facendo ridere sua figlia.
 
“Ma smettila…” esclamò con finto disappunto la ragazza, facendo ridere a sua volta la donna che adesso si trovava di fronte a lei.
 
“Kathrissa! Come osi. Sono stata io a scegliere il tuo nome!”
 
“E va bene, va bene. Però adesso smettila!” le rispose Kath, ridendo ancora.
 
Kath non aveva mai amato il suo nome, anzi, al contario… ‘Kathrissa? Ma che nome è?’ Si era chiesta una volta, per la prima volta a tre anni appena compiuti. Kathrissa. La fusione di due nomi: Kathrin, quello della nonna materna e Raissa, quello della nonna paterna. Ormai ci aveva fatto l’abitudine a quel nome strambo che a dirla tutta non le faceva più così ribrezzo come in passato, anche se preferiva ancora farsi chiamare Kath o nei casi estremi Kathriss, ma mai Kathrissa. Forse semplicemente odiava quella lettera finale, quella stupida ‘A’ come la chiamava lei. Insomma, non le piaceva e basta.
 
“Claire!” chiamò ad un tratto una voce dal piano di sopra, ponendo fine alle risate delle due donne. “La mia camicia bianca,” poi un attimo di silenzio, “quella che la mia carissima moglie mi ha stirato con tanto amore, è sparita...” si lamentò un uomo, colui che era il padre di Kath.
“Lieto di sentirtelo dire, caro.” Scherzò la donna, ridendo sotto i baffi. Evidentemente amava far infuriare suo marito e ci riusciva anche piuttosto bene.
 
“Claire! La camicia! La valigia! Aiutami!” urlò poi l’uomo, facendo tuonare la sua voce in tutta la casa. Ovviamente non era davvero arrabbiato, solo non voleva ritrovarsi una valigia sotto sopra, fare tardi e perdere il volo. Claire invece, da donna pignola qual’era, aveva preparato la sua valigia e tutte le sue cose due giorni prima perché sapeva che presto o tardi –che col senno di poi si era rivelato davvero, davvero tardi- avrebbe dovuto aiutare il suo casinista di marito, che non faceva altro che mettere in disordine quello che lei puntualmente riordinava con pazienza.
 
“Quello stress fatto a persona di tuo padre chiama” disse Claire rivolgendosi a sua figlia, sospirando e scuotendo poi il capo con un sorriso.
 
Kath ricambiò il sorriso, alzando gli occhi al cielo. “L’hai sposato, ti tocca.”
 
Kath si soffermò per un attimo ad osservare sua madre, prima che sfrecciasse su per le scale, scomparendo dalla sua visuale.
 
Claire una donna alta ma non troppo, magra ma non troppo. Intelligente, amante della lettura e della scrittura. Per quanto ne sapesse Kath, sua madre aveva sempre odiato indossare gonne e vestiti, non perché non le stessero bene, anzi, semplicemente non si sentiva a suo agio. Aveva dei lunghi capelli castani e dei grandi occhi azzurri, che diventavano di un grigio chiarissimo quando fuori c’era cattivo tempo. Kath somigliava molto a sua madre, sia caratterialmente che esteticamente e di questo ne andava più che fiera. L’aveva sempre vista come un modello da seguire, persino migliore di tutte quelle donne che trovava sulle copertine delle riviste che ogni tanto la stessa Claire portava a casa e spargeva in giro un po’ dappertutto, ed era ovvio il perché suo padre avesse scelto proprio lei di sposare. Non sempre s’incontra una donna intelligente e di carattere quanto bella come lei era.
 
Kath avrebbe continuato volentieri ad adulare silenziosamente sua madre, trovandole altri mille pregi ma i suoi pensieri furono interrotti da un rumore assordante provenire da una stanza del piano superiore, ma questa volta non erano stati i suoi a combinare il disastro ma bensì una piccola peste di quasi dieci anni più piccola di lei, con dei disordinatissimi capelli castano chiaro e degli occhi vispi e vivaci, quasi identici ai suoi.
 
“JASON!” urlò Kath, correndo su per le scale e poi dritta nella stanza dove teneva i suoi strumenti musicali che lei personalmente trattava come fossero i suoi figli.
 
Appena spalancò la porta della stanza, le si presentò davanti una scena –ai suoi occhi- orribile: quella piccola pulce se ne stava seduto alla batteria, agitando le bacchette come se la sua vita dipendesse unicamente da quel gesto. Continuava a far scontrare freneticamente gli oggetti che stringeva saldamente fra le dita contro qualunque cosa loro incontrassero, creando un baccano quasi disumano. Ma accadde appena il ragazzino notò sulla soglia sua sorella rossa dalla rabbia che perse l’equilibrio e cadde dallo sgabello, finendo per terra con un tonfo e trascinandosi appresso tutte le parti che componevano la batteria.
 
Kath sbiancò di colpo. Preoccupata come non mai e dimenticatasi della sua arrabbiatura, si lanciò verso il fratellino, che giaceva immobile sotto i pezzi della sua batteria. Passarono decimi di secondo prima che la ragazza riuscisse a liberarlo da tutta quella roba che in un attimo aveva preso il sopravvento su di lui. Ma Jason riaprì gli occhi e si mise a sedere in un lampo.
 
Perfetto, il terzo paio di occhiali distrutti questa settimana e siamo solo a Martedì pomeriggio, primo pomeriggio oltretutto pensò Kath, scoprendo distrutta la lente destra degli occhiali tondeggianti poggiati sul naso del fratello minore.
 
“Uoho! Fantastico!” urlò emozionato il ragazzino, poi volse il suo sguardo verso la sorella che lo guardava, sconcertata “possiamo rifarlo?” chiese poi, in tono supplichevole.
 
Kath dopo un primo momento di totale assenza e smarrimento, parve riprendersi, ancora più furibonda di qualche minuto fa.
 
“Brutto scarafaggio!” urlò, cercando di afferrarlo, ma il piccolo si rialzò da terra, scavalcò i pezzi della batteria che poco prima aveva rovinosamente sfracellato –insieme a se stesso- al suolo e con uno scatto fulmineo sparì oltre la soglia della stanza.
 
La ragazza si rialzò da terra e si precipitò giù per le scale, pregustando già il momento in cui avrebbe preso quel piccolo mostro tra le mani, ma non fece in tempo ad arrivare in fondo ad esse e rendere quel suo pensiero completo che qualcuno chiamò il suo nome per intero, di nuovo, per la seconda volta anche se questa volta non era stata sua madre a richiamarla.
 
Incurvò impercettibilmente le spalle, serrò i denti e assottigliò gli occhi, pronta a ricevere un rimprovero degno di essere chiamato tale.
 
“Sì, papà?” rispose Kath, voltandosi lentamente verso la direzione dalla quale aveva sentito provenire quella voce bassa e profonda.
 
 Trovò i suoi genitori a fissarla mentre se ne stavano lì, in piedi alla base della scalinata l’uno al fianco dell’altra. Si sorprese di non trovarli davvero arrabbiati. Entrambi scesero al piano inferiore, dirigendosi in cucina, dove la ragazza li seguì senza proferire parola.
 
“Allora…” cominciò a parlare l’uomo con voce ferma, mentre apriva la dispensa e ne estraeva un pacco di patatine. “Cos’è successo stavolta?” chiese poi, cominciando a litigare con la confezione che non voleva saperne di aprirsi.
 
Claire gli lanciò uno sguardo truce come a dirgli se quello gli sembrava davvero il momento di ingozzarsi di patatine, mentre cercava di rimproverare sua figlia. Sguardo che, tra l’altro, l’uomo non mancò di restituire alla moglie, aggiungendoci poi anche un mezzo ghigno.
 
“TOM!” urlò alla fine la moglie, senza più riuscire a trattenersi.
 
“Ti prego, aprimelo!” le chiese poi lui quasi supplicando, ignorandola e porgendole la busta rossa con entrambe le mani.
 
“Devo chiamare Martha. Devo assolutamente chiamare Martha. Devo chiederle quando riceve il suo psicologo. Tempo fa mi ha detto che è uno bravo, magari riuscirà a fare qualcosa anche per noi…” esclamò Claire sovrappensiero, portandosi una mano sulla fronte e mettendo gli occhi dappertutto tranne che su suo marito, che intanto la fissava.
 
Kath sorrise sotto i baffi e la stessa cosa fece suo padre, prima di ritornare seri entrambi.
 
“Sentite, mi dispiace, ok?” s’intromise ad un certo punto Kath, temendo che quello scambio di battutine e sguardi di traverso sarebbero potuti sfociare in un vero litigio. “Mi dispiace davvero, davvero tanto. Ma Jason è incontrollabile!” continuò la ragazza, allargando le braccia. “Ah, a proposito, ha rotto anche questo paio di occhiali.”
 
Tom e Claire sospirarono a quella notizia.
 
“Quota di questa settimana?” chiese l’uomo a sua moglie, che aveva momentaneamente messo da parte sul bancone la busta di patatine.
 
Lei rispose facendo spallucce e ritornando alla sua normale espressione, segno che non doveva più essere arrabbiata o comunque infastidita dal comportamento strambo assunto dal marito. “Cinque?” azzardò poi.
 
“No, tre,” rispose fermamente Kath, “ma non temete, raggiungeremo presto quella quota prima di domani.”
 
“Kath, sai che non ci saremo per i prossimi tre giorni.” Disse Claire con un tono che lasciava trapelare un pizzico di preoccupazione.
 
“Lo so, ma non preoccupatevi, ho diciassette anni ormai. Va bene che non sono ancora maggiorenne, ma saprò tenere a bada quel piccolo mostro.” Esclamò, decisa. “E cercherò di non mandare a fuoco l’intera casa.”
 
In quell’esatto momento si sentì Jason -che ovviamente era andato a nascondersi in chissà quale parte della casa per evitare la furia distruttiva della sorella- emettere un urletto strozzato e quello era il segno per Kath –e anche per i suoi genitori- che non era successo nulla di buono. La ragazza fece per voltarsi e andare a cercare quella peste, ma i genitori la precedettero.
 
Quando tutti e tre ritrovarono il ragazzino in veranda, a Kath quasi venne un infarto.
 
Jason camminando per casa, si era ritrovato in veranda e aveva urtato la lattina di tè che non aveva potuto far altro che riversarsi sulle pagine del libro ancora aperto. Entrambi i suoi genitori sapevano quanto Kath tenesse ai suoi libri e quanto ne fosse affezionata, anche più di quanto tenesse ai suoi strumenti musicali. Per questo motivo non avevano potuto non notare la sua espressione nel momento esatto in cui il suo sguardo aveva incontrato il disastro causato da Jason.
 
La ragazza si fece spazio tra i due che la fissavano, temendo una sua reazione isterica che, come preannunciato, non avrebbe tardato ad arrivare.
 
“Il mio libro!” cominciò ad urlare Kath in preda alla rabbia mista a panico e frustrazione.
 
Intanto Jason era corso a nascondersi dietro la figura di Claire, convinto che il padre probabilmente sarebbe stato meno comprensivo.
 
“Ma ti rendi conto di cosa hai combinato?!” continuò la ragazza, andando avanti e indietro per la stanza. “Questa è una copia originale del 1915!” sbraitò, raccogliendo da terra il libro impregnato di tè e reggendolo da un angolo.
 
“Guarda: gocciola…” esclamò lei, mentre i suoi occhi diventavano impercettibilmente lucidi. Lanciò un’occhiata disperata a sua madre, poi a suo padre, mentre dal libro non faceva altro che gocciolare tè alla pesca.
 
Tom e Claire erano lì immobili, entrambi non sapevano cosa dire o fare, esterrefatti. Nonostante fossero loro i genitori e nonostante avessero dovuto fare loro qualcosa per mettere a posto la situazione, in quel momento avrebbero preferito quasi correre via.
 
“Hai capito?!” riprese a urlare la ragazza.
 
Si avvicinò a Jason, che si nascondeva ancora dietro Claire e quasi gli sbatté il libro in faccia. “1915! Un numero che TU non sai nemmeno scrivere!”
 
“R-Ris…” Jason si arrischiò a risponderle, chiamandola con il nomignolo che le aveva affibbiato fin da subito, ma sua sorella per poco non gli tirò uno schiaffo.
 
“Stai zitto!” gli urlò contro lei.
 
Il ragazzino, che aveva già cominciato a piangere nell’esatto momento in cui si era reso conto di aver combinato un guaio, tentò ancora una volta: “i-io… s-scu-”.
 
In quel momento Claire interruppe suo figlio, poggiandogli delicatamente una mano su una spalla e guardandolo negli occhi, mentre gli sorrideva per rassicurarlo. Jason la guardò a sua volta, mentre delle lacrime avevano ricominciato a bagnargli le guance arrossate.
 
“Tom, porta Jason in camera sua.” Disse la donna, rivolgendosi a suo marito. Questi fece come gli venne chiesto, prendendo un Jason piagnucolante in braccio e portandolo di sopra.
 
“Giovanotto, l’hai combinata grossa eh?” gli disse suo padre.
 
Ma prima che il piccolo potesse sparire dalla visuale di Kath, quest’ultima urlò un sonoro: “JASON TI ODIO!” così forte da rimbombare in tutta la casa.
 
 “Kathriss! Basta!” la rimproverò sua madre.
 
Adesso erano sole.
 
“MAMMA! Hai visto che cosa ha fatto?!” si lamentò Kath.
 
“Sì Kath, ho visto, ma è solo un bambino…”
 
“Non m’interessa…” ricominciò la ragazza, interrompendo sua madre, anche se sembrava già essersi calmata un po’.
 
Claire poggiò le mani sulle spalle della ragazza, facendola indietreggiare e poi mettendola a sedere su una poltrona bianca appena dietro di lei. La donna fece lo stesso, prendendo posto sulla poltrona a fianco.
 
“Kath non arrabbiarti con lui. E’ tuo fratello, lui ti adora e sa quanto tieni ai tuoi libri. Sono sicura che non era sua intenzione fare ciò che ha fatto.”
 
“Come no, non è mai sua intenzione.” Rispose Kath acida, alzando gli occhi al cielo e incrociando le braccia al petto, voltandosi dall’altra parte.
 
“Kath, promettimi di tenerlo d’occhio in questi giorni, quando io e tuo padre non ci saremo.”
 
La ragazza sapeva che non sarebbe stato facile. Va beh che si trattava solo di due o tre giorni, ma già il solo pensiero di dover badare a Jason –ventiquattro ore su ventiquattro- senza il minimo aiuto dei suoi genitori la faceva infuriare ma soprattutto la terrorizzava a morte. Non era mai stata particolarmente brava con i bambini e Jason era una vera peste. Trovava sempre il modo per cacciarsi nei guai dai quali, puntualmente la sorella doveva toglierlo. Era il classico bambino iperattivo, quello che riusciva a sbucciarsi un ginocchio –e soprattutto rompersi gli occhiali- anche rimanendo perfettamente immobile.
 
La ragazza in tutta risposta sbuffò, rimase per qualche secondo in silenzio. Poi si decise a rispondere un 'sì, va bene' non molto convincente.



 


 
   
 
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