Serie TV > Prison Break
Segui la storia  |      
Autore: lals_    01/07/2015    0 recensioni
che cos’era il corpo, se non un’immensa struttura di piccolissime cellule? Che cos’era il tempo, se non un’infinita sequenza di brevissimi secondi? Che cos’era un pompelmo, se non un complesso assemblaggio di semplici spicchi? Queste erano le domande che Michael si poneva continuamente, queste erano le domande a cui a Michael piaceva trovare una risposta.
Chissà che cosa avrebbe pensato di lui Sara, se l’avesse saputo.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Mahone, Fernando Sucre, Lincoln Burrows, Michael Scofield, Sara Tancredi | Coppie: Michael/Sara
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Neve.
Sara guardava fuori dal finestrino e non vedeva altro che neve: bianca, violenta, che pioveva giù battendo sul vetro, probabilmente era mista a ghiaccio.
Sara aveva tredici anni e adorava ancora la neve, vedeva in lei l’inverno e non poteva fare a meno di pensare alle nuvole, quando la vedeva. Non a quelle nuvole che portavano la pioggia, quelle tutte scure che c’erano durante un temporale, no, le nuvole a cui pensava erano quelle tutte bianche, quelle dalla forma così detta “a pecorella”, quelle che assumevano una forma diversa ogni volta che le guardavi.
Neve.
Sara guardava fuori dal finestrino e non vedeva altro che neve, non vedeva altro che buio. Quelle due entità si mescolavano così rapidamente da formare un vortice insicindibile. Inseparabile.
Come se la presenza di una portasse inevitabilmente anche alla presenza dell’altra. Come se la loro fosse un’unione incondizionata da tutto il resto.
Neve.
Sara guardava fuori dal finestrino e non riusciva a vedere quasi niente, era tardi e lei era stanca, sentiva ancora la musica rimbombarle nelle orecchie e quel suono non accennava a volersi arrestare. Fosse stato per lei, avrebbe rinunciato al possesso dell’udito da non meno di tre ore, tanto quelle melodie l’avevano tormentata. Sempre le stesse note, mai una voce che le accompagnasse. A Sara sembrava un controsenso.
Neve.
Ricordava di averla già vista mentre ancora cominciava a cadere, e non era così fitta come in quel momento. Ricordava di averla guardata scivolare giù mentre nelle narici le arrivava forte l’odore dell’alcool, e le pizzicava, dandole la nausea. Nel suo bicchiere avevano messo uno strano succo analcolico, ma anche quello puzzava così tanto che per un attimo le era sembrato più invitante quello che stavano bevendo gli adulti. Credeva che fosse champagne, ma non ne era sicura. E chiederlo a qualcuno sarebbe potuto sembrare strano.
Neve.
Era la prima volta che vi si soffermava sopra così a lungo. Era la prima volta che le sembrava così degna di avere la sua attenzione. Forse proprio perché non era abituata ad osservarla – ad osservarla davvero – non le sembrava abbastanza meritevole.
E in fondo, che fosse poi questa gran cosa: acqua ghiacciata, per le basse temperature. Sara l’aveva studiato a scuola.
Perché allora la neve sembrava così diversa dalla pioggia? Perché dove una la eccitava, l’altra la intristiva? La materia di partenza era sempre la stessa, cambiava solo la forma con cui essa decideva di mostrarsi. Un po’ come le persone, dopotutto. Tipo suo padre, che agli occhi del mondo non era altro che un senatore; per lei, nel suo piccolo, non era altro che un papà come tanti altri, un papà troppo poco presente per poter dire di conoscerla davvero.
Neve.
Sara aveva solo tredici anni, e come quasi tutte le ragazzine di quell’età l’adorava, la neve. L’adorava.
Ma quel sentimento non sarebbe durato per sempre. Forse, non sarebbe durato neppure un altro giorno. E d’altra parte, come avrebbe potuto durare ancora? Come si può provare un così forte sentimento di adorazione verso la causa della morte dei propri genitori?
Dopotutto, se quella sera non ci fosse stata la neve, e il buio, probabilmente suo padre avrebbe visto prima il camion davanti a lui che frenava bruscamente.
E avrebbe fermato l’auto in tempo. 
 
 
 
 
7 anni dopo
 
 
Pompelmo.
Se Michael avesse dovuto dire che profumo aveva la pelle di Sara, la risposta sarebbe stata senz’altro “pompelmo”.
Sì, “pompelmo”. Decisamente pompelmo.
E il perché era fin troppo chiaro, almeno per chi come lui l’aveva conosciuta. Così chiaro da poter sembrare trasparente, e invisibile.
Impercettibile.
Per Michael era tutta una questione di percezione: l’olfatto, la vista, la vita stessa; era tutto basato sulla sensazione, sulla capacità dei sensi di attingere alle più piccole parti di realtà e di saperle cogliere nella giusta accezione, nella giusta misura. Tutto si riduceva a questo, in effetti: tutto si riduceva sempre a qualcosa di estremamente piccolo.
Il corpo umano, ad esempio: che cos’era il corpo, se non un’immensa struttura di piccolissime cellule? Che cos’era il tempo, se non un’infinita sequenza di brevissimi secondi? Che cos’era un pompelmo, se non un complesso assemblaggio di semplici spicchi? Queste erano le domande che Michael si poneva continuamente, queste erano le domande a cui a Michael piaceva trovare una risposta.
Chissà che cosa avrebbe pensato di lui Sara, se l’avesse saputo. Chissà se avrebbe capito, chissà se ne sarebbe rimasta sorpresa, o affascinata. A Michael piaceva immaginare le reazioni delle persone; gli piaceva focalizzare nella propria mente un’immagine, una figura, e seguirla nel percorso che la sua mente le faceva fare. Studiarla nel percorso che la sua mente le faceva fare.
Pompelmo.
Era la prima parola che a Michael era venuta in mente quando per la prima volta aveva visto Sara. Pompelmo. Michael faceva spesso questi strani collegamenti tra una persona e un oggetto, quando incontrava qualcuno di nuovo, e la maggior parte delle volte avveniva dentro di lui in maniera del tutto incontrollata. Come se qualcosa nel suo cervello scattasse, e sentisse la necessità di assimilare più informazioni possibili per poi rielabolarle sotto forma di una concreta catena di sillabe. A Michael serviva per rendere una persona più vera ai suoi occhi. Per renderla più reale.
- Michael?
Le parole dette ad alta voce non avevano lo stesso effetto. Le parole ad alta voce non avevano il medesimo suono, la medesima ritmicità; servivano solo a riempire quei buchi silenziosi di cui la gente sembrava avere così tanta paura. Michael ne doveva ancora capire il motivo.
- Che c’è? – si costrinse a chiedere distrattamente.
La mano di Sucre gli premette sulla spalla tanto forte da farlo girare all’istante; l’amico dalla pelle color caffè latte lo stava guardando come si guarda qualcuno di cui si è appena capito tutto, con un sorrisetto furbo e presuntuoso di chi si è appena ritrovato una carta vincente nel mazzo.
- Attento – lo mise in guardia Michael – mi stai di nuovo guardando come se volessi portarmi a letto. Qualcuno potrebbe accorgersene.
- Ah, ma smettila – ribattè il portoricano – lo sanno tutti che non sei gay.
- Ma io non mi preoccupo di me.
Le sue parole presero chiaramente l’amico alla sprovvista, glielo lesse negli occhi scuri e nel modo in cui per un attimo lo guardarono incerti, ma il tutto non durò più di una frazione di secondo; Sucre fece finta di non averlo sentito, prese il caffè che il commesso gli stava porgendo al di là del chioschetto e picchiettò con l’altra mano sulla spalla di Michael, spingendolo a camminare; i due presero a muoversi piuttosto lentamente in direzione del loro alloggio, passando distrattamente tra quella folla che popolava il campus a qualsiasi ora del giorno.
Il sole era caldo. Era caldo e faceva risaltare i colori, rendendoli più luminosi, e riempiendoli di sfumature. A Michael piaceva il sole, però preferiva la pioggia: la trovava più concreta, e meno falsa. Una singola goccia sulla propria pelle gli era molto più vicina di un raggio di sole lontano milioni di chilometri. E poi, ne amava l’odore: così pungente, così marcato. Inconfondibile.
Come quello della pelle di Sara.
- Ancora non ci hai parlato, eh?
Michael si costrinse ad abbassare rapido lo sguardo, posandolo sul bicchiere di cartone che teneva in mano e da cui usciva forte l’odore intenso del caffè, ma sapeva di essersi mosso con un secondo di ritardo: Sucre aveva intercettato la linea d’aria che fino a quel momento gli occhi del ragazzo avevano tracciato, e la traditrice lo aveva condotto proprio fino a lei, la ragazza con la pelle dal profumo di pompelmo.
- Di chi parli? – chiese fingendo indifferenza. Il sole lo colpiva violento sulla nuca quasi del tutto rasata, facendolo sudare, ma c’era anche qualcos’altro che lo fece immediatamente surriscaldare, e questa volta gli saliva direttamente da dentro, diffondendosi veloce come un virus.
Imabrazzo.
Michael tentò di nasconderlo affondando la faccia nel caffè, ignorando l’ustione di secondo grado a cui la sua lingua era immediatamente ancdata in contro, ma Sucre – sempre fedele al suo fianco – stava già ammiccando in direzione della ragazza, che camminava poco più in là con una borsa a tracolla e un libro tra le braccia strette al petto.
- Piantala, e sputa il rospo, papi – lo incalzò il portoricano, senza dare il minimo accenno a voler mollare la presa sulla sua spalla – La conosci bene?
Michael dovette sforzarsi di mantenere lo sguardo basso, fisso sui propri piedi, che calpestavano ritmicamente le piastrelle del sentiero che percorreva l’esterno della facoltà di ingegneria; l’odore di erba bagnata era ancora fortemente presente nonostante non piovesse da tre giorni ormai.
- L’ho vista bene solo una volta. – rispose – Eravamo vicini ad un esame.
- Le hai fatto copiare?
- Non ne aveva bisogno.
Michael ricordava fin troppo bene la sua espressione concentrata, le sopracciglia contratte e la testa china sul foglio mentre lo completava senza evidenti tracce di preoccupazione; ricordava di averla vista alzarsi e consegnare il proprio compito quasi venti minuti prima della fine, e ricordava di averla vista sorridere al professore augurandogli buona giornata, per poi lasciare l’aula nel solito silenzio. La ricordava bene, e ricordava altrettanto bene i particolari del suo viso; perfino in quel momento, in cui senza accorgersene era ritornato con gli occhi puntati su di lei, nonostante la distanza marcata riusciva a distinguere perfettamente l’espressione dolce, le guance piene, la pelle nivea e i capelli del colore del caramello, legati sulla nuca. Ricordava l’odore della sua pelle e quasi gli sembrava di sentirlo anche in quel momento.
- Oh, quindi è pure intelligente! – fischiò Sucre con ammirazione – Notevole. Davvero notevole.
- Devo ricordarti che sei già impegnato? Non vorrei che qualcuno ti vedesse sbavare.
Michael si lasciò sfuggire un sorriso mentre il compagno di stanza, come un cane sgridato dal proprio padrone, prendeva ad armeggiare con la catenina a forma di croce che portava al collo, sotto la canottiera bianca, e se la portava alle labbra.
- Non scherzare su queste cose, fratello – disse guardando in avanti – Io sono fedele alla mia donna.
- Lo so, Sucre – lo rassicurò Michael – Mariecruz è fortunata.
- Puoi dirlo, amico!
Mariecruz era la ragazza di Sucre da quasi due anni ormai; si erano conosciuti al college e si erano messi insieme circa una settimana dopo: quei due si amavano alla follia, e sembravano provare l’estremo bisogno di renderlo evidente a chiunque li vedesse, che fossero insieme o separati. Michael non aveva provato gelosia, all’inizio. Non finchè non aveva incontrato Sara, almeno; da allora tutto aveva cominciato a diventare più complicato.
- Beh, comunque se fossi in te ci parlerei, per provare. Va’ a qualche festa, magari la incontri.
Sì, come no. Come se Michael fosse davvero un tipo del genere. Come se Michael andasse continuamente alle feste che si organizzavano nel campus, come se fosse tipo da ubriacarsi e perdere la testa. Lui aveva bisogno di pensare. Di pensare e di avere la lucidità per farlo. Sucre questo lo sapeva – lo conosceva da tempo ormai, da quando entrambi erano matricole – eppure la maggior parte delle volte sembrava volerlo dimenticare; quei due andavano tanto più d’accordo quanto più marcata era la loro diversità.
- Ehi, non c’è la festa di Linc il prossimo weekend?
Michael fece finta di non sentirlo, e non rispose; continuò a camminare con il capo piegato in avanti, sperando di sfuggire al sole e al caldo che era diventato padrone delle ultime giornate, e desiderando di raggiungere presto il portone della Loyola. Non aveva affatto perso di vista Sara, ma sapeva che continuando a guardarla non avrebbe risolto le cose. E Sucre non avrebbe smesso di tormentarlo.
- Eddai, papi, sarà divertente! – sbottò il ventiduenne dalla pelle scura. Michael si sentì leggermente infastidito dalla perenne insistenza del portoricano, perché il fatto che lui non avrebe partecipato alla festa del compagno era un dato così ovvio e programmabile che gli sembrava stupido credere il contrario.
- Sei liberissimo di andare, Sucre. – gli fece notare il ragazzo.
- Non vorrai fare l’asociale anche questa volta, spero.
Sucre premette l’indice sugli occhiali da sole per portarseli nuovamente sulla nuca rasata da dove erano scivolati, mentre con l’altra mano tirava verso di sé il portone di vetro trasparente della portineria; era la via più veloce per raggiungere il loro alloggio, i due ragazzi lo avevano imparato a proprie spese.
- E chi ha parlato di fare l’asociale? – domandò Michael innocente. Una ventata di aria condizionata investì entrambi nel momento in cui misero piede nel corridoio, facendogli venire mal di testa; le magliette sudate appiccicate alla pelle divennero ancora più aderenti facendo pressione sulla pelle dei due.
- Oh, perfavore, già ti vedo la sera della festa in camera tua a studiare. Sei così prevedibile.
- No, sei tu che mi conosci troppo bene. – ribattè freddamente.
A Michael non dava noia che Sucre conoscesse la sua tendenza a stare lontano dalle persone, gli dava noia che gliela rinfacciasse come se fosse motivo di vergogna e nient’altro; come se fosse una sua colpa, essere come era: guardingo, freddo, solitario. Asociale.
No, non era asociale, era la gente che attribuiva alle parole significati che non avevano. Era la gente che lo rinchiudeva in un quella categoria perché troppo pigra per cercare di capire come lui era davvero. Era un’etichetta, la sua, così diversa dalla realtà. Così dannatamente differente.
- Se, va beh – sentì arrendersi l’amico, frenando bruscamente davanti alla porta della loro camera – Comunque ne riparleremo, sai che non mi arrendo facilmente.
- Suona come una minaccia. – scherzò Michael.
- Lo è, papi.
Sucre rise, e il ragazzo con lui; il portoricano cominciò a frugare nelle tasche dei pantaloni color kaki che gli arrivavano al ginocchio alla ricerca della chiave, ma dopo solo pochi secondi Michael lo battè sul tempo, estraendo la sua dalla tasca posteriore dei jeans.
- Hai perso di nuovo la chiave, vero? – lo sfidò il compagno, facendo scattare la serratura.
- Già – ammise, vagamente amareggiato – Dovrò farne un altro duplicato.
- Non è il terzo questo mese?
Michael entrò per primo, e Sucre venne dietro di lui; nella stanza c’era un terribile odore di chiuso, le finestre erano serrate e le tapparelle abbassate quasi del tutto, non si respirava. Sucre si sfilò gli occhiali da sole e li appoggiò sul ripiano all’ingresso, facendo poi partire automaticamente la segreteria mentre il compagno di stanza faceva entrare un po’ d’aria negli ambienti.
- Veramente il quarto – lo corresse a bassa voce, un attimo prima che i messaggi vocali partissero.
- Superi ogni mia aspettativa.   
 
 
 
Sucre era abituato a superare le aspettative delle persone, era abituato a sorprenderle, a farle ricredere, a lasciarle senza parole. Era abituato a molte cose – al sole cocente, al cibo piccante, perfino alle punture di insetto, di quelle che gli prudevano fino a farlo impazzire – ma non era abituato alle delusioni. E in particolare, non era abituato alle delusioni d’amore. Per questo motivo, dopo aver ascoltato l’unico messaggio presente nella casella telefonica, dovette premere il tasto “ripeti” per ben due volte, prima di riuscire a cogliere davvero il significato del messaggio.
La voce, quella la aveva riconosciuta. Immediatamente. Ma nonostante questo, aveva la terribile sensazione che qualcosa gli stesse sfuggendo, che gli stesse scivolando via dalle mani proprio mentre stava per afferrarla.
- Cosa…? – aveva cominciato a dire, riferendosi a nessuno in particolare. La voce gli era morta in gola prima di poter riuscire a completare la frase, prima di riuscire a trovare delle parole adatte a farlo.
- Tutto bene?
Michael era spuntato da dietro l’angolo nel salotto del piccolo appartamento, il petto nudo e i tatuaggi bene in mostra a ricoprire gran parte del corpo atletico, e stava guardando Sucre come si guarda qualcosa di sbagliato. Il portoricano aveva un’espressione esterrefatta disegnata sul volto improvvisamente impallidito, basita, gli occhi grandi e la bocca semi aperta in una smorfia di confusione.
Sucre non rispose, si limitò a guardarlo con le sopracciglia aggrottate, lo sguardo perplesso.
- Sucre… - fece allora il compagno, stranito e preoccupato – Che è successo?
Michael fece per avvicinarsi, ma la mano dell’amico si sollevò a mezz’aria per intimarlo a fermarsi senza dover ricorrere alla voce, e dopo aver fissato per alcuni istanti il vuoto davanti a sé, fu come se improvvisamente fosse stato preso da una ricarica a molla e prese a muoversi rapidamente: con dei gesti impacciati afferrò dall’attaccapanni la giacca di pelle che indossava quando guidava la sua moto, controllò di avere le chiavi e si diresse verso la porta per uscire.
- Dove vai, Sucre? – fu tutto quello che Michael ebbe il tempo di chiedere, prima di vedere sparire l’altro dietro la porta.
Si richiuse con un suono fragoroso che rimbombò nel corridoio vuoto.
 
 
 
Michael si fece una doccia prima di andare a lezione.
Aveva bisogno di liberarsi da quella patina appiccicosa che era il sudore, incollatosi alla sua pelle come un adesivo umido, che pareva tappargli i pori proibendogli di respirare.
Michael amava l’acqua. La amava sotto ogni sua forma: che fosse pioggia, neve, o ghiaccio.  O anche la semplice acqua che veniva giù attraverso le tubature. Se gli avessero chiesto quale dei quattro elementi più apprezzava nella sua utilità, Michael avrebbe di certo risposto quello.
Acqua.
Quando il ragazzo uscì dalla doccia, la prima cosa che fece fu controllare se Sucre fosse tornato, ma l’appartamento era vuoto come lo era un’ora e mezzo prima, silenzioso in modo così innaturale da farlo sentire quasi spaesato, nonostante amasse il silenzio forse persino più di quanto amava l’acqua; del compagno non aveva più avuto notizie. Leggermente preoccupato, Michael compose rapidamente il numero dell’amico sul cellulare e lo posò vicino all’orecchio; il telefonino fece tre squilli a vuoto prima che partisse la segreteria. L’idea di lasciare un messaggio gli sfiorò la mente quella frazione di secondo necessaria a fargli capire che sarebbe stato inutile, che tanto valeva aspettare che tornasse, qualunque fosse il luogo dove si era diretto con così tanta fretta.
Riattaccò.
Riattaccò e per un attimo si sentì come se avesse appena commesso un errore, ma non richiamò: perché se Sucre se ne era andato così, senza dire una parola, era chiaro che aveva i suoi motivi per farlo, che non aveva voglia di parlarne, che non voleva che Michael sapesse dove stava andando. Altrimenti glielo avrebbe detto, no? Se ci fossero stati dei problemi, lo avrebbe saputo a tempo debito. Inutile fasciarsi la testa prima di rompersela; era solo uno spreco di bende.
Con questo genere di pensieri per la testa, Michael lanciò distrattamente il telefonino sul letto, facendolo rimbalzare sul materasso, dove atterrò nascondendosi tra le lenzuola stropicciate; il ragazzo era ancora a petto nudo, e la pelle leggermente umida dalla doccia, l’asciugamano legato stretto intorno alla vita. A Michael raramente capitava di osservare la propria immagine riflessa nello specchio a muro della sua camera, perché la maggior parte delle volte nemmeno si prendeva la briga di accendere la luce, e anche volendo non avrebbe visto granchè; ma quel giorno la finestra era aperta, la tapparella sollevata, e la luce illuminava la stanza di colori con i quali il ragazzo quasi non era in grado di riconoscerla. E fu quel giorno – dopo chissà quanto tempo che non lo faceva – che l’occhio gli cade sulla figura riflessa nel vetro: era alta, le spalle prominenti leggermente piegate in avanti, come vittime di un peso invisibile, costrette ad una curvatura che – notò – pareva quasi difensiva; il fisico era robusto, i muscoli spuntavano sul petto e sulle braccia, entrambi tatuati quasi completamente, in un accostamento di disegni apparentemente senza un senso. Ma i lineamenti, i lineamenti del viso, furono quelli a colpire maggiormente Michael: erano duri, severi, eppure allo stesso tempo estremamente ermetici, e consapevoli; i capelli tagliati cortissimi rendevano il viso leggermente squadrato, illuminato da due occhi così azzurri da parere finti, e da quelle labbra carnose e rosee, molto più rosee del colorito invece pallido della pelle. Michael non avrebbe mai creduto di rimanere stupito davanti al proprio riflesso, non avrebbe creduto di risultare estraneo ai suoi stessi occhi, eppure era così: in quel corpo non riusciva a ritrovarsi, non riusciva a trovare una forma che gli corrispondesse. Era come se quell’involucro di pelle e ossa e muscoli non facesse altro che attribuirgli una brutalità che non gli apparteneva, una grottezza che non era riconducibile a nessun aspetto del suo carattere.
Ossimoro.
Fu la prima parola che a Michael venne in mente guardandosi raffigurato su quella superficie riflettente che era lo specchio.
Ossimoro. Era così evidente. Così evidente da fargli quasi male agli occhi.
Ossimoro.
Finalmente una parola in grado di descriverlo. Finalmente, una concreta catena di sillabe in grado di dirgli qualcosa di se stesso.
Chissà se Michael ne sarebbe mai stato altrettanto capace. Chissà se Michael sarebbe mai riuscito a far combaciare corpo e anima, esterno ed interno, impressione e sensazione. Era maledettamente difficile.
Sara.
Sara ce l’aveva fatta. Sara non era un ossimoro, era ciò che era, niente che si contraddicesse, niente che rendesse tutto ancora più difficile da capire. Niente che sviasse, ecco. Ciò che c’era fuori, era anche ciò che c’era dentro; Michael non avrebbe creduto al contrario nemmeno se lo avesse potuto constatare con i propri occhi.
Ma oh, ecco che Michael già cominciava a pensare a Sara, le pupille perdevano il contatto con la realtà e la mente si concentrava su qualcos’altro, qualcosa che non era il caldo, non erano i tatuaggi, non erano gli ossimori, e di certo, non erano le cifre luminose che lampeggiavano sul display della radio-sveglia accanto al suo letto. Per questo Michael, forse per la prima volta da quando era arrivato alla Loyola, quel giorno fece tardi a lezione, e per poco non fu costretto a rimanere fuori dall’aula; non si era accorto dei minuti che scorrevano in avanti e si era invece concentrato troppo sul passato, sui momenti trascorsi, sui secondi dimenticati.
Dovette correre per non perdere tutta la lezione; dovette correre e quando spalancò la porta di legno massiccio dopo una corsa infernale sotto il sole pomeridiano per poco non evaporò dall’imbarazzo ritrovandosi decine di paia di occhi fissi su di lui.
Aveva interrotto il professore a metà di un discorso, e visto il suo sguardo corrucciato e seccato, doveva esserne piuttosto infastidito.
- Dentro o fuori? – gli chiese l’uomo anziano dopo un sospiro rassegnato.
- Uh, come dice?
- Se vuole partecipare alla lezione deve prendere posto. – gli spiegò frettolosamente – Non mi faccia perdere tempo, perfavore.
- Ah, certo. Scusi.
Michael si sentì improvvisamente goffo mentre saliva la gradinata a lato della stanza e raggiungeva le ultime file, le uniche dove ancora erano rimasti dei posti liberi; il professore riprese a spiegare il momento successivo, e dopo essersi schiarito la voce riprese il discorso da dove lo aveva interrotto. Michael si sentì leggermente preso in giro dal mondo quandi scoprì che l’argomento di cui stava trattando era niente di meno che il tempo.
- Bell’entrata in scena, Scofield.
Il debole commento sussurrato all’orecchio gli arrivò tanto sottile quanto estremamente inatteso, e Michael non potè fare a meno di sollevare lo sguardo dai propri appunti quel tanto che gli serviva per individuare le labbra che avevano pronunciato il suo nome, per trovare l’origine di quelle parole.
Non dovette faticare molto: la ragazza nel banco accanto al suo lo stava a sua volta guardando, come in attesa di una sua reazione.
- Ti ringrazio. – sussurrò pacato – Ma non ho capito il tuo nome.
La ragazza aveva grandi occhi castani, truccati, e lunghi capelli striati di biondo che le arrivavano fin sotto il seno prosperoso, volutamente messo in evidenza da una canottiera scollata. Aveva la pelle abbronzata, le dita lunghe e sottili, la bocca semi aperta in un timido sorriso.
- Perché non l’ho detto. – gli fece notare, in un debole accento spagnolo – Sono Nika. – si presentò poi. Aveva una voce dolce. Femminile.
Era stata la prima cosa di lei che aveva notato.
- Michael. Scofield.
Si sentì un imbecille a pronunciare il suo nome. Succedeva sempre così: fosse stato per lui, le presentazioni avrebbero anche potuto morire, ed essere cancellate e dimenticate; era un gesto che lo metteva a disagio, lo faceva sentire ridicolo. Non a tutti piace il proprio nome, in fondo. E’ una delle poche cose che le persone non possono scegliere per se stesse, che non possono decidere in maniera autonoma.
- Lo so – fece lei.
- Ah, davvero?
Michael faceva il possibile per rimanere concentrato sulle parole del professore e sul suo discorso, ma l’occhio e l’orecchio finivano sempre per deviare meschinamente verso la compagna di banco, che sembrava riuscire a fare entrambe le cose nello stesso tempo.
- Già – rispose – Mi ricordo di te. Sei stato l’unico studente a prendere il massimo dei voti all’esame scritto di ingegneria… sei uno in gamba.
La ragazza finì di trascrivere un appunto tracciando una linea continua con la penna, senza quasi staccare la punta dal foglio, mentre il ragazzo cercava di individuare la sfumatura che aveva usato nella voce mentre parlava.
Soddisfazione? No.
Ammirazione.
Michael continuava a non crederci eppure era più che convinto di aver individuato la sfumatura giusta; una volta gli avevano detto che ciascuna voce aveva un colore diverso, e che era strettamente legato alle emozioni che si provavano mentre si parlava. Michael ne era rimasto incredibilmente affascinato, quando l’aveva saputo.
- Me la cavo. – ammise, prendendo poi a ricopiare le formule che il professore aveva scritto alla lavagna chissà da quanto tempo e chissà perché. Michael le leggeva ma riconosceva solo la metà dei simboli; la fisica e l’ingegneria chiaramente non andavano d’accordo, e il fatto che nella prima i suoi voti scarseggiassero tanto ne erano un’inconfondibile prova.
- Cos’è, fai il modesto?
Il ragazzo dagli occchi celesti li sollevò immediatamente in un riflesso incondizionato, appena in tempo per sussurrare un “no” che mai era stato pronunciato così semplicemente prima d’allora. Un “no” del tutto innocente. Un “no” tanto sorpreso da sembrare quasi ferito.
- No, scusa, è che… - Nika non riuscì a trovare le giuste parole per spiegarsi, le sentì sulla punta della lingua che si dissolvevano mentre gli occhi del ragazzo la osservavano con stupore e innocenza, e la facevano sentire improvvisamente inopportuna.
- E’ solo che… - ci riprovò, ma anche questa volta lasciò che la frase rimanesse incompleta. Michael la stava guardando: con interesse, curiosità. Sembrava cercare di capire che cosa intendesse, per trovare le parole corrette e metterle al proprio posto, senza che lei faticasse tanto. Come se volesse risparmiarle l’imbarazzo del silenzio.
- Beh io nemmeno l’ho passato quell’esame, perciò – spiegò senza girarci troppo intorno – mi sembra strano che qualcuno che ha preso il massimo dei voti dica solo di “cavarsela”. Fossi stata in te, avrei dato una festa.
Michael rise, e quella risata – per quanto trattenuta e bassa – richiamò l’attenzione degli altri studenti del corso, molti dei quali si girarono verso di lui come se avesse appena rivelato l’esistenza di un incendio.
- Signor Scofield – si sentì chiamare improvvisamente – Vuole condividere qualcosa con la classe?
Michael fece appena in tempo a ritirare il sorriso e a ruotare la testa in avanti che non solo ritrovò su di sé gli stessi occhi che avevano sembrato trapassarlo quando era entrato in aula, ma anche quelli del professore, lontani eppure così visibili, che sembravano esaminarlo puntigliosi dalla cattedra.
- Uh, di che tipo? – domandò il ragazzo leggermente imbarazzato.
- Beh, non saprei – rispose l’uomo grattandosi leggermente sotto l’occhio destro – Perché non comincia rispondendo alla mia domanda? Sarebbe già un passo avanti.
Michael tossicchiò, restio. Se da un lato sentiva il desiderio di rispondere correttamente alla domanda, dall’altro non aveva la minima idea di quale essa fosse. E non aveva la minima idea di come fare a scoprirlo prima che il professore decidesse di bocciarlo all’ esame a priori, o di cacciarlo direttamente dal corso.
Che diavolo poteva aver chiesto sul tempo? Tutto ciò che Michael leggeva sulla lavagna, erano solo numeri e lettere di vago significato, legate tra loro da simboli di operazioni che variavano continuamente; davvero ci trovava ben poco a che fare, con il tempo.
- E’ la velocità angolare.    
Il momento in cui Nika dichiarò sicura la sua risposta, fu anche quello in cui Michael fu del tutto privato dell’attenzione di tutti su di sé: la massa di studenti così simile ad una mandria di animali l’aveva ribaltata su di lei, appena di pochi centrimetri più a sinistra, eppure era stato sufficiente a far sentire il ragazzo fuori dalla loro portata e, in un certo senso, al sicuro.
- Grazie, signorina Volek.
Il professore sembrava rasserenato dalla risposta corretta ricevuta. In realtà sembrava più rasserenato dal fatto che fosse stata Nika a rispondere, ma questo fu un particolare che probabilmente colse soltanto Michael. E per quanto lo riguarda, forse per una volta sarebbe stato meglio non condividere le proprie impressioni.
- E così sei un genio della fisica. – constatò qualche minuto dopo, quando la lezione era ripresa e lui si era assicurato di non avere gli occhi dell’anziano né di nessun altro puntati addosso come nel mirino di un cecchino.
- Me la cavo. – gli concesse la ragazza continuando a scrivere.
- Ti capita mai di prendere il massimo dei voti ad un esame?
Nika lo guardò.
- Ehi, in qualcosa devo pur essere brava.
Michael sorrise, ma fu attento a non lasciarsi sfuggire alcun suono questa volta; errare sarà anche stato umano, ma perseverare era decisamente una cosa da stupidi. 
 
 
 
Quando la lezione finì Michael non tornò subito al suo alloggio; era ancora presto, il sole brillava ma in modo più leggero, evitando di farlo sentire come in un forno ad alta temperatura, e stava cominciando ad alzarsi un po’ il vento. Michael credeva che fossero più o meno le sei.
Sole.
Era la prima parola che gli era venuta in mente quando aveva visto Nika. La prima in assoluto. All’inizio non sapeva il perché, ma poi si era reso conto che, come con Sara, era un concetto legato all’odore della sua pelle. Sole.
La pelle di Nika profumava di sole. Di sole e di nocciole, a dire il vero, ma in prevalenza di sole: era un odore che ancora non gli era capitato di associare a nessuno, e la cosa gli lasciava una bella sensazione addosso, come di pulito; non sapeva come l’una avesse a che fare con l’altra, ma erano entrambe forti e presenti dentro di lui. Sembravano quasi incastrarsi.
Quando la lezione finì Michael non tornò subito al suo alloggio, perché non ne vide la necessità: rimase a parlare un po’ con Nika, per quel breve tratto di strada che avevano in comune, e poi si limitò a salutarla cordialmente prima di continuare a camminare per conto proprio, e a dare libero sfogo ai pensieri che durante il giorno di tanto in tanto doveva frenare. Il fatto era che la sua mente era perennemente in movimento, in continua agitazione, frullava senza sosta, trovando una risposta a molte meno domande di quante essa stessa se ne poneva, cercando e componendo quelle concrete catene di sillabe senza cui sembrava non poter vivere.
Parole, parole, parole. Il mondo girava intorno alle parole; al modo in cui venivano pronunciate, poste, messe una accanto all’altra, a ciò che esse rappresentavano, al significato che esse assumevano. Era tutto una questione di parole, e la gente spesso nemmeno si accorgeva della loro importanza.
Verba volant, già: le parole volavano. Volavano e venivano dimenticate, perché considerate poco importanti. Quante parole una persona poteva ricordare nell’arco di una vita? Forse solo l’1% di tutte quelle che le sue orecchie ascoltavano, che la sua bocca diceva, che i suoi occhi leggevano. Forse solo l’1%, ed erano quelle che più la colpivano, che più le facevano scattare qualcosa, che le facevano provare un’emozione. A questo servivano le parole: a far provare emozioni. Eppure la gente non lo capiva.    
Quando la lezione finì, Michael non tornò subito al suo alloggio, ma fu lì che alla fine i suoi passi lo condussero, consapevolmente o meno. Fu lì che si ritrovò dopo appena una mezz’ora, con la fronte accaldata, e la maglietta grigia leggermente aderente al petto per via del sudore. Fu lì che tornò perché quella era la sua casa, era il suo punto di partenza, la sua personale origine da quando aveva iniziato l’università, e niente avrebbe mai potuto tenerlo lontano da quel posto fino a che fosse rimasto alla Loyola e non si fosse diplomato. E fu sempre lì che, non appena fu rientrato, trovò Sucre: il portoricano era seduto in soggiorno, la schiena appoggiata allo schienale del divanetto e una bottiglia di birra ghiacciata in mano, che fissava dritto davanti a sé ma non riuscendo probabilmente a vedere niente, a giudicare dall’espressione vuota che aveva sul volto. Sembrava pallido, il marroncino della sua carnagione appariva ingrigito e spento, come sciupato.
- Che ti succede, Sucre? – gli chiese l’amico cominciando ad avvicinarsi, ma quello sembrò non sentire nemmeno; si portò lentamente la bottiglia alle labbra e ne bevve una lunga sorsata, deglutendo rumorosamente ad intervalli regolari mentre il compagno gli si sedeva accanto, la schiena piegata in avanti e le braccia appoggiate sulle gambe.
- Non ne vuoi parlare?
Michael posava lo sguardo ora su Sucre e ora su un punto indefinito davanti a sé, ma senza tuttavia riuscire a capire che cosa stesse pensando. Che qualcosa non andasse era più che evidente, ma Michael non era così in gamba a leggere le persone come invece avrebbe voluto, e questo giocava nettamente a suo svantaggio. Specialmente ora: avrebbe anche potuto cercare di indovinare, ma visto il suo stato d’animo anche solo una parola sbagliata avrebbe potuto farlo chiudere in maniera ancora più rigida.
- E’ finita. – rispose quello, e poi mandò giù un’altra lunga sorsata di bollicine.
Le parole di Sucre sembravano appena uscite dalla bocca di un cadavere, ma Michael decise di tenere anche questo pensiero per sé e si concentrò invece sul loro significato.
- Finita? – domandò quindi.
- Finita. 
- Che cosa è finita?
Altra pausa. Altra lunga sorsata. La birra sembrava scivolare giù senza subire alcuna forza d’attrito, ma semplicemente seguendo un percorso senza curve e senza ostacoli che la metteva in comunicazione direttamente con lo stomaco. Chissà se quella era la prima bottiglia o se ne aveva prosciugate altre, mentre lui era via.
- Tra me e Mariecruz. E’ finita.
Anche questa volta, le parole sembrarono uscire spinte da una forza a lui esterna. E sembrarono anche terribilmente lontane.
- Ma che dici, Sucre? 
L’ipotesi che stesse scherzando gli accarezzò la mente tanto veloce quanto vi si allontanò; tutto si poteva dire del suo compagno di stanza, ma non che fosse un ciarlatano: e a giudicare dall’espressione persa e dagli occhi tristi mentre beveva per dimenticare, tutto stava dicendo meno che uno scherzo.
- Mi ha scaricato. Mollato. – continuò – Non mi vuole più. E’ abbastanza chiaro così?
Sputò fuori l’ultima domanda stringendo forte i denti, come se stesse trattenendo la rabbia all’interno, come se stesse cercando di non esplodere per contenere la propria debolezza e non mostrarla più di quanto già non stesse facendo.
Michael corrucciò leggermente la fronte aggrottando le sopracciglia, cercando qualcosa di adatto da dire, ma non gli veniva in mente niente. Una sola parola riusciva a pensare: caffè. Era la parola che aveva pensato quando per la prima volta aveva visto Sucre, era la parola a cui ripensava ogni volta che lo vedeva, era la parola in grado di dargli una forma.
Ma no, non poteva essere la parola giusta da dire. Non in quel caso.
Sfortunatamente.
- E tutto per colpa di quel lurido di Hector! – aggiunse in tono schifato, alzando leggermente la voce; la bottiglia che teneva in mano era quasi del tutto prosciugata, ma Sucre vi si attaccò tracannando gli ultimi sorsi come se in questo modo potesse calmarsi. O potesse cancellare il proprio dolore che, Michael lo sapeva, lo stava dialaniando molto più di quanto non desse a vedere.
Sucre amava Mariecruz. L’aveva amata fin dal primo giorno in cui l’aveva vista, che parlava con le sue amiche nel parcheggio del supermercato, le aveva fatto una corte sfrenata nonostante appartenessero a due mondi pressocchè opposti, l’aveva conquistata un po’ alla volta, fornendole il tempo di cui aveva bisogno. Michael lo sapeva, perché era stato sempre spettatore della loro storia mentre questa ancora si formava. Lo sapeva perché era l’argomento preferito di Sucre, perché più di una volta le aveva chiesto di sposarlo, perché più di una volta lo aveva aiutato a trovare le parole giuste per le sue lettere, per rendere all’altezza della ragazza che era.
Michael sapeva tutte queste cose e ora guardare il suo amico ubriacarsi per sfuggire alla lucidità che gli faceva troppo male gli provocava un senso di ingiustizia che gli faceva male.
- Giuro che gli spacco la faccia a quel maiale di Hector! – lo vide sbottare, lasciando cadere la bottiglia di vetro a terra dove per fortuna non si ruppe, ma dove cominciò a rotolare sul pavimento dopo avervi sbattuto; il portoricano scattò in piedi e per poco Michael non si alzò con lui, temendo che potesse uscire per andare a cercare il cugino e fargli Dio solo sapeva cosa, ma quando l’amico si fu alzato traballò leggermente fino a raggiungere il frigorifero, da dove estrasse un’altra bottiglia di birra fredda.
Decisamente non ne aveva bevuta solo una, a giudicare dal modo in cui sbandava cercando di camminare dritto.
- Che ha fatto questa volta? – gli domandò Michael non appena fu risprofondato tra i cuscini del divano; non era la prima volta che i due cugini litigavano, o si mettevano i bastoni tra le ruote a vicenda: per lo più fingevano di andare d’accordo, ma Hector aveva trovato il modo di fare i soldi, al contrario del cugino, e questo lo aveva abituato a degli agi di cui faticava a stare senza. E come se ciò non fosse stato abbastanza, non aveva mai mandato giù che Mariecruz non avesse scelto lui, quando si era vista desiderata da entrambi: lui credeva che lei meritasse di più di Sucre, e questo non aveva mai cercato di nasconderlo, ma fino a quel momento a nessuno era mai importato.
Fino a quel momento.
- Non so che le abbia detto, ma sono tutte bugie. – mise in chiaro il ragazzo – Mariecruz mi ha chiamato dicendo di andare da lei, ha detto che si sentiva tradita e che non mi voleva più. Avresti dovuto sentire come gridava, era fuori di sé.
- E tu che le hai detto?
Michael attese che il ragazzo finisse di bere l’ennesima sorsata, e sentì la voce farsi sempre più confusa mentre ricominciava a parlare.
- E che potevo dirle? – biascicò - Cercavo di capire, era tutto confuso, non sapevo di che cosa parlasse.
Il ragazzo dagli occhi cerulei emise un debole gemito mentre stendeva la schiena appoggiandola allo schienale del divanetto, continuando a fissare il compagno che lentamente perdeva lucidità.
- E poi beh è arrivato Hector, e ha cominciato a dire un sacco di cose, che lei aveva scelto lui, che tra me e lei era finita e io me ne dovevo andare. Mariecruz non diceva niente e così me ne sono andato. – disse lamentoso – Non so perché ma lei era così decisa, e stava abbracciato a lui, e…
- Va bene, Sucre, ho capito. – lo interruppe Michael – Non ci pensare adesso.
- “Non ci pensare”? – il portoricano bevve ancora e terminò la birra del cui numero probabilmente aveva già perso il conto – E a che dovrei pensare? Oh – disse poi, rendendosi conto che la bottiglia era vuota – E’ finita.
- Ne vuoi un’altra?
Michael sapeva che l’unica cosa che era in grado di aiutare Sucre in quel momento era l’alcool; che lui al suo posto avrebbe potuto fare ben poco, che non era in grado di dargli quel senso di confusione liberatoria che invece gli forniva lui, e che nel peggiore dei casi si sarebbero ritrovati di nuovo in bagno a vomitare a tarda notte. Niente che tre litri d’acqua e una manciata di aspirine non avrebbero potuto sistemare la mattina dopo. Niente a cui entrambi non fossero già abituati fin dal primo anno di università.
- No, questa era l’ultima.  – borbottò l’amico deluso – Ma io ne voglio ancora. – realizzò ad alta voce.
Furono sei i secondi. Sei i secondi che trascorsero, sei i secondi necessari ad entrambi per capire che cosa Sucre avesse intenzione di fare, dove avesse intenzione di andare, e perché c’era assoluto bisogno che Michael andasse con lui.
I due si alzarono in piedi quasi nello stesso momento, il primo leggermente più instabile del secondo, che gli premette una mano sulla spalla per tenerlo in equilibrio.
- Ho bisogno di bere – biascicò Sucre a mezzavoce. Michael si assicurò che fosse in grado di rimanere in piedi da solo prima di lasciarlo andare, e anche allora – quando iniziò a camminare in direzione della porta – rimase qualche passo indietro per tenere sott’occhio la sua andatura, ora leggermente gobba ed instabile.
- Guido io – affermò con decisione, vedendo l’amico muovere confusamente le mani alla ricerca delle chiavi – E’ meglio.
- Come vuoi – lo assecondò l’altro.
Michael recuperò la giacca di pelle dall’attaccapanni e le chiavi dal mobiletto all’ingresso, e poi seguì fuori l’amico che non sembrava in vena di aspettare nessuno; le temperature stavano lentamente calando, il ragazzo se ne accorse quasi subito quando richiuse dietro di sé la porta dell’appartamento, ma non ne era troppo preoccupato. L’importante, era che Sucre non si ritrovasse a dover guidare in piena notte e con un tasso di alcool ben al di sopra del limite.
L’importante, era che il parcheggio fosse deserto. C’erano meno possibilità che Sucre decidesse di buttarsi sotto una macchina con il motore acceso.






Ciao :)
Io sono nuova su efp, ho cominciato a scrivere questa storia qualche tempo fa, principalmente perché amo Prison Break e amo il personaggio di Michael, motivo per cui mi sono fissata. Se qualcuno ha voglia di recensire e darmi un suo parere, per capire anche come migliorarmi, mi farebbe piacere :)
Lals_ 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Prison Break / Vai alla pagina dell'autore: lals_