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Autore: Emmastory    10/07/2015    5 recensioni
Valerie Johnson è una ragazza semplice e di buona famiglia, ma il suo giovane destino cambia radicalmente il giorno in cui non commette altro che uno stupido errore. A causa dello stesso, verrà rinchiusa in un Istituto psichiatrico, ove farà conoscenza con dei ragazzi simili a lei. Alcuni le sorrideranno, ma altri finiranno per rappresentare i suoi più raccapriccianti incubi. Per opera di un fato benevolo, riuscirà ad uscire dal labirinto in cui ha finito per perdersi, ma tale impresa si rivelerà titanica.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con | Contesto: Contesto generale/vago
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Il-buio-della-vita-mod
Il buio della vita


Capitolo I


Primordi di me stessa


Una ragazza tranquilla, e apparentemente infaticabile. Due occhi color nocciola, e un luminoso viso contornato da dei lunghi capelli neri. Il mio nome è Valerie, e sono nata in una città densamente popolata del Texas. Potevo tranquillamente affermare di condurre una vita piacevole e rilassata, almeno fino al giorno in cui tutto è cambiato, ovvero oggi. Difatti, quella odierna sembrava essere una giornata completamente normale, ed io sedevo nel mio banco di scuola, mantenendo un religioso silenzio. I minuti scorrevano, e tutto sembrava andar bene, fino a che Jack, il mio compagno di classe, non ha iniziato a prendermi in giro, facendomi letteralmente perdere le staffe. L'ora di arte stava per terminare, ed io mi stavo dando da fare per terminare il disegno che avevo iniziato. Oltre a disegnare con l'aiuto dei miei più basilari strumenti, ritagliavo delle strisce di cartoncino che incollavo subito dopo, quasi a volere che le stesse facessero da cornice al mio capolavoro. Tentavo in tutti i modi di ignorare le parole di Jack, ma ci riuscii solo per poco. Non faceva altro che insultarmi, ma ad ogni modo cercavo di respirare con l'unico scopo di calmarmi, seppur con scarsi risultati. Mi sentivo infatti sempre più nervosa, e sapevo che prima o poi qualcosa in me sarebbe scattato, e che le cose avrebbero sicuramente preso una brutta piega. Dopo alcuni minuti, Jack si alzò dal suo posto, raggiungendo il mio banco unicamente per continuare a prendermi in giro. “Smettila.” Gli dicevo, tentando di mantenere la calma. I miei amici mi conoscono bene, e sanno che sin da quando ero una bambina, ho sempre avuto non pochi problemi a controllare le mie emozioni. Per tale e semplice motivo, in alcuni casi le stesse hanno la meglio su di me, e mi rendono completamente cieca e incapace di rispondere delle mie azioni. Difatti, è come se cadessi in una sorta di orribile trance, dalla quale riesco a riprendermi solo dopo aver ritrovato la calma.  Ad ogni modo, per qualche strana ragione, le mie parole non avevano alcun significato per lui. Mi ignorava completamente, e non sembrava voler smettere. “Basta.” Ripetevo, sentendo una giusta rabbia crescermi dentro. Ancora una volta, venni ignorata, e proprio in quel momento, capii di non poter più sopportare quanto stava accadendo. Lasciando quindi che la mia rabbia si trasformasse in ira cieca, presi in mano le forbici, e le conficcai letteralmente nel braccio di Jack, che si ritrasse subito urlando e contorcendosi per il dolore. Nel fare ciò, chiusi gli occhi, e quando li riaprii, vidi una profonda ferita aprirsi, e del rosso sangue sgorgare, macchiando alcuni bianchi fogli da disegno. A quel punto, tutti i compagni volsero i loro esterrefatti e increduli sguardi su di me. La paura era ora padrona dei loro animi, e nessuno di loro riusciva a credere a ciò che stava accadendo. Subito dopo, vidi una delle mie amiche correre fuori dall'aula, con la ferma e precisa intenzione di avvisare la nostra insegnante dell'accaduto. Quando la professoressa entrò in classe, Jack aveva il braccio bendato da alcuni fazzoletti, sui quali veniva premuto del ghiaccio. “Che è successo?” chiese, allibita. “È stata Valerie.” Dissero i miei compagni, additandomi. In quel preciso istante, tornai ad essere me stessa, e la mia prima reazione fu quella di fuggire, per poi rifugiarmi nei bagni della scuola. Non appena vi entrai, decisi di lavarmi le mani per ripulirle dal sangue, sciacquandomi anche il viso. Fu questione di un attimo, e quando mi voltai, vidi la mia insegnante fissarmi con occhi ora carichi di odio. “Johnson!” urlò, sputando il mio cognome. Voltandomi di scatto nella sua direzione, iniziai inconsciamente a tremare, rimanendo perfettamente immobile anche quando mi costrinse a seguirla, conducendomi nell'ufficio del preside Foster. “Buongiorno, signorina.” Disse, guardandomi negli occhi. “Cosa la porta nel mio ufficio?” chiese, dubbioso. “Ha ferito uno studente.” Disse la signora Castle, facendo le mie veci. A quelle parole, il preside sussultò, non riuscendo a credere a ciò che aveva appena sentito. Subito dopo, spostò il suo incredulo sguardo su di me, pronunciando una frase che mi fece letteralmente gelare il sangue nelle vene. “Sarà sospesa.” Disse, facendomi letteralmente sprofondare in una spirale di vergogna. Tentando subito di difendermi, dissi che ero stata provocata, e che era tutta colpa di Jack, ma non venni creduta. Comprendendo quindi di non avere voce in capitolo, decisi di tacere, per poi seguire la professoressa fino alla mia aula. Non appena vi entrai, tornai subito ad occupare il mio posto. Mi guardai intorno, e non vidi nient’altro che gelidi sguardi scrutare perfino l’interno della mia anima. Poco dopo, posai il mio sguardo sulla signorina Castle, ora impegnata in una conversazione telefonica. Senza volere, rimasi in ascolto, sentendola pronunciare il nome dei miei genitori. Quasi istintivamente, mi alzai in piedi e decisi di avvicinarmi, per poi scoprire che aveva appena finito di informare la mia famiglia circa quanto era appena accaduto. “Raccogli le tue cose.” Disse, spegnendo il cellulare. Senza proferire parola, mi limitai ad annuire, scegliendo di fare ciò che mi era stato chiesto. Rimisi ognuno dei miei libri all’interno del mio zaino, portandolo quindi in spalla. Seguendo a occhi bassi la mia insegnante, raggiunsi la porta dell’aula, ora aperta per consentire la mia uscita. Non appena mi vide uscire dalla classe, la signorina Castle richiuse la porta, ed io vidi mia madre in piedi al centro del corridoio scolastico. Mi avvicinai lentamente a lei, e non dissi una parola, limitandomi a seguirla e salire in auto. Il mio mutismo si protrasse per l’intera durata del viaggio. Ad ogni modo, per qualche ragione a me ignota, mi sentivo sollevata. Difatti, credevo che mia madre mi avrebbe riportata a casa, ma guardando fuori dal finestrino, mi accorsi di sbagliarmi. Difatti, mia madre mi aveva appena accompagnata a casa di mia nonna. Sin da quando ero una bambina, ho sempre amato averla accanto e stare con lei, ragion per cui, scesi dall’auto e bussai alla porta, venendo accolta da entrambi i miei nonni. Non appena mi videro, mi abbracciarono, ed io accettai quella dimostrazione d’affetto senza oppormi. La porta di casa era ancora aperta, e quando mi voltai per chiuderla, vidi che l’auto di mia madre era sparita. Guardandomi intorno, conclusi che aveva deciso di portarmi a casa di mia nonna così che qualcuno potesse prendersi cura di me mentre lei e mio padre sbrigavano delle commissioni. Il tempo scorreva, e l’ora di pranzo arrivò senza farsi attendere. Consumai il mio pasto senza parlare, fino a quando mia nonna non mi fece una domanda. “Com’è andata a scuola?” chiese, dubbiosa. Ricordando improvvisamente quanto era accaduto, non risposi, volendo semplicemente evitare che si preoccupasse. Non appena finii di pranzare, mi ritirai nella stanza degli ospiti, camera quasi in disuso, che secondo i miei nonni potevo occupare senza problemi. Mi sdraiai sul comodo letto lì presente, per poi addormentarmi dopo pochi minuti. Ad ogni modo, fui costretta a svegliarmi dopo poco tempo, poiché una sorta di incubo mi impediva di dormire. Il ricordo legato alla ferita di Jack continuava a tornarmi in mente, e ogni volta mi svegliavo in preda alla paura e al tremore. Malgrado la mia rabbia a riguardo, non riuscivo in alcun modo a perdonare il mio gesto. Tentai quindi di tenermi occupata così da non pensarci, ma per mia sfortuna, anche questo mio tentativo si rivelò vano. Continuai quindi a rimproverarmi del mio gesto, pur sapendo di non poter ormai fare nulla. Il mio dolore cresceva come una robusta quercia, e poco tempo dopo, decisi di non riuscire più a sopportarlo. Per tale ragione, compii la peggiore delle azioni. Mi diressi nel bagno di casa, e lì trovai un piccolo rasoio, che utilizzai per provocarmi dei tagli e delle ferite su entrambe le braccia. Per qualche strana ragione, vedere il mio sangue sgorgare mi rilassava, e non tentavo di fermarne la perdita. Ad ogni modo, dopo un tempo che tuttavia non riuscii a definire, finii per sanguinare copiosamente, e svenire subito dopo. Non ricordo molto riguardo a tale avvenimento, salvo l’aver battuto la testa e aver sentito un forte dolore. Rimasi quindi ferma in quella posizione, inerme sul freddo pavimento di quella stanza, con una pozza del mio stesso sangue accanto a me. Ero ormai incosciente, e non riuscivo a muovermi. La solitudine era la mia unica compagnia, e non mi restava altro da fare che pensare alla mia famiglia e ai primordi di me stessa.
Capitolo II


Il mio risveglio


Alcune ore sono ormai passate, e lentamente riprendo i sensi. Sento che qualcuno chiama con insistenza il mio nome, e riaprendo gli occhi, incrocio il preoccupato sguardo di mia nonna. Non fa altro che scuotermi e parlarmi, pregando che io non svenga di nuovo. Prendendole la mano, mi rialzai da terra, dirigendomi quindi verso la porta della stanza, ora ermeticamente chiusa. Fu questione di un singolo attimo, e mia nonna notò le mie profonde ferite, miracolosamente cicatrizzate. Senza volere, mi strinse forte un braccio facendo sì che una delle stesse ricominciasse a sanguinare. Allarmata, decise di condurmi nel bagno di casa, e curarmi subito bendandomi il braccio, e fermando così la perdita di sangue. Dopo alcune ore, fui costretta a cambiare la benda, e mia nonna si affrettò a chiamare i miei genitori. Non appena ottenne una loro risposta, chiese espressamente che venissi portata in ospedale. Avevo infatti ricominciato a sanguinare, e mi sentivo davvero stanchissima. Dati i miei sintomi, sapevo che mancava poco ad un nuovo svenimento, ragion per cui decisi di sedermi sul divano di casa, dal quale non mi mossi fino all’arrivo di mia madre. “Sali in macchina.” Disse, non appena mi vide. Senza proferire parola, obbedii, violando l’uscio di casa. Subito dopo, attesi in silenzio che mia madre accendesse il motore dell’auto. Quando finalmente lo fece, partimmo alla volta del più vicino ospedale. Raggiungemmo la nostra destinazione nell’arco di mezz’ora, e non appena videro le mie ferite, i medici mi visitarono senza esitazione. Mi ritrovai quindi in una stanza d’ospedale, senza possibilità di muovermi. Ero troppo debole per farlo, e dopo alcuni tentativi, desistetti, addormentandomi profondamente. Mi svegliai dopo alcune ore, trovando accanto a me una giovane ed esperta infermiera. “Ti sei svegliata!” esclamò, felice di vedermi. “Cosa mi è successo?” chiesi, ancora frastornata dal dolore. “Sei svenuta, e i tuoi genitori ti hanno portata qui.” Disse, facendo sparire ogni mio dubbio.” “Che hai fatto alle braccia?” chiese subito dopo, con un tono di voce evidentemente corrotto dalla preoccupazione. Per mera sfortuna della dottoressa, quel suo interrogativo non trovò risposta, poiché io non ebbi il coraggio di parlare. Poco tempo dopo, un secondo medico fece il suo ingresso nella stanza, e quasi ebbe paura nel vedermi. Guardandolo, mi chiesi il perché di tale reazione, rimanendo allibita dalle parole che pronunciò. Disse che avevo passato davvero un brutto quarto d’ora, e che durante il mio sonno mi agitavo e farfugliavo parole e frasi incomprensibili. Da quel momento in poi, iniziai a sentirmi sempre peggio, e il mio umore finì per crollare come un fragile castello di carte non appena ascoltai il parere dell’infermiera. “Non ha altra scelta se non l’Istituto.” Disse, facendomi raggelare. “Che volete dire?” chiesi, con la massima educazione. “Lo capirai presto.” Rispose, mostrando un malevolo e malizioso sorriso. Subito dopo, uno dei medici uscì dalla stanza e andò in cerca di mia madre, trovandola seduta in sala d’attesa. La porta era rimasta socchiusa, e alzandomi lentamente dal letto, riuscii a carpire alcuni dettagli presenti nei loro discorsi. Mia madre rimaneva muta come un pesce, e si limitava esclusivamente ad annuire, poiché troppo occupata ad ascoltare le parole del dottore. Lo stesso, menzionò più volte il già citato Istituto, ed io, che ero lentamente divenuta preda della mia stessa e profonda paura, barcollai all’indietro, rischiando di cadere. In quel preciso istante, iniziai a temere per la mia incolumità. Tutto stava accadendo troppo in fretta, e non avevo la minima idea di cosa avessero voluto farmi. La mia immaginazione galoppava come un destriero selvaggio, e mantenendo il silenzio, temetti il peggio. Non sapevo nulla riguardo al giorno seguente, che sarebbe spuntato come un fiore fra l’erba, ma riflettendo, giunsi ad una conclusione. Qualcosa in me e nella mia vita sarebbe sicuramente cambiato, ed io avrei scoperto tutto al mio prossimo risveglio.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo III


Chiusa in gabbia


Sono appena trascorse due settimane dal giorno della mia disavventura in ospedale, e finalmente sono stata dimessa, ottenendo quindi il permesso di tornare a casa. La mia routine giornaliera sembra ripetersi, ad eccezione delle mie mansioni scolastiche. Difatti, appena qualche giorno fa, mia madre ha ricevuto una telefonata dal preside della mia scuola, che le ha confermato la mia immediata e repentina espulsione. Il mio gesto è stato agli occhi di tutti selvaggio e riprovevole, e non credo che verrò mai perdonata per ciò che ho fatto. Ora come ora, non esiste a questo mondo un giorno che io non passi a pensare ai miei compagni, in particolar modo a Jack, che molto probabilmente ora serba non poco rancore nei miei riguardi. Ad ogni modo, quella odierna è una nuova giornata, e il sole splende nel cielo, anche se tale situazione non sembra modificare il mio umore neanche di una misera virgola. Secondo mia madre, oggi è il giorno designato per visitare la struttura consigliatami dai medici. Lei stessa, dice che sarà esclusivamente per il mio bene, e che tale esperienza si tradurrà in un grande vantaggio. Per qualche strana ragione, non riesco minimamente a condividere il suo entusiasmo, ai miei occhi vagamente mellifluo. Nel mero tentativo di nascondere il mio disappunto a riguardo, ho deciso di fare buon viso a cattivo gioco, salendo subito in macchina e attendendo che mia madre desse inizio al viaggio, che durò per circa due ore. Non appena scesi dall’auto, mi ritrovai davanti a quest’immensa struttura completamente intonacata di bianco. L’interno sembrava anche peggiore. I muri erano di un color grigio fumo, e le porte erano di duro e solido legno. Mentre camminavamo per i corridoi di questo lugubre Istituto, una donna ci fermò, e dopo essersi presentata a mia madre come la proprietaria, mi prese per mano, conducendomi in uno grande stanza con solo due letti. Guardandomi, disse che avrei potuto sceglierne solo uno, e che presto avrei conosciuto la mia compagna di stanza. Incrociando il suo sguardo, mi limitai ad annuire senza proferire parola, e fu una questione di minuti prima che incontrassi la ragazza con la quale avrei condiviso la stanza. Era poco più alta di me, bionda e con gli occhi verdi. “Sono Sarah.” Disse, tendendomi la mano in segno di amicizia. “Io Valerie.” Risposi, regalandole un sorriso. Con una vena di riluttanza nei movimenti, le afferrai la mano, stringendola educatamente. Poco dopo, mi sedetti sul letto, abbandonandomi ad un cupo sospiro. “Come mai sei qui?” chiese Sarah, con un tono che lasciava trasparire la sua curiosità. “Ho ferito un mio compagno di classe.” Risposi, con espressione mesta. “Tu che mi dici?” chiesi, rigirandole la domanda. “Ho tentato di uccidermi.” Disse, abbassando lo sguardo. “Cosa?” esclamai, incredula. “È la verità.” Tardò a rispondere, nel mero tentativo di ricacciare indietro delle lacrime che potei per una frazione di secondo vedere chiaramente. “Capisco se non ti va di parlarne.” Dissi, avvicinandomi e tentando di consolarla. “Non è colpa tua.” Rispose, tirando su col naso. Provando istintivamente pena per lei, presi da terra il mio zainetto, e ne estrassi dei fazzoletti, porgendogliene uno. Accettando la mia offerta, Sarah si asciugò le lacrime, ringraziandomi subito dopo. Ad ogni modo, passai il resto della giornata a parlare con lei. Capendo di poterla ritenere un’amica e fidarmi, la misi al corrente dei miei frequenti e talvolta incontrollati sbalzi d’umore, e lei fece lo stesso riguardo ai suoi tentativi di porre fine alla sua vita. Ora come ora, una parte di me si sente molto più rilassata, poiché so di aver appena trovato una nuova amica, ma un’altra, al contrario, si sente irrimediabilmente chiusa e segregata in un’impenetrabile e immaginaria gabbia, dalla quale non credo di poter mai riuscire a scappare, pur desiderando la mia fuga con ogni singola fibra del mio giovane corpo.

 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo IV


Di male in peggio


Sono ormai prigioniera da circa un mese, e mi sono svegliata alle prime luci dell’alba. Quello odierno, sembrava essere un giorno uguale agli altri, ma per qualche strana ragione, credo che non lo sarà affatto. Sin da quando ho messo piede in questo Istituto, mi sento davvero meglio. Difatti, sin da allora non ho più fatto male a nessuno, e neanche a me stessa. Ad ogni modo, c’è qualcosa nel comportamento di Sarah, che mi turba non poco. È infatti molto nervosa, e non fa altro che camminare per la stanza, in un confuso e continuo andirivieni. Non ha alcuna voglia di parlare, e si rivolge a me esclusivamente attraverso l’uso di monosillabi. Inoltre, sembra essere costantemente spaventata da qualcosa. “Hai sentito anche tu?” mi chiede, iniziando a tremare. “Sentito cosa?” le chiedo, con aria interrogativa. “Quel rumore.” Risponde, guardandomi con occhi pieni di terrore. Confusa, la guardo senza capire. Poco tempo dopo, mi guardo intorno, e un improvviso rumore spezza la mia concentrazione. Sento il suono di una porta che cigola e si chiude venendo violentemente sbattuta. Spostando nuovamente il mio sguardo su Sarah, noto che è davvero spaventata. “Non è niente, ora torna a letto. Le dico, sperando di aiutarla a calmarsi. Alcune ore passano, e nessuna di noi due riesce a dormire. Io continuo a pensare a Jack, e lei è ancora tormentata dal suo nervosismo. Il tempo scorre, ed io sto per addormentarmi, ma un insolito rumore metallico mi distrae. Ora come ora, la stanza è troppo buia perché io riesca a vedere ciò che mi circonda, ma aguzzando la vista, continuo a guardarmi attorno, notando la presenza di un oggetto che sembra brillare nel buio. Scendendo dal letto, decido di provare a raccoglierlo, incontrando una sorta di invincibile resistenza. La luce della luna fa capolino fra le nuvole, illuminando debolmente la stanza. Con il passare dei minuti, i miei occhi si sono abituati all’oscurità, al punto tale che ora riesco a vedere chiaramente. Proprio in quel momento, incrocio lo sguardo di Sarah. “Che stai facendo?” le chiedo, quasi rimproverandola. “Voglio andarmene.” Risponde, con un tono mestamente corrotto dalla paura e da un inspiegabile dolore. Guardandola, noto che si è procurata delle ferite al collo, e che fatica a respirare. In quel preciso istante, la mia prima reazione è quella di afferrarle il polso e auscultare il suo battito cardiaco. Agendo quindi d’istinto, decido di avvicinarmi al mio letto, strappando leggermente il lenzuolo, così da usarlo come benda per le ferite di Sarah. Dopo averla medicata, le chiedo di sdraiarsi, offrendole quindi dell’acqua da una bottiglia posta all’interno del mio zainetto. Il sangue scivola lentamente sul suo corpo, macchiandole i vestiti e raggrumandosi anche sul pavimento. Poco tempo dopo, scoprii che teneva in mano un paio di affilate forbici. “Dammele.” Le dissi, tendendo la mano. “Non posso.” Rispose, con fare timoroso. “Dammi le forbici. Ripetei, in tono serio. Alle mie parole, Sarah non rispose, decidendo di arrendersi e lasciando che fossi io a prendere in mano le forbici. Subito dopo, mi avvicinai alla finestra, e le lasciai cadere su un cumulo di soffice e verde erba. Sdraiandomi sul mio letto, sperai di addormentarmi ignorando l’odore del sangue di Sarah, ancora presente nella stanza. Mi svegliai la mattina dopo, trovando la mia amica timidamente rannicchiata in un angolo. “Che cos’hai?” le chiesi, preoccupata. “Ho paura.” Rispose, con voce tremante. “Va tutto bene.” Le dissi, mostrandole un sorriso e guardandola negli occhi. “Chiama l’infermiera.” Mi pregò, mentre potevo vedere il suo giovane corpo venire scosso da un tremito. Senza proferire parola, annuii, lasciando quindi la stanza. Subito dopo, decisi di avventurarmi nel cupo e lugubre corridoio, unicamente per fare ciò che mi era stato chiesto. Durante il mio cammino, notai una porta socchiusa, dalla quale filtrava un debole fascio di luce. Sapevo bene di doverne stare alla larga, ma per qualche strana ragione, il mio istinto mi fece da guida, inducendomi ad entrare. Muovendomi quindi verso la porta stessa, decido di aprirla, sopportando senza un lamento il cigolio che ne deriva. Guardandomi attorno, noto che proprio davanti a me c’è un ragazzo, che non sembra tuttavia essere al massimo della forma. Cammina infatti barcollando, e biascica parole prive di senso. Impietrita dalla paura, lo guardo negli occhi, e noto che si sta lentamente avvicinando a me. Fatti pochi passi, mi stringe le mani, e mi trascina all’interno della stanza. Ancora impaurita e incapace di reagire, non muovo un muscolo, limitandomi a fissare lo sguardo sul pavimento, ora lercio e ricoperto di sudiciume. Ad ogni modo, un altro particolare mi colpisce come un pugile farebbe con l’avversario. Sul pavimento giace quella che scopro essere una vitrea siringa usata. Alla mera ricerca di rifugio e conforto, inizio ad indietreggiare, trovandomi letteralmente con le spalle contro il muro. La mia paura cresce, e il mio battito cardiaco accelera. Ora come ora, non posso fare altro che mantenere il silenzio e pregare perché questa sorta di incubo nel quale mi trovo finisca presto. Alcuni preziosi minuti svaniscono come nebbia dalla mia vita, ed io ho il solo tempo di udire il suono del mio ora affannoso respiro unito a quello dei miei vestiti che vengono strappati. La mia maglietta è ora ridotta a brandelli, e giace ai miei piedi. Lo stessa sorte tocca ai miei jeans, che riportano un orribile squarcio. Istintivamente, inizio a piangere e pregare, dibattendomi per liberarmi dalla ferrea presa che quel ragazzo sta ora esercitando su di me. È questione di un mero attimo, ed io mi ritrovo schiacciata contro il muro di quella sudicia stanza. Non sento altro che dolore, e lo stesso mi porta ad urlare. Un urlo lancinante disturba la quiete che regna intorno a me, ed io riesco perfino a sentirne l’eco. Chiudo quindi gli occhi, nella mera e forse vana speranza di estraniarmi da quanto sta accadendo. Un improvviso dolore al ventre mi toglie il respiro, e riaprendo gli occhi, raccolgo il mio coraggio, guardando quindi in faccia colui che ho di fronte. Non osa staccare gli occhi da me, ed è evidentemente certo della mia sofferenza. Ad ogni modo, sembra ricavare piacere dalla stessa, ed è come se le mie urla lo esortassero a continuare. Soffro quindi in silenzio, e il mio calvario sembra non avere fine. I minuti sembrano ore, e dopo un tempo che mi pare interminabile, vedo che la porta si apre. Un’infermiera la varca, afferrando il mio aggressore per le spalle e costringendolo a lasciarmi andare. Non appena riesco a liberarmi dalla sua presa, decido di ringraziare l’infermiera. “Ho fatto solo il mio dovere, ora Christian non ti disturberà mai più.” Dice, guardando negli occhi quel ragazzo dallo sguardo vitreo e perso nel vuoto più totale. “Torna dalla tua amica.” Aggiunge, regalandomi un sorriso. Accettando il suo consiglio, decido di uscire subito da quella stanza, luogo dove le mie sofferenze hanno avuto tragicamente inizio. Subito dopo, torno da Sarah, che alla mia vista appare sconvolta. “Che ti è successo?” chiede, dubbiosa e sconcertata.” “Non voglio parlarne.” Rispondo, risultando realmente troppo scossa e provata per farlo. In breve tempo, cala la sera, ed entrambe decidiamo di provare a dormire. Mantengo un religioso silenzio, ma il mio sonno è disturbato dal ricordo di quanto ho subito. Ad ogni modo, decido saggiamente di ingoiare il rospo ed evitare di parlarne con Sarah, la quale dorme profondamente, e sembra essere prigioniera di un invisibile mondo onirico. Per me si profila una lunga notte insonne, passata a riflettere e sperare in un avvenire migliore, mentre la paura si annida nel mio animo.      
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
Capitolo V


Sangue e dolore


Tre lunghi e apparentemente infiniti giorni sono appena trascorsi, e il ricordo di quanto accaduto in quella stanza mi tormenta ancora. Le mie notti sono perennemente disturbate da quella rimembranza, e oggi sono spettatrice di una sorta di orribile avvenimento. Sin da stamattina, vengo colta da tremendi attacchi di nausea, a causa dei quali finisco per rimettere sangue. Ora come ora, tento disperatamente di mostrare un comportamento normale e privo di sospetti, ma la farsa che architetto con ingegno e arguzia è destinata a durare ben poco. Difatti, il mio viso pallido e la mia debolezza attirano l'attenzione di un’infermiera, che esaminando i miei sintomi, giunge ad un'inaspettata conclusione. Secondo il suo pensiero, potrei essere incinta. Ha pronunciato quelle parole con una calma ed una compostezza a mio dire mostruose, ed essendo una ragazza di appena quindici anni, stento letteralmente a crederci. Difatti, sapere di portare in grembo un bambino, creatura indifesa e completamente dipendente da una madre, è qualcosa di incredibile. Senza proferire parola, guardai l'infermiera negli occhi, sperando che mi fornisse un qualunque consiglio riguardo all'attuale situazione. “Hai una sola possibilità.” Disse, in tono serio ma pacato. “Quale sarebbe?” chiesi, con voce tremante e ora corrotta dall'indecisione. “Devi avvertire i tuoi genitori.” Rispose, facendomi letteralmente raggelare. “No!” Urlai, senza neanche rendermene conto. Dopo alcuni secondi, riuscii a calmarmi e riacquistare la lucidità ormai persa, spiegando in tutta calma le mie ragioni all'infermiera. Respirai a pieni polmoni, dicendole che non avrei mai potuto farlo, poichè i miei genitori avrebbero sicuramente avuto la peggiore delle reazioni. Guardandomi negli occhi, la dottoressa tentò di confortarmi, dicendomi che presto tutto si sarebbe risolto, e che ogni avvenimento della mia vita avrebbe riacquistato la normalità originaria. Ringraziandola, lasciai che le mie labbra si dischiudessero in un sorriso, decidendo quindi di tornare nella mia stanza. Non appena ne varcai la soglia, aprendo lentamente la porta, lo sguardo di Sarah si posò su di me. I suoi occhi verdi erano ora decisamente penetranti, e sembravano scrutare silenziosamente perfino l’interno della mia giovane anima. Fingendo un disinteresse realmente non nutrito nei suoi confronti, la ignorai, tentando di comportarmi come se nulla fosse accaduto. “Come stai? Va tutto bene?” chiese, dubbiosa. “Si.” Mi limitai a rispondere, potendo sentire il battito del mio cuore accelerare con il timore di venire scoperta. “Ti ho sentita gridare.” Continuò, cogliendomi letteralmente alla sprovvista. In quel momento, abbassai lo sguardo, scivolando nel più completo silenzio. Non sapevo assolutamente cosa dire. Ero consapevole di non poter trovare una valida giustificazione alla mie urla, e come se non bastasse, Sarah sembrava aver capito tutto. Poco tempo dopo, sospirai, decidendo di rompere il mio silenzio. “Devo dirti una cosa.” Esordii, guardandola negli occhi. Alle mie parole, lo sguardo di Sarah sembrò illuminarsi, e pur senza proferire parola, mi incoraggiò a continuare il mio discorso. “Un ragazzo mi ha fatto del male.” Dissi, tacendo subito dopo. “Chi era?” mi chiese, stranamente incuriosita. “Si chiamava Christian.” Risposi, guardandola negli occhi. “Come?” esclamò, con un tono a metà fra sorpresa e spavento. “Lo conosci?” continuai, confusa e preoccupata. “Sono qui da molto più tempo di te perciò sì.” Disse, mantenendo la calma. “Stagli lontana, d’accordo?” continuò, completando il suo discorso con una nostra stretta di mano. “D’accordo.” Risposi, annuendo e afferrando la sua mano. Subito dopo, decisi di allontanarmi da lei unicamente per ammirare il panorama visibile dal vetro della finestra. Il sole splendeva, ma dopo aver parlato con Sarah, sento una sorta di incolmabile vuoto dentro di me. Difatti, anche se la conosco da poco, so di volerle bene, essendo ad ogni modo consapevole di non averle confessato il mio segreto, giacendo nel mio mero e profondo dolore mascherato da un mellifluo sorriso che in sua presenza si dipinge sul mio volto.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VI


Lo scorrere del tempo


È l’alba di un nuovo giorno, ma il sole non si vede. È completamente celato alla mia vista poiché ha trovato rifugio dietro ad una coltre di nere nuvole cariche di pioggia. La stessa, inizierà sicuramente a cadere entro poco tempo, mentre io taccio in un silenzio quasi tombale. Ora come ora, sono sdraiata sul mio letto, e sono intenta a fissare il bianco soffitto. Ritrovandomi immersa e naufraga nel mare dei miei stessi pensieri, inizio nuovamente a sentire dolore. Quasi istintivamente, mi alzo in piedi, violando la porta della mia stanza per mettermi alla ricerca dell’infermiera. Altri due lunghi mesi sono volti al termine, e le mie condizioni non sono migliorate, ragion per cui, ho deciso di chiedere il suo parere. Incontrandola nel corridoio, le ho spiegato l’intera situazione nei minimi dettagli. Subito dopo, l’ho seguita nel suo studio senza parlare. Ad ogni modo, mentre camminavo, sentii un suono familiare, al mio udito simile a del vetro che va in pezzi. Arrestando di colpo il suo cammino, l’infermiera posò il suo attento sguardo sul pavimento, notando la presenza di una vitrea siringa ormai rotta. I frammenti di vetro che la componevano erano pericolosamente vicini a dove mi trovavo, motivo per cui dovetti camminare con maggiore attenzione, avendo cura di non staccare gli occhi dal pavimento. “È sicuramente di Ryder.” Disse l’infermiera, facendomi sobbalzare. “Chi è?” chiesi, improvvisamente colta da un’inspiegabile paura. “È uno degli amici di Christian.” Rispose, in maniera calma e distaccata. Alle sue parole, non replicai, decidendo di continuare a camminare. Poco tempo dopo, raggiunsi lo studio della dottoressa, chiedendole informazione sulla salute del mio bambino. Scuotendo il capo, mi disse che non ne sapeva nulla, e che l’unico modo per avere qualunque tipo di notizia era sottopormi ad un ecografia, alla quale, decisi di non sottrarmi. Subito dopo, mi sdraiai su un lettino lì presente, e senza proferire parola, lasciai che la dottoressa svolgesse il suo lavoro. Alcuni minuti passarono, e mi fu chiesto di alzarmi. Mi rimisi in piedi senza un fiato, e attesi. “Mi dispiace.” Esordì la dottoressa a capo chino. “Per cosa?” chiesi, confusa e stranita. “Il bambino non ce l’ha fatta.” Rispose, con espressione mesta. A quella notizia, scoppiai a piangere, e uscii subito dalla stanza. In quel momento, non mi andava di parlare con nessuno, poiché avrei semplicemente voluto addormentarmi e dimenticare ogni cosa. Camminavo nell’ampio corridoio, e i miei singhiozzi riecheggiavano nel silenzio rotto come vetro unicamente dal rumore dei miei passi. Ad ogni modo, mi ritrovai costretta ad arrestare il mio cammino. Avevo chiuso gli occhi per un attimo, e improvvisamente sentii qualcuno stringermi il braccio. Istintivamente, riaprii gli occhi, raggelando dinanzi a ciò che vidi. Due ragazzi stavano cercando di impedirmi di passare, ed entrambi mi stringevano con tutte le loro forze. Avevano una sorta di cicatrice in prossimità del loro occhio, e guardandomi attorno notai che uno di loro aveva in mano una bustina di plastica. Sui loro volti era stampato un malevolo sorriso, ed io non avevo la minima idea del perché mi avessero preso di mira. Poco tempo dopo, per qualche strana ragione, mi sentii svenire, e caddi in terra senza alcuna reazione. Non ricordo molto riguardo a quanto seguì, ma so di essermi risvegliata nella mia stanza. Accanto a me c’era Christian, e aveva un’espressione triste e preoccupata. Il suo disappunto nei confronti degli amici era ora evidente, ed è come se lui stesse in qualche modo cercando lentamente di redimersi. Mentendo a me stessa, continuo a negarlo, eppure credo che io e lui abbiamo molte più cose in comune di quanto crediamo. Al momento non ho certezze, ma so per certo che un giorno assisterò alla fine del mio dolore. Non devo quindi far altro che chiudere gli occhi, respirare a pieni polmoni, e assistere al mero ed infinito scorrere del tempo.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VII


Il sapore della libertà


Il passare dei mesi mi ha in qualche modo riavvicinata alla normalità che vivevo in precedenza. Ora come ora, ogni cosa sembra essere tornata alla normalità, e il mio futuro si prospetta più roseo. Difatti, ho imparato a controllare i miei sbalzi d’umore, Sarah non ha più intenzione di andarsene, e Christian sembra essere cambiato radicalmente. Da qualche giorno a questa parte, non smette di parlarmi dei suoi amici, continuando a scusarsi del loro comportamento. “Ryder e Thomas non avrebbero dovuto avvicinarsi.” Ripete, con un tono genuinamente gentile. Alle sue parole, sorrido ogni volta, non potendo evitare di sentire una sorta di peso scivolare fuori dal mio cuore. Il tempo sta passando, e il vento riempie le giornate di cambiamenti. Attualmente, secondo il pensiero dell’infermiera, sia io che la mia amica siamo ormai pronte per essere dimesse da questo Istituto, mentre il destino di Christian e dei suoi compagni appare incerto. Difatti, pochi giorni fa Ryder è stato sorpreso a fare uso di droga, ragion per cui, il suo soggiorno è stato prolungato. La dottoressa continua a ripetere che nessuno di loro uscirà da quella struttura finchè non saranno completamente guariti da questa loro dipendenza. Ad ogni modo, per qualche strana e a me ignota ragione, a Christian viene  data molta più libertà rispetto a quella che è ora concessa ai compagni. Difatti, è libero di lasciare la sua stanza e visitare le altre, e anche di uscire dall’edificio seppur rispettando una sorta di coprifuoco. Sin da quando ha tentato di proteggermi, sia l’infermiera che la proprietaria dell’Istituto hanno cambiato radicalmente idea su di lui. Entrambe, sono infatti convinti di aver visto nei suoi occhi una sorta di debole barlume di speranza, ragion per cui, hanno deciso di riporre in Christian tutta la loro fiducia. Ad ogni modo, nel mio cuore sorge e permane un dubbio, secondo il quale, Christian non sia cambiato per niente. Tentando di allontanare quel pensiero dalla mia mente come farei con una fastidiosa mosca, scossi il capo, scegliendo di passare il resto della giornata con Sarah. Lei stessa, mi ha oggi raccontato di essere parte di una famiglia numerosa, composta oltre che da lei e dai genitori, da altri tre fratelli minori di lei di cinque anni. Ho ascoltato il suo racconto in perfetto silenzio, e poco tempo l’ho sentita rigirarmi la domanda. Dopo aver inesorabilmente spezzato il silenzio creatosi nella stanza, le ho risposto dicendole che ero figlia unica, e che avere una sorella era uno dei miei più grandi desideri di bambina. “Hai un gran cuore.” Mi ha detto, sorridendo. “Ti ringrazio.” Ho risposto, guardandola negli occhi e vedendoli brillare. Alle mie parole, Sarah sorrise, sdraiandosi quindi sul suo letto. Posando nuovamente il mio sguardo su di lei, la imitai, respirando profondamente la pura aria che entrava dalla finestra ora aperta. Improvvisamente, sentii uno scatto, e voltandomi verso la fonte di quel rumore, scoprii che la porta era appena stata aperta. “Salve ragazze.” Disse la proprietaria, in tono gentile ed educato. “Buongiorno a lei.” Rispondemmo all’unisono. “Ho delle buone notizie per voi.” Continuò, facendo crescere in noi un’ansia indescrivibile. Ad ogni modo, attendemmo che ricominciasse a parlare senza proferire parola. “Ho appena parlato con le vostre famiglie, siete libere di andare.” Concluse, sorridendo e facendo in modo che la felicità si impadronisse dei nostri animi. A quella notizia, non potei fare a meno di sorridere a mia volta, procedendo quindi a spostare il mio sguardo su Sarah. “Riesci a crederci?” le chiesi, ormai fuori di me dalla gioia.” “Sembra un sogno.” Rispose, con gli occhi che ora brillavano come astri notturni. La nostra conversazione terminò con quella frase, e subito dopo iniziammo a raccogliere le nostre cose e prepararci, così da essere pronte per l’arrivo dei nostri genitori. Ad essere sincera, ogni secondo passato qui mi è sembrato eterno, e sapere di poter finalmente andare via è davvero un sollievo per me. Ora come ora, sono impegnata a riordinare i miei vestiti e riporli accuratamente in una delle mie valigie, ma sono certa che Sarah è del mio stesso avviso. Il lungo lasso di tempo trascorso qui ci ha unite, e per tale ragione speriamo che il nostro forte legame di amicizia, ora ferreo, non si spezzi mai. Ora come ora, io e lei possiamo dirci felici e libere di vivere, assaporando quella che a breve scopriremo essere la vera libertà.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo VIII


Decisioni e rifiuti


Sei lunghi mesi hanno raggiunto il loro culmine, e un intero anno è ormai volto al termine. Ora come ora, ho sedici anni, e la mia amica Sarah si è trasferita nella mia stessa cittadina, abitando ad un isolato da casa mia. Nonostante la considerevole distanza, riusciamo comunque a vederci e trascorrere del tempo insieme. Sin da quando mi ha conosciuto, Sarah ripete che io le ho letteralmente salvato la vita. Concedendomi del tempo per riflettere, capisco perfettamente il suo punto di vista. Difatti, sono stata l’unica persona che ha scelto di restarle accanto durante la sua permanenza nell’Istituto nel quale era stata rinchiusa assieme a me. “Senza di te non sarei viva.” Dice, sorridendo e stringendomi in fortissimi abbracci. Accettando senza oppormi le sue manifestazioni d’affetto, le sorrido. Io e lei abbiamo la stessa età, e amiamo divertirci l’una al fianco dell’altra. Proprio oggi, mi aveva infatti invitata a casa sua per pranzo, così da poter passare con me il pomeriggio. Ad ogni modo, pur non volendo in alcun modo essere scortese, ho preferito declinare il suo invito, asserendo di non sentirmi affatto bene. Difatti, sin da stamattina, dei forti capogiri, uniti ad un apparente stato febbrile, sembrano debilitarmi. Notando il mio stato di salute, mia madre ha deciso di offrirmi il suo aiuto, consigliandomi di rimanere a letto per qualche tempo. Annuendo, accettai il suo consiglio e raggiunsi la mia stanza. Poco tempo dopo, decisi di uscirne e tornare nel salotto di casa. Subito dopo, tentai di violare la porta di casa, venendo però fermata da mia madre. “Dove credi di andare?” mi chiese, facendo uso del suo talvolta pungente sarcasmo. “Sto meglio, andrò a fare una passeggiata.” Risposi, tentando essere abbastanza convincente da ottenere il suo permesso. Per mia fortuna, mia madre mi lasciò uscire ed io montai sulla mia fedele bici. Mia madre sa bene che amo stare all’aria aperta, e per tale ragione, ho ricevuto in dono una bicicletta per il mio tredicesimo compleanno. Pedalavo lentamente, così da poter ammirare il panorama ed evitare di stancarmi. Dopo alcuni minuti, decisi di fermarmi, poiché le gambe mi facevano davvero male. Avevo appena raggiunto il parco cittadino, e sedevo su una panchina con la ferma intenzione di riposarmi. Il tempo passava, e la mia bici era appoggiata proprio accanto a me. Ero impegnata a guardare il cielo, ora azzurro e contornato da bianche e immacolate nuvole, quando qualcos’altro entrò nel mio campo visivo. Vidi infatti un ragazzo dai capelli castani, i cui occhi azzurri sembravano rapirmi. Guardando meglio, mi accorsi di riuscire a riconoscere quel volto. “Christian?” pensai. “Cosa ci faceva lì?” mi chiesi, andando alla ricerca di una spiegazione logica. Mi persi quindi nei miei pensieri, vedendolo avvicinarsi. Non appena mi vide, Christian mi salutò, ed io potei vedere le sue labbra dischiudersi in un luminoso sorriso. “Come stai?” mi chiese, apparendo stranamente curioso e interessato. “Va tutto bene, ti ringrazio.” Risposi, sorridendo a mia volta. Senza proferire parola, lo guardai negli occhi. Il mio comportamento lo portò a mangiare la foglia, e per tale ragione, si sedette accanto a me, iniziando quindi a parlarmi di sé stesso. “Sono stato dimesso da poco, e ho avuto modo di pensare.” Disse, tacendo subito dopo. Per qualche strana ragione che anche volendo non riuscirei a spiegare, l’ultima parte di quella frase mi incuriosì. “A cosa?” gli chiesi, sperando in tal modo di chiarire i miei dubbi. “A te.” Rispose, trascinando in uno stato di inesorabile confusione mentale. Scivolando nel più completo mutismo, lo guardai senza capire. “So di averti ferito, ma voglio davvero stare con te.” Continuò, sfiorandomi una mano. In quel momento, fui letteralmente pervasa da una strana ed inspiegabile sensazione. Il mio cuore sembrava infatti essere diviso in due. Una parte di me voleva che gli credessi, mentre l’altra mi suggeriva di allontanarlo e rifiutare, decidendo quindi di non credere alle sue parole. Poco tempo dopo, respirai profondamente. In cuor mio, avrei davvero voluto accettare, dandogli così la possibilità di amarmi, ma poco prima che riuscissi a rispondere, un ricordo si fece strada nella mia mente, portandomi a rimembrare quanto accadutomi per causa sua. “Christian, mi dispiace.” Mi limitai a rispondere, alzandomi in piedi e montando sulla mia bici. Subito dopo, iniziai a pedalare, allontanandomi e lasciandolo completamente da solo. Poco tempo dopo, lo sentii imprecare contro di me, pur non potendo distinguere chiaramente le sue parole. Quasi istintivamente, accelerai, iniziando a pedalare ancora più velocemente. Raggiunsi casa mia nel giro di mezz’ora, decidendo quindi di tornare nella mia stanza. Non appena vi entrai, mi sdraiai sul mio letto, afferrando il mio cellulare dalla tasca dei miei jeans. Subito dopo, composi il numero di Sarah. “Ho rivisto Christian.” Le dissi, non appena rispose. “Cosa ti ha detto?” mi chiese, dubbiosa e incuriosita. “Voleva che ci fidanzassimo.” Risposi, in completa e totale sincerità. “Hai accettato?” Continuò, ponendomi una seconda domanda. “No.” Dissi, sospirando.  “Perché?” chiese, ora di nuovo curiosa ma al contempo invadente. “Ho le mie ragioni.” Risposi, salutandola e mettendo quindi fine alla telefonata. Dopo averlo fatto, lasciai il cellulare sul letto, dirigendomi verso la cucina per la cena. Durante il pasto, la mia mente era colma di pensieri, che diminuivano il mio appetito. Mangiai nonostante l’inappetenza, non potendo evitare di dubitare di me stessa. Ad ogni modo, non appena tornai in camera, ripresi in mano il mio telefonino, notando salvata in memoria, una foto mia e di Jack. In quel momento, mi lasciai travolgere e bagnare da un fiume di ricordi. Rimembrai quindi di averla scattata in un assolato pomeriggio primaverile, nello stesso parco che avevo oggi visitato, dove allora avevo passato il pomeriggio con alcuni amici. Quella foto ritraeva me e Jack abbracciati, e dopo averla vista, mi interrogai sui miei sentimenti per lui. Abbandonandomi nuovamente ad un cupo sospiro, spensi il cellulare, nascondendolo sotto al mio cuscino. Poco tempo dopo, decisi di indossare il mio pigiama, e infilarmi sotto le coperte. Non tentai minimamente di oppormi ai richiami del sonno, scivolando in una dimensione onirica dalla quale speravo di non fare ritorno.
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo IX


Certezze e letizia


Il magnifico e dorato sole spunta di nuovo nel cielo, ed io apro lentamente gli occhi alzandomi dal letto. Un nuovo giorno è in procinto di iniziare, e un motivato ottimismo mi pervade. Ad ogni modo, la stagione estiva ha finalmente deciso di farci visita. Per tale ragione, un uccellino è appollaiato sul davanzale della mia finestra. Aprendola lentamente, decido di offrirgli le briciole rimaste dalla mia colazione, che lo stesso becca senza problemi. Subito dopo, richiudo la finestra guardando quel timido uccellino mostrare un attimo di incertezza e poi volare via spiegando le piccole ali. Da mera spettatrice, osservo quello spettacolo per alcuni secondi, scegliendo poi di scendere le scale verso il piano inferiore. Raggiunsi la cucina in pochi minuti, procedendo a dirigermi verso la porta di casa. “Vado da Sarah.” Dissi a mia madre, volendo evitare che si preoccupasse. “Fa attenzione.” Mi ammonisce, sapendo che prenderò la bici. Annuisco continuando a camminare, e una volta raggiunto il giardino, monto in sella alla mia fedele bici. Pedalando per circa una ventina di minuti, raggiungo la casa della mia amica, bussando educatamente alla sua porta. Attendo per alcuni secondi, e mi accorgo che è lei ad aprire. Dopo averlo fatto, mi saluta amichevolmente, ed io la stringo in un abbraccio. “Va tutto bene?” mi chiede, curiosa. “Sì, grazie.” Rispondo, violando l’uscio di casa sua. “Vuoi qualcosa da bere?” continua, notando quanto sono stanca e accaldata. Mantenendo la calma, scuoto il capo declinando la sua offerta. Poco tempo dopo, a Sarah viene un’idea, ed entrambe finiamo sedute sul divano a guardare un film. Entrambe abbiamo gli occhi letteralmente incollati allo schermo, e non ci accorgiamo del tempo che passa. Un’intera ora vola così via dalle nostre vite, proprio come il timido passerotto che ho visto stamattina. In breve, arriva l’ora di pranzo, e la madre di Sarah mi invita a stare da loro. Malgrado la mia iniziale riluttanza, decido di telefonare a mia madre, e ottengo il permesso. Attendendo quindi che il pranzo sia pronto, seguo Sarah fino alla sua stanza, dove io e lei iniziamo a discorrere. “Sembri strana, qualcosa non va?” esordisce, cogliendomi alla sprovvista. “Non è niente.” Dico, tentando invano di depistarla. “A me puoi dirlo.” Continua, infondendomi sicurezza. “Ho ritrovato una vecchia foto, e da allora non riesco a smettere di pensarci. “Che vuoi dire?” chiede, mostrandosi dubbiosa e al contempo genuinamente preoccupata per me. “È una foto mia e del ragazzo di cui ti parlavo.” Dissi, tentando di mantenere la calma. “Intendi Jack?” chiese, confusa.” Sì.” Mi limitai a rispondere, volendo evitare di scendere nei dettagli. “Qual è il problema?” chiese Sarah, dopo una pausa di silenzio. “Credo di essermi innamorata.” Ammisi, sedendo sul suo letto e abbassando lo sguardo. Alle mie parole, Sarah sorrise, ponendomi quindi una domanda che mi tolse il respiro. “Glielo dirai mai?” chiese, facendomi trasalire. “Non potrei mai.” Dissi, provando un profondo senso di paura e vergogna. “Perché?” chiese, apparendo nuovamente preoccupata. “L’ho ferito, e sono certa che prova rancore.” Risposi, in tono serio e pacato.” “Se non provi non lo saprai mai.” Mi disse, regalandomi un sorriso. Alle sue parole, sorrisi a mia volta, stringendola quindi in un abbraccio. Poco tempo dopo, la madre di Sarah aprì la porta della stanza, avvisandoci che il pranzo era ormai pronto. A quella notizia, annuimmo entrambe, ed io seguii Sarah fino alla cucina. Consumai il mio pasto senza proferire parola, e una volta finito, ringraziai i genitori di Sarah e la salutai poco prima di andarmene. Tornai a casa in poco tempo, e lasciai che la mia bici giacesse sul prato del mio giardino. Entrai quindi in casa, e raggiunsi subito la mia stanza. Quando vi entrai, mi lasciai quasi automaticamente cadere sul letto. Il mio cellulare era ancora al suo posto sotto al cuscino, e il display emanava una forte luce. Premendo l’apposito pulsante, scoprii che Sarah mi aveva appena inviato un messaggio. “Ce la farai.” Diceva, fungendo per me da iniezione di sicurezza e autostima. “Grazie.” Le scrissi, decidendo di riporre il cellulare sotto al mio cuscino, lasciandolo accesso e attendendo una sua risposta. La sera calò in fretta, ed io finii per addormentarmi. Il mio telefonino non squillò fino alla mattina dopo. Lo presi in mano non appena mi svegliai, scoprendo la presenza del messaggio che aspettavo. “Ti voglio bene.” Recitava stavolta, riuscendo a strapparmi un sorriso. Ad ogni modo, passai il resto della mattinata a parlare al telefono con Sarah, impiegando il pomeriggio in tutt’altro modo. Difatti, decisi di tornare al parco, con la ferma e decisa intenzione di fare una corsa. Amavo il calore del sole, e sapevo che correre mi avrebbe aiutato a rilassarmi e liberare la mente. Correvo senza una meta, sentendo il distinto e piacevole profumo dei fiori. Ad ogni modo, mantenevo un ritmo sostenuto e regolare, pur non notando la presenza di un rametto nel prato, dove inciampai cadendo in terra. Tentando di ignorare il dolore derivante dalla mia caduta, provai a rialzarmi, riuscendoci dopo un singolo tentativo. Subito dopo, zoppicai fino ad una panchina, sedendomi per riposare. Rimanevo ferma, e osservavo la natura attorno a me. Ammiravo il volo di un uccello, e improvvisamente scorsi la figura di un ragazzo. Aveva gli occhi castani, e i capelli neri come i miei. Una ferrea ma sobria catenina gli impreziosiva il collo, e un piercing al labbro accentuava la sua bellezza. Quasi istintivamente, abbassai lo sguardo, fissandolo sul mio cellulare. Per una mera e semplice distrazione, premetti il tasto errato, e quella foto comparve sullo schermo. La guardai per alcuni secondi, alzando quindi lo sguardo. In quel preciso istante, rividi il volto di quel ragazzo, e notai un’incredibile somiglianza con quella nella foto. Rimasi a guardarlo quasi incantata, e non osai proferire parola. Poco tempo dopo, lo vidi avvicinarsi, sentendolo chiamare il mio nome. “Valerie?” esordì, dubbioso e confuso almeno quanto me. “Jack, sei proprio tu?” chiesi, ancora in preda alla confusione. “Sei cambiata.” Mi disse, sedendosi al mio fianco. Quasi istintivamente, sorrisi, regalandogli un luminoso sorriso. “Anche tu.” Gli dissi, lasciando sfuggire un secondo sorriso. “Come stai?” gli chiesi, mostrando il mio lato gentile e cortese. “Sto bene, e devo parlarti.” Rispose, suscitando la mia curiosità. Mantenendo il silenzio, annuii per invitarlo a continuare il suo discorso, e lo vidi mordersi un labbro in preda al nervosismo e all’indecisione. “Da quando sei andata via da scuola, non ho fatto altro che pensarti, e ho capito una cosa.” Disse, tacendo a causa del fiume di emozioni che ora lo travolgeva. “Che cosa?” chiesi, sperando che perdonasse la mia ignoranza. “In tutto questo tempo mi sei mancata, ed io ho capito di amarti.” Rispose, togliendomi letteralmente il respiro per la contentezza. In quel momento, ero così felice da non riuscire a parlare. Le parole continuavano a bloccarmisi in gola, e sentivo di avere la lingua impastata. Tentai quindi di respirare e calmarmi, ma ciò che successe dopo mi impedì di farlo. Nello spazio di un momento, le nostre labbra si unirono, ed io provai la miglior sensazione della mia vita. Il nostro primo bacio sembrava essere infinito, ed io non potevo chiedere di meglio, sentendo le mani di Jack sfiorare candidamente le mie, che ora tremavano come non mai. Dopo aver guardato Jack negli occhi per un tempo che le mie emozioni mi impedirono di definire, mi rialzai da quella panchina, con la ferma intenzione di tornare a casa. “Non andartene.” Mi pregò, prendendomi per mano. Quasi colpita da quella richiesta, mi sedetti nuovamente, passando quindi il resto del mio tempo con lui. Ammiravamo in silenzio la flora che ci circondava, ed io vidi Jack aver cura di nutrire un affamato piccione con delle briciole di pane. In breve tempo, il cielo si scurì, e la sera calò inesorabile. In quel momento, mi rimisi in piedi, lasciando che Jack mi riaccompagnasse a casa. Data la situazione, lo scorrere del tempo non mi toccava, e sapevo che ogni passo mi avrebbe avvicinato a casa. Quando finalmente arrivai, lo salutai amichevolmente. “Ti va di rivederci?” chiesi, spinta dalla curiosità. “Certo!” rispose, accettando di buon grado. “A proposito, abito qui accanto.” Aggiunse, sorridendo e avviandosi verso casa sua. In quel preciso istante, entrai in casa e mi richiusi la porta alle spalle. Mi diressi subito verso la mia stanza. Durante il tragitto, incontrai mia madre. “Come mai così felice?” “Mi sono divertita.” Mentii, con ancora un luminoso sorriso sul volto. Ad ogni modo, raggiunsi la mia stanza, e presi subito il cellulare, componendo il numero di Sarah. “Come va?” mi chiese, non appena ricevette la mia chiamata.” “Avevi ragione.” Le dissi. “Ci siamo incontrati e mi ha baciata. “Continuai, non riuscendo a nascondere la mia euforia.” “È ufficiale?” mi chiese, con una vena di curiosità nella voce.” “Sì.” Risposi, ormai fuori di me dalla gioia. “Sono felice per te.” Mi disse, salutandomi e decretando la fine di quella telefonata. Subito dopo, lasciai andare il cellulare, posandolo sul letto. Infilai quindi il pigiama, addormentandomi guardando quella bellissima foto.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo X


I passi dell’amore


Come grasso e untuoso olio da cucina, due intere settimane sono scivolate via dalla mia vita. Il ricordo del mio primo bacio è ancora saldamente impresso nella mia mente, e oggi sono consapevole di poter assistere all’inizio di un nuovo giorno. È l’alba, ed io non riesco a dormire. Ora come ora, osservo il panorama visibile appena fuori dalla mia finestra. Un nuovo e piccolo fiore sta nascendo nel mio giardino, ed io non oso emettere neppure un fiato, non volendo disturbare o sconvolgere il delicato equilibrio della natura. L’orologio del mio cellulare segna le sei del mattino. Continuando a guardare fuori dalla finestra, mi accorgo che il sole sta spuntando. Anche in questo frangente, mantengo il silenzio, ammirando quello spettacolo con muta e inspiegabile gioia. Nell’attesa, inganno il tempo curiosando in un piccolo baule che tengo nella mia stanza. Aprendolo con un gesto della mano, vi ritrovo oggetti che credevo di aver perso per sempre. Ci sono tutte le foto di quando ero bambina, e anche alcuni dei miei vecchi giocattoli. Spostare il mio sguardo su quegli oggetti mi fa sempre scendere una piccola ma affatto amara lacrima. Guardandomi indietro, e concedendomi del tempo per riflettere, comprendo di aver vissuto un’infanzia a dir poco meravigliosa. Dalla fine della stessa in poi, è subentrata l’adolescenza, periodo per me alquanto tumultuoso dati i miei trascorsi.  Ad ogni modo, tre lunghe ore passano senza che io abbia modo di rendermene conto, e per me arriva l’ora di fare colazione. Non avendo molta fame, decido di bere del fresco latte accompagnato da dei friabili biscotti al cioccolato. Il tempo continua a scorrere ed io scelgo di liberarmi del pigiama indossando dei comodi vestiti estivi. Una sobria ma colorata maglietta abbinata a dei bianchi e immacolati pantaloni, sono oggi parte del mio look. È ora mattina, e siedo al tavolo della cucina con accanto mia madre ancora impegnata a far colazione. Un movimento inconsueto del polso fa cadere il suo bicchiere, che si rovescia spargendone il contenuto sulla tovaglia. Rimproverandosi per la sua sbadataggine, afferra subito uno straccio e inizia subito a darsi da fare per ripulire quel disastro. Mi offro generosamente di aiutarla, ma lei declina educatamente la mia offerta, affermando di poterlo fare da sola. Allontanandomi da lei, mi accorgo che il mio cellulare ha iniziato a vibrare, ragion per cui lo controllo prendendolo in mano. Spostando quindi il mio sguardo sullo schermo, noto di aver appena perso una chiamata da parte di Jack. Lasciando la cucina, torno nella mia stanza, e sedendomi sul letto, decido di telefonargli. Non appena risponde, ne approfitto per salutarlo. Continuo a discorrere con lui per qualche minuto, venendo colpita da una delle frasi che pronuncia. “Guarda fuori.” Mi dice, suonando serio e al contempo scherzoso. Senza proferire parola, faccio ciò che mi è stato chiesto, scorgendo il suo viso appena fuori dalla mia finestra. “Che cosa ci fai qui?” gli chiedo, sorpresa. “Sono venuto a trovarti.” Risponde, regalandomi un ampio e luminoso sorriso. “Sono subito da te.” Dico, uscendo dalla mia stanza e varcando la porta di casa. Raggiungo quindi il giardino, trovando Jack proprio davanti a me. Non appena mi vede, mi abbraccia, procedendo a posare le sue labbra sulle mie. Accetto quel bacio senza oppormi, e lascio che mi prenda per mano. Passeggio con lui per il mio giardino, godendomi il profumo dei fiori appena sbocciati. Poco tempo dopo, Jack mi bacia nuovamente. “Ti amo.” Mi dice, stringendomi la mano. A quelle parole, non rispondo, limitandomi a sorridere. “Cosa ti va di fare? gli chiedo, venendo improvvisamente colta dalla noia. “Vieni con me.” Risponde, iniziando a correre. “Dove stai andando?” chiedo, faticando a tenere il suo passo. “Lo scoprirai presto.” Disse, rifiutando di fermarsi. A quelle parole, trasalii. Avevo già sentito quella frase, e sapevo che non avrebbe significato nulla di buono. Ad ogni modo, decisi di fidarmi, e continuai a seguirlo. Poco tempo dopo, raggiungemmo casa sua, ed io mi interrogai sulle sue intenzioni. Mantenendo il silenzio, aprì la porta, ed io mi accorsi che in casa sembrava esserci un silenzio tombale. “Che succede?” chiesi, aspettando una risposta. “I miei genitori sono gente silenziosa.” Disse, riuscendo a strapparmi un sorriso. Subito dopo, Jack ricominciò a camminare, ed io lo seguii fino al salotto di casa. Guardandomi attorno vidi i suoi genitori, e mi presentai educatamente. Strinsi la mano ad entrambi, ma ad essere sincera, la persona più colpita dalla mia educazione e dal mio modo di parlare, sembra essere stato suo padre. Stando a quanto Jack mi ha raccontato, secondo i suoi genitori lui è sempre stato sfortunato in amore a causa del suo carattere alle volte insopportabile. Per tale ragione, entrambi sono rallegrati dalla felicità del figlio, ed ammettono di essere grati di avermi conosciuta. Ora come ora, il tempo sta lentamente scorrendo, ed io continuo il mio cammino, e sono ora fiera di camminare a testa alta, contando gli infiniti passi dell’amore.
 
 
 
 
 
 


 
Capitolo XI


Mute bugie


Un nuovo giorno sta lentamente avendo inizio, ed io so per certo che non sarà ordinario. Difatti, oggi è il giorno del mio diciassettesimo compleanno. La prima persona a farmi gli auguri è stata Jack, che ha avuto un’idea a mio dire davvero originale. Ieri ha infatti atteso l’arrivo della mezzanotte, per poi accendere il cellulare e inviarmi un messaggio. Personalmente, ho trovato il suo gesto davvero gentile, e per tale ragione, non smetterò mai di ringraziarlo. Difatti, la sua presenza nella mia vita mi rende felice, e spero che la catena di emozioni che mi lega a lui non si spezzi mai. Ad ogni modo, non ho sue notizie sin da quando ho ricevuto il suo messaggio. Tentando di mantenere la calma, ho atteso che mi richiamasse, seppur senza risultati concreti. Il tempo passava, e la mia ansia cresceva, ragion per cui, decisi di fargli visita andando a casa sua. Ero davvero preoccupata, e i suoi genitori notarono la mia ansia non appena mi videro. “Dov’è Jack?” chiesi, in evidente stato di preoccupazione. “È di sopra.” Disse suo padre, scostandosi per lasciarmi entrare. Ringraziandolo, feci qualche passo in avanti, e iniziai a ragionare. La sua camera era alla fine di un ampio corridoio, ragion per cui, non poteva certo essere lì dentro. Confusa, mi guardavo attorno, e dopo poco tempo, un lampo di genio mi illuminò la mente. Nella grande e confortevole casa di Jack c’era soltanto una scala, e la stessa conduceva alla soffitta. Per tale e semplice motivo, decisi di salirla e raggiungere Jack. Lo trovai seduto e immobile in un angolo di quella buia e angusta stanza. Mi avvicinai, e utilizzando una torcia elettrica che raccolsi da terra, illuminai il mio cammino. Fatti pochi passi, vidi finalmente il suo volto, ora stranamente inespressivo. I suoi occhi sembravano letteralmente persi nel vuoto, e ogni mio tentativo di ottenere la sua attenzione falliva miseramente. Poco tempo dopo, puntai la torcia verso il suo viso, scoprendo qualcosa di raccapricciante. Accanto a Jack c’era una bustina di plastica identica a quella che avevo visto anni prima, e nel suo braccio, che portava ancora le cicatrici dovute ad una sua vecchia ferita, era conficcata un vitrea siringa. Sconvolta, lo chiamai per nome più volte, e dopo alcuni tentativi lo vidi voltarsi. “Cosa vuoi?” mi chiese, con voce flebile. “Che stai facendo?” gli chiesi, spaventata e inorridita.” “Niente.” Rispose, con le poche forze che gli rimanevano. Ignorando la sua risposta, passai subito all’azione. “Ti aiuto io.” Gli dissi, sperando che riuscisse a sentirmi. Subito dopo, gli tolsi la siringa dal braccio e la lanciai lontano. Con gli occhi ormai velati di lacrime, continuavo a toccarlo e a parlargli per evitare che perdesse i sensi. Mi tolsi quindi la giacca e la posai sul pavimento, aiutandolo a sdraiarcisi. Avevo fatto quello che potevo, ma guardandolo mi accorsi che ero arrivata tardi. Era ormai privo di conoscenza, ed io compresi di non poter più aiutarlo in alcun modo. Avvilita, mi rialzai da terra, preparandomi a scendere le scale e lasciarmi l’ormai inerme Jack alle spalle. Poco prima che potessi muovermi, sentii una sottilissima voce chiamare il mio nome. Quasi istintivamente, mi voltai di nuovo, scoprendo che Jack era tornato ad essere sé stesso. In quel momento, stavo letteralmente per svenire di paura, ma ignorando tale sensazione, corsi subito ad abbracciarlo. “Che ti è venuto in mente?” gli chiesi, in tono di rimprovero. “Non ne ho idea.” Rispose, facendo inconsapevolmente aumentare la mia rabbia. “Non provarci mai più.” Lo ammonii, stringendolo a me. “Te lo prometto.” Mi disse, rialzandosi in piedi e schiacciando la siringa che era in realtà a pochi metri da lui. Subito dopo, mi prese per mano, e scendemmo assieme le scale. Non appena ci ritrovammo al piano inferiore, Jack mi accompagnò alla porta, salutandomi amichevolmente. Poco dopo, sentii la porta chiudersi alle mie spalle, e provai una sensazione di felicità. Era il mio compleanno, e non avevo ricevuto regali, ma avendo rischiato di perdere il mio ragazzo, aver compiuto quell’atto di eroismo è servito a riempire la mia giornata. Durante il tragitto verso casa, mi interrogai sul mio rapporto con Jack. Era a mio dire idilliaco, poiché avevo appena deciso di perdonarlo per avermi nascosto una muta bugia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XII
L’amore d’estate


Quello odierno, è il mero primordio di una mattina d’estate, il cui sole spunta e sembra germogliare come una tenera e fragile piantina. Ora come ora, sono sdraiata sul mio letto, ancora sfinita dalla moltitudine di attività a cui ho preso parte ieri. Ad ogni modo, ho deciso di dare un taglio alla mia pigrizia e alzarmi dal letto. Dopo aver fatto colazione, ho deciso di vestirmi. Il mio sottile collo è oggi impreziosito da una sobria ma elegante collana, che ondeggia come i miei lunghi capelli ad ogni mio movimento. Il sole è già alto, ed io sono ora piena di energie. Non vedo l’ora di uscire di casa e divertirmi, pur non avendo alcuna idea sull’immediato da farsi. Dopo aver riflettuto, ho deciso di recarmi verso casa di Jack, pur scegliendo di camminare anziché arrivarci in bici. Ad ogni modo, quando arrivai, lui mi salutò amichevolmente, e mi invitò ad entrare. Subito dopo, mi mostrò la sua stanza. Su una delle pareti era appeso un poster raffigurante uno dei suoi cantanti preferiti. Ora come ora, Jack siede sul suo letto, e mantiene un perfetto silenzio. Non riuscendo più a sopportarlo, decido di spezzarlo come un ramoscello. “Hai dei piani per oggi?” gli chiedo, spinta dalla curiosità. “Mi hanno invitato ad una festa.” Risponde, regalandomi un sorriso. “Quale festa?” azzardo, confusa e stranita.” L’ha organizzata il mio amico Ryder.” Mi disse, in completa e totale sincerità. “Ti va di venire?” chiese, dubbioso. “Non posso.” Risposi, con un tono che lasciava trasparire tutta la mia tristezza. “Perché non puoi?” continuò, sperando di non risultare invadente. “Era con me quando sono stata rinchiusa in quel posto, e dei suoi amici mi hanno fatto del  male.” Confessai, abbassando lo sguardo. “Non ti accadrà nulla.” Mi rassicurò, cingendomi un braccio intorno alle spalle. “Dico sul serio.” Continuai, guardandolo negli occhi. Data la mia reazione, Jack finì per sbiancare e scivolare nel mutismo. Spezzai nuovamente il silenzio avvicinandomi e lasciando che mi abbracciasse. “Vuoi restare con me?” chiese, apparendo stranamente timido. “Che vuoi dire?” domandai, sperando che si spiegasse meglio. “Stanotte.” Chiarì, attendendo una mia risposta. “No. Deve accadere con qualcuno di cui mi fido.” Dissi, tacendo subito dopo. “Mi fido di te, ma ho paura.” “Di cosa? Chiese, avvicinandosi a me. “Ho paura di essere il tuo giocattolo.” Continuai, asciugandomi lentamente una lacrima. “Come puoi pensarlo? Non sei il mio giocattolo, io ti amo!” replicò, facendomi inconsciamente iniziare a tremare. “Davvero? Chiedo, ora leggermente intimorita. “Davvero.” Risponde con convinzione. “Allora sì.” Dico, lasciando che posi le sue labbra sulle mie come non aveva mai fatto prima. Il tempo sta ora scorrendo in fretta. La sera è ormai calata, e vorrei davvero che questa notte non finisse mai. Nello spazio di un momento mi trovo sdraiata sul letto di Jack. Lo bacio, lo stringo a me, lascio che agisca. Non oso lamentarmi e sorrido al suo tocco. So benissimo che questa è la mia notte. Un nuovo sentimento sta sbocciando in me come un delicato fiore in primavera, e non potrei essere più felice. Jack è al mio fianco ed io ho una certezza. So bene che questa è la nostra notte, e che quello che stiamo ora vivendo, sfruttando ogni singolo attimo, e il nostro amore. Un amore meraviglioso, reale, dolce, e incredibile. I nostri attimi si consumano in poche ore, e la nostra felicità è ora incontenibile. Ora come ora, ci siamo donati l’uno all’altra, e sappiamo che nulla potrà mai dividerci. Questa nostra credenza è legata ad un nostro pensiero. Il nostro amore è diverso dagli altri, poiché nato sotto le stelle e gli astri di una calda e indimenticabile estate.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Capitolo XIII


Crescere


Ogni singolo giorno che viviamo, può essere preso come una sorta di sfida, o come una lotta per la sopravvivenza. Ogni giorno si adottano diverse strategie, ammirando quindi i propri dorati successi o piangendo le proprie amare sconfitte. Ad ogni modo, indipendentemente dal percorso scelto, il cammino di ogni persona ha una sorta di strada comune letteralmente inevitabile, da percorrere forzatamente. La via della crescita. La giornata odierna nasce dopo l’arrivo della silenziosa e dolce aurora, decretando il lento prosieguo della mia vita. I miei giorni passano, e la mia vita sembra esaurirsi di ora in ora, venendo succhiata via dalle vene per opera delle inarrestabili lancette di un orologio. La mia malinconia ha una ragione e una spiegazione precise. Sto di nuovo male. Questa mattina dormivo beatamente, e svegliandomi ho scoperto che Jack se n’era andato, lasciandomi da sola. Sono ancora a casa sua, e i suoi genitori non mi hanno ancora vista. Prendendomi quindi la libertà di fare una veloce doccia, mi rivesto, mettendomi quindi alla ricerca di Jack. Ora come ora, non sembra essere in casa, e anche la soffitta è vuota. Piombando quindi in uno stato di forte preoccupazione, decido di uscire di casa e passeggiare sperando di incontrarlo. La mia unica meta è il parco cittadino, dove passeggio lentamente e senza proferire parola. Una leggera brezza estiva mi scosta i capelli, ed io non batto ciglio. Continuo a camminare senza fermarmi, pur perdendo la speranza dopo poco tempo. Decido quindi di tornare a casa sua, credendo di trovarlo lì. Quando vi arrivo, scopro di avere ragione, poiché lo trovo seduto sul letto nella sua stanza. Ha gli auricolari piantati nelle orecchie, e ascolta la sua musica preferita. Facendo particolare attenzione a non fargli del male glieli tolgo. “Ti stavo cercando.” Esordisco, guardandolo negli occhi. “Perché mai?” chiede, dubbioso e stranito dalle mie parole. “Dobbiamo parlare.” Continuo, tacendo subito dopo. Mantenendo il silenzio, Jack mi invita a farlo con un singolo cenno del capo. “Sono tutto orecchie.” Dice, sorridendo. “Non è il momento di scherzare.” Gli dico, tentando di farlo tornare serio. “Fra noi due va tutto bene, rilassati.” Mi risponde, sorridendo per la seconda volta. Ora come ora, per qualche strana ragione, il suo comportamento mi innervosisce. Ultimamente i miei sbalzi d’umore hanno fatto ritorno, e sono molto più frequenti e repentini rispetto a prima. Ad ogni modo, la rabbia che cerco di contenere, e l’aver letteralmente rimesso l’anima nel bagno di casa sono fattori che non giocano decisamente a mio favore. Nonostante tutto, Jack continua a mostrare quel luminoso sorriso, che ora mi da ai nervi. Mi chiedo infatti come non riesca ad essere serio in un momento del genere. “Valerie, si può sapere cos’hai?” chiede, dubbioso. “Ti prego, calmati.” Continua, guardandomi negli occhi. “Non ho niente che non vada, ma io e te dobbiamo parlare!” urlo, alterandomi di colpo. “Sono qui e ti ascolto.” Risponde, mantenendo la calma e cingendomi un braccio attorno alle spalle. “Va tutto bene.” Ripete, accarezzandomi lentamente la schiena. So bene dove vuole arrivare ma per me ora non è il momento. “Va tutto bene.” Continua a dirmi, non accennando a smettere di accarezzarmi. Sto tentando disperatamente di respirare a fondo e mantenere la calma ma ad un tratto qualcosa in me scatta, ed è come se un vulcano posto all’interno del mio cuore stia per eruttare. Perdendo quindi i lumi della ragione, mi rimetto in piedi, sottraendomi di scatto alle sue premure. “Non c’è niente che vada bene! Sono incinta!” finisco per urlare nuovamente, sapendo di aver ormai perso ogni capacità di controllarmi. “Valerie, sta ferma!” replica aspramente Jack, stringendomi il polso e costringendomi a sedere sul letto. “Sono qui per te, ce la faremo.” Dice, stringendomi in un forte abbraccio. “Non sarai da sola.” Aggiunge, spostando il suo attento sguardo sul mio viso. “Lo credi davvero?” mi domando, provando una leggera vergogna. “Ne sono certo.” Risponde, prendendomi per mano. Alle sue parole, segue un secondo abbraccio, durante il quale, biascico un'unica parola, che, a causa del mio tono di voce, lui non può sentire: grazie. In quel momento, ho la sola forza di ringraziarlo per gli sforzi che compie a causa mia. Sorrido debolmente prima di addormentarmi, poichè la rabbia e le forti emozioni provate mi hanno letteralmente sfinita. Ad essere sincera, mi sento una sciocca. Ero arrivata a credere che Jack non fosse affatto pronto per un'esperienza del genere, eppure avevo appena scoperto che lo era. Accortosi del mio sonno, mi aiuta a sdraiarmi, posandomi sul fianco una morbida e leggera coperta. Non riuscivo a crederci, ma per entrambi era arrivato il momento di crescere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
Capitolo XIV


Il peso della realtà


Aprendo lentamente gli occhi, mi risveglio dal sonno in cui sono caduta. Una strana sensazione di calore mi pervade, e non riesco a spiegarmene il motivo. Alzandomi dal letto e uscendo dalla stanza di Jack, decido di raggiungere la cucina, trovandolo intento a guardare la televisione. Sedendomi quindi accanto a lui, mantengo il silenzio, notando che si alza poco tempo dopo, facendo qualche passo verso il calendario appeso al muro. “Che stai facendo?” gli chiedo, incuriosita e al contempo stranita da quel suo comportamento. “Niente.” Disse, allontanandosi e rimettendosi a sedere. “Stai bene?” chiese, mostrando un’aria preoccupata. Mantenendo il silenzio, mi limito ad annuire, regalandogli quindi un luminoso sorriso. Il tempo scorreva, e mentre parlavamo, provai una forte sensazione di nausea. Scusandomi quindi con lui, corsi trafelata in bagno, rimettendo perfino l’anima. Quando tornai in cucina, Jack appariva ancora più preoccupato di quanto già non fosse, tanto da assumere un colorito quasi innaturale. Ritornando ad essere sé stesso quasi di colpo, Jack mi prese letteralmente in braccio, facendo in modo che io potessi sedermi sulle sue ginocchia. Lasciandomi quindi sfuggire una risatina, non mi opposi a tale comportamento, vedendo che un bacio diverso da ogni altro mi toglie letteralmente il fiato. In quel momento, il ricordo del nostro primo bacio sulla panchina di quel parco riaffiora nella mia mente. Subito dopo, guidata dai miei sentimenti per lui, inizio a prendere parte a quei baci, ricambiandoli come so di non aver mai fatto prima d’ora. Il tempo sembra fermo, ed io non oso protestare. Alla fine di quel reciproco scambio di effusioni, mi sento benissimo. Ogni sorta di dolore provato in precedenza è repentinamente svanito. Ora come ora, so che Jack è davvero la persona giusta per me. Lui mi ama davvero, e in più di un’occasione mi ha dimostrato di non volermi perdere. Difatti, sin da quando a scoperto che sono incinta, ha tentato di rassicurarmi, dicendomi che sarebbe rimasto al mio fianco, e che non avrebbe in alcun caso osato abbandonarmi. Come spesso ripete, io non sono il suo giocattolo, ma una bellissima ragazza di cui si è lentamente innamorato. Le lancette dell’orologio appeso al muro continuano a muoversi, formando cerchi perfetti attorno al quadrante. La sera cala poco tempo dopo, ed entrambi andiamo a letto, addormentandoci l’uno avvinghiato al petto dell’altra. Poco prima che il sonno mi tenda una trappola, ne approfitto per pensare, lasciandomi sfuggire un sorriso. Ad ogni modo, mi assicuro di non far rumore, volendo assolutamente fare in modo di non svegliare Jack, che ora dorme profondamente, e sembra non volermi lasciar andare. Non tentando in alcun modo di sottrarmi a quella stretta, respiro profondamente. Conosco davvero bene il mio futuro, e so che cosa sta per accadere. Lentamente, una nuova vita sta avendo inizio dentro di me, e ogni volta che Jack mi tocca, mi bacia o mi abbraccia, è come se il suo tocco raggiungesse anche il bambino dentro di me. È davvero una sensazione indescrivibile, a dir poco bellissima. Spostando lo sguardo sul display del mio cellulare, mi accorgo che è da poco passata la mezzanotte. La stessa, non è altro che il primordio di un nuovo giorno, che al mio risveglio sarà sicuramente pieno di novità. Data l’attuale situazione, so che la mia vita cambierà radicalmente, e che non tenterò in alcun modo di arrestare o impedire tale cambiamento. Difatti, Jack ed io siamo d’accordo, e sappiamo che quello che stiamo ora pazientemente sopportando senza un singolo lamento, non è altro che il peso delle nostre nuove e future responsabilità.
 
 
 
 
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Capitolo XIV


Impazienza


Il lento scorrere dei mesi sta letteralmente caratterizzando la mia vita, ormai davvero monotona e stabile. Ad ogni modo, ben cinque mesi hanno appena raggiunto il loro culmine, e la mia vita è lentamente cambiata. Difatti, la mia condizione non ha fatto altro che progredire positivamente. Ora come ora, sono incinta di cinque mesi, e fra qualche settimana, entrerò nel secondo trimestre di gravidanza. Ad ogni modo, ho scelto di non recarmi da un dottore, facendolo esclusivamente per le ecografie mensili. Difatti, so bene che il mio ottimo stile di vita, caratterizzato da una dieta sana e da molto esercizio fisico, gioverà sicuramente alla salute del bambino che porto in grembo, agendo forse perfino meglio di ogni possibile cura prenatale. Secondo il pensiero dei miei genitori, che hanno fortunatamente accettato la mia condizione malgrado una sorta di iniziale rifiuto, dovrei davvero ascoltare il parere di un medico. Riflettendo, ho scelto di ascoltare il loro consiglio, pur preferendo aspettare prima di metterlo in pratica. Ad ogni modo, la mia famiglia non è ormai più la stessa sin dal giorno in cui sono stata rinchiusa nell’ Istituto. Difatti, la persona che ha risultato essere più provata dalle mie sofferenze, era mio padre. Pur provando istintivamente pena per me, ha scelto di tentare di non mostrare il suo dolore, annegandolo letteralmente in fiumi di alcol. Per tale ragione, ho recentemente iniziato a vederlo stare sempre peggio. È ora costantemente abbruttito dall’alcol che entra nel suo corpo, e sembra sempre meno capace di riuscire a ragionare. Difatti, durante una nostra consueto telefonata pomeridiana, mia madre si è confidata con me, scegliendo di confidarmi un segreto mai rivelato ad anima viva. Ha raccolto il suo coraggio, e con molta calma, ha deciso di rivelarmi la vera identità di nostro padre. Quando ero ancora molto piccola, aveva già avuto un problema d’alcolismo, che era fortunatamente riuscito a risolvere grazie all’amore di mia madre, risultante nella mia nascita. Sono figlia unica, e per tale ragione, mio padre aveva sempre cercato di dimostrarmi tutto il suo affetto. Ad ogni modo, il tragico evento che ha segnato parte della mia adolescenza, sembra aver colpito anche lui. Il dolore lo ha letteralmente sopraffatto, e per tale ragione, ha tentato di trovare un rifugio nell’alcol, che a suo dire, lo aiutava ad estraniarsi dalla realtà che vive. Mia madre è davvero preoccupata sia per me che per mio padre, e cerca sempre di aggiornarmi sulle sue condizioni. Ora come ora, continua a ripetere che mio padre mostra spesso uno stato letargico, che è talmente debole e frastornato da faticare a muoversi, e che ha ormai perso ogni capacità di ragionare. In questo frangente, ho chiesto a mia madre informazioni sul mio passato. Mutando incredibilmente il suo tono di voce, ha scelto di rassicurarmi, dicendomi che i miei problemi legati alle emozioni e ai miei frequenti sbalzi d’umore non dipendono in alcun modo dal passato di mio padre. A questa notizia, non ho potuto fare a meno di sorridere e mostrare la mia contentezza, poiché so bene che mio padre non tenterebbe mai di farmi del male. Inoltre, in questo preciso istante vengo pervasa e investita da una sensazione di impazienza riguardo alla mia attuale condizione. Parlandone con Jack, ho scoperto che anche lui prova le mie stesse sensazioni. Difatti, entrambi non vediamo l’ora di assistere alla nascita del nostro bambino. Sappiamo bene che presto vedremo il miracolo della vita prendere forma davanti ai nostri occhi, e attendiamo questo momento con ansia ed impazienza.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XV


Attesa


Due interi mesi sono appena trascorsi, e in questo preciso istante potrei letteralmente snocciolare mille motivi per amare la mia vita ed esserne felice. Difatti, all’incirca sette mesi fa ho scoperto di aspettare un figlio dal mio fidanzato. Ora come ora, la felicità ci pervade, poiché sapere di essere incinta è dal canto mio una delle migliori notizie che si possano ricevere. Per quanto riguarda il suo punto di vista, Jack è davvero entusiasta all’idea di diventare padre. Qualche tempo fa, durante l’ultima delle mie ecografie prenatali, abbiamo scoperto di aspettare una bambina, che fortunatamente il ritratto della salute. Data la nostra gioia a riguardo, abbiamo finito per iniziare a contare i giorni che ci separano dalla nascita di nostra figlia. Ora come ora, passiamo il tempo l’uno al fianco dell’altra, e la nostra felicità alimenta il nostro incondizionato amore. In alcuni casi, l’attesa è davvero snervante, ma per nostra fortuna abbiamo imparato a dominare la nostra ansia. Noi due ci amiamo, e sappiamo bene di essere in procinto di diventare genitori, mansione a cui abbiamo diligentemente promesso di dedicarci assiduamente fino alla fine dei nostri giorni. Ora come ora, i nostri orologi biologici stanno incessantemente ticchettando, e questo si traduce in qualcosa di estremamente positivo. Attualmente, la bambina che aspettiamo si trova dentro di me, proprio sotto il mio cuore, e può essere considerata una sorta di miracolo. Difatti, pur essendo rimasta incinta alla giovane età di soli diciassette anni, non rimpiango in alcun modo tale avvenimento. Lo stesso, è il risultato dell’amore mio e di Jack, concretizzatosi in tale conseguenza. Il tempo continua a scorrere, come le fredde gocce di pioggia all’interno di una ferrea grondaia, e ogni giorno che passa, ci avvicina seppur lentamente alla nascita della nostra prima figlia. Ora come ora, taccio mantenendo un religioso silenzio mentre resto ferma e sdraiata sul mio letto. Volgendo il mio sguardo sul panorama visibile fuori dalla mia finestra, odo il canto di un giocoso uccellino che vola nel lontano ed infinito cielo. Improvvisamente, sento una sorta di scatto, e voltandomi realizzo che tale rumore è stato prodotto dalla porta della stanza ora aperta.  Jack ha deciso di raggiungermi, procedendo a sdraiarsi accanto a me. “Presto sarà qui.” Dice, sorridendo e accarezzando il mio ventre ormai gonfio. “Aspetterò.” Rispondo, sorridendo a mia volta e lasciando che posi le sue labbra sulle mie. Ci abbandoniamo quindi ad una sorta di rituale composto da mute e sincere effusioni, osserviamo l’uno il brillare degli occhi dell’altra. Negli stessi, è ora presente un luccichio che non avevo mai avuto la fortuna di notare. Data la mia condizione, ogni premura che Jack mi rivolge ha un effetto positivo sul mio corpo e sulla mia mente, che si rilassano mentre sorrido al suo leggero tocco. Sono ora immersa in una miriade di pensieri, e ho per un attimo staccato gli occhi da Jack, che contrariamente a me, non sembra voler evitare di guardarmi. “Stai bene?” chiede, con una sottile ma percepibile vena di preoccupazione nella voce. “Stavo pensando.” Rispondo, non potendo evitare di mascherare le mie reali e ora contrastanti emozioni. In quel preciso istante, Jack mi guarda, e mantenendo il silenzio, sembra chiedersi se qualcosa in me non vada. Non avrei certamente voluto dirglielo, ma in quei silenziosi istanti il mio pensiero era fisso sulla mia futura bambina, che sarebbe nata in un mondo meraviglioso, ma al contempo costellato di sfide e difficoltà. Sospirando, spero che le mie preoccupazioni tacciano, non desiderando nient’altro che la fine di questa snervante attesa.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVI


Un roseo benvenuto


Un’altra notte è passata, e l’aria è stata piacevolmente riempita dal silenzio notturno, spezzato solo dai suoni e dalle luci di una ridente e amena città come la mia. Per mia mera sfortuna, non sono riuscita a chiudere occhio, poiché disturbata da un insolito dolore allo stomaco, probabilmente causato dallo scalciare della mia bambina. Il sole è spuntato come un fiore, ed è mattina. Quella sorta di dolore è divenuto leggermente più sopportabile, ma le ore che compongono questa giornata sembrano letteralmente essere infinite. Volendo evitare di svegliare Jack, che è rimasto sveglio fino a tardi con la ferma e precisa intenzione di controllare il mio stato di salute, scivolo silenziosamente fuori dal letto, dirigendomi quindi verso la cucina. L’orologio appeso al muro segna le otto del mattino, ed io decido di bere come ogni mattina un bicchiere di latte fresco, accompagnato da dei nutrienti cereali e occasionalmente da una buona lettura. Subito dopo aver mangiato, inizio a dedicarmi alle mie solite e ormai monotone incombenze domestiche, facendo comunque attenzione a non affaticarmi troppo data la mia condizione. Una lunga ora volge al termine, e anche Jack decide di alzarsi dal letto. “Buongiorno.” Dice, sbadigliando e avvicinandosi lentamente a me. “Buongiorno a te.” Rispondo, regalandogli un ampio e luminoso sorriso. “Non hai dormito?” chiedo, notando la presenza di due nere borse sotto i suoi occhi, ora spenti a causa della stanchezza. “Per niente.” Dice, con un tono che rievoca una sorta di malinconia a lungo repressa e stagnante all’interno del suo giovane animo. “Possiamo parlare?” chiede, quasi spaventato e in preda alla vergogna. A quelle parole, non rispondo, limitandomi ad annuire. Mentre aspettavo che ricominciasse a parlare, vidi nei suoi occhi un velo di tristezza, e per tale ragione temetti il peggio. Difatti, il suo attuale stato d’animo non poteva certamente essere portatore di buone notizie. Rimanendo in silenzio, continuavo ad attendere, notando che per qualche strana ed inspiegabile ragione, le parole che aveva intenzione di pronunciare, gli si bloccavano in gola, affannando il suo respiro e impedendogli di esprimersi, facendolo conseguentemente scivolare nel più completo mutismo. “È davvero importante.” Esordì, guardandomi negli occhi. “Ti ho amato sin dal primo giorno, e noi due stiamo per avere una famiglia.” Disse, coronando quell’affermazione con un meraviglioso bacio al quale non tentai di sottrarmi. “Ti amo.” Mi disse, sorridendo e stringendomi in un fortissimo abbraccio. In quel preciso istante, fui sopraffatta da un forte dolore allo stomaco. Sapevo di essere incinta, e per tale motivo temetti l’arrivo di una contrazione. Ad ogni modo, ero in dolce attesa da soli sette mesi, ragion per cui, ritenni che fosse decisamente troppo presto per l’arrivo delle doglie. “Jack, non mi sento bene.” Dissi, iniziando a soffrire e piangere per il dolore. “Dobbiamo andare in ospedale. “Continuai, sentendo i miei occhi velarsi di lacrime e sentendo che il dolore non accennava a diminuire. In quel preciso istante, Jack aprì la porta di casa, e cingendomi un braccio intorno alle spalle, mi guidò fino alla sua auto. Vi salimmo entrambi senza parlare, mentre il mio dolore appariva costante. Ad ogni modo, raggiungemmo il più vicino ospedale nel giro di poco tempo. Vi entrammo informando subito i medici della mia condizione, e gli stessi decisero di visitarmi. Venni quindi trasportata in sala parto, dove rimasi per delle intere ore. Secondo il parere dei medici, una sola persona poteva seguirmi all’interno di quella sala. Date le circostanze, Jack si offrì di rimanere al mio fianco, ed io battei ciglio a riguardo. Ad ogni modo, dopo tre lunghe ore, il mio travaglio ebbe fine, ed io diedi alla luce la mia amata bambina, la piccola Michelle. Appena nata era così piccola e indifesa che avevo letteralmente paura  di toccarla. Dopo averla tenuta in braccio per alcuni minuti, lasciai che Jack la prendesse in braccio, vedendo la bambina mostrare un debole sorriso. Il suo paffuto e tondo visetto era arrossato per via del pianto, e i suoi occhi erano gonfi per la stessa ragione. In fin dei conti, quella fu per me una giornata bellissima. Avevo appena messo al mondo mia figlia, provando l’infinita gioia di diventare madre, ma c’era una notizia ancora migliore. Difatti, pur essendo nata dopo soli sette mesi, Michelle non mostrava alcun segno di malessere. Sorridendo, abbracciai Jack scegliendo di baciarlo, e desiderai che quel giorno fosse infinito. In quel preciso istante, sentivo che la mia vita era decisamente completa. Sapevo di possedere l’amore corrisposto di Jack, ed entrambi avevamo appena avuto una bambina, parte della nostra magnifica famiglia. La nostra piccola Michelle è oggi venuta al mondo, e quello che le abbiamo riservato, è stato un alquanto roseo benvenuto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVII


Una nuova famiglia


Ogni singolo istante della mia vita ha contribuito allo scorrere del tempo, che ha a sua volta decretato la fine di un intero anno. Durante lo stesso, costellato di gioia e letizia, ha tenuto alto il mio morale e il mio tenore di vita. Ora come ora, sono impegnata a girare le pagine di un vecchio album di fotografie un tempo appartenuto a mia madre. La stessa, ha avuto la fortuna di conoscere la sua nuova nipotina, decidendo di aiutarmi in ogni modo possibile. Tenendo il mio sguardo fisso su quelle foto, ripercorro mentalmente la mia infanzia, che in un certo senso rimpiango. Con queste parole, non intendo certo dire di non essere felice della vita che ho finito per costruirmi, ma ammetto di esprimere il desiderio di riavere indietro almeno parte della mia vita. Difatti, la mia permanenza all’interno di quel cupo e spaventoso Istituto, ha sottratto non poco tempo al rapporto con la mia famiglia, che per pura fortuna, non si è logorato. Dopo alcuni minuti passati a navigare nel profondo oceano dei miei ricordi, decido di chiudere quel libro, riponendolo al sicuro nel piccolo baule presente nella stanza. Sin dal giorno in cui ci siamo fidanzati, Jack ed io abbiamo scelto di convivere, e tale situazione si è protratta per circa un anno, quando abbiamo finalmente deciso di convolare a giuste nozze diventando marito e moglie. La nostra nuova vita ruota quasi completamente attorno alla piccola Michelle, che ha appena compiuto un anno d’età. Le vogliamo davvero bene, ed essendo i suoi genitori, non desideriamo nient’altro che il meglio per una bimba dolce e sveglia come lei. Impara nuove cose di giorno in giorno, ed è una bambina davvero intelligente. Difatti, pur avendo soltanto un anno, sa bene come farsi capire, pur senza ricorrere ogni volta alle lacrime. Da qualche tempo a questa parte, ha iniziato a dire le sue prime parole, e questa sua evoluzione non fa che inorgoglire sia me che suo padre. Ad essere sincera, anche mia madre adora la sua nipotina, e mi aiuta con lei ogni volta che ne ha l’occasione, offrendosi di badare a lei quando io e Jack abbiamo voglia di uscire, o semplicemente di stare da soli. Ad ogni modo, temo che Michelle non avrà mai la possibilità di conoscere suo nonno. Difatti, mio padre è passato a miglior vita non poco tempo fa a causa di un’overdose data dai suoi eccessi nel consumo di droga. Ad essere sincera, credo che questa sia la cosa migliore, poiché non vorrei mai che lei commetta i miei stessi errori. Jack ed io siamo i suoi genitori, e non sopporteremmo neanche la semplice idea di vederla rovinarsi come suo nonno. Ora come ora, il tempo continua a scorrere, e ogni giorno che passa mi avvicina alla realizzazione di tutti i miei sogni. Ad ogni modo, esprimendomi in completa sincerità, credo davvero di non poter desiderare nulla di meglio. Ho un marito meraviglioso, una famiglia assertiva e disponibile, e anche una splendida figlia. Jack ed io siamo davvero felicissimi, e crediamo che nulla possa andare storto. Lentamente, ci stiamo costruendo una nuova vita, per mezzo della quale troveremo la chiave della felicità. Una nuova famiglia, è difatti soltanto il primo passo verso una vita piena e agiata. Sappiamo che il nostro amore non scemerà mai, e non finirà mai per spegnersi come una candela sferzata da un debole soffio di vento. I nostri cuori sono gonfi di gioia, e in questo preciso momento ci guardiamo negli occhi, scambiandoci dolci sorrisi e occhiate d’intesa. Continuiamo entrambi a ripeterci che ci amiamo, e abbiamo la ferma e precisa intenzione di trascorrere il resto della nostra vita insieme. Siamo felici, e sappiamo che nulla potrà mai rovinare la nostra letizia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XVIII


Dolore e notizie


Tre lunghi anni sono appena passati, e la mia vita ha continuato a cambiare, riservando ogni giorno sempre nuove gioie. Jack ed io siamo davvero felici, perché la nostra piccola Michelle ha appena compiuto quattro anni. Ora come ora, la nostra bambina è il ritratto della salute, e sembra che nulla riesca mai a scoraggiarla. Michelle è davvero molto attiva, e perfino cadere mentre gioca non la scalfisce. È stoica, e per tale ragione, non osa lamentarsi. Si è infatti lentamente abituata a rialzarsi da terra senza un lamento. Difatti, non riusciamo assolutamente a ricordare l’ultima volta in cui l’abbiamo sentita piangere. Nostra figlia ama giocare, e in alcuni casi scegliamo di invitare a casa alcune delle sue amiche, passando il tempo a guardarla ridere e divertirsi. Ad ogni modo, ora che ben tre anni sono giunti al termine, ho deciso di parlare con Jack, menzionando un argomento davvero importante. Non sapevo perché continuavo a farlo, ma per qualche strana ragione continuavo a porgli la stessa e identica domanda. “Ti andrebbe di avere un altro bambino?” gli chiedevo, attendendo ogni volta di conoscere il suo parere. Per mia mera sfortuna, quel mio interrogativo non trovava mai una risposta, poiché per qualche strana e a me ignota ragione, Jack non aveva mai voglia di parlarne, e tentava sempre di evitare la discussione. Questa situazione finì per protrarsi per intere settimane, e proprio oggi ho deciso di non poter più sopportare l’attuale stato delle cose. “Che ti succede?” ho avuto il coraggio di chiedergli questa mattina, sperando di non risultare invadente. “Non voglio parlarne.” Ha risposto, quasi volendo evitarmi. In quel preciso istante, ho deciso di agire. Mi sono avvicinata e gli ho posato le labbra sulla guancia. “Ti amo.” Gli ho detto, abbracciandolo e tacendo subito dopo. Nonostante le mie vive e sincere effusioni, Jack continuava ad apparire distante. Aveva nei miei confronti un comportamento freddo e distaccato, e sembrava ignorarmi costantemente. Ad ogni modo, le settimane passavano, ed io non riuscivo a dare un senso a ciò che mi stava accadendo. A quel punto, ogni mia speranza sembrava perduta, e il mio mondo sembrava collassare implodendo, ragion per cui, decisi di chiudermi in me stessa e scivolare nel mutismo. Con il passare dei giorni, la mia preoccupazione aumentava, e dopo un tempo che non riuscii a definire, Jack decise di parlarmi. “Vieni con me. ”Disse, facendo quindi in modo che io lo seguissi in camera da letto. Quando vi entrai, credetti che volesse realizzare il mio desiderio, così gli posi una domanda. “Vuoi riprovarci?” chiesi, guardandolo negli occhi. “No.” Rispose, scuotendo il capo. “Perché?” azzardai, preoccupata. “Non posso.” Mi disse, con una mesta espressione dipinta sul viso. “Che cos’hai? Gli chiesi, notando che i suoi occhi stavano iniziando a lacrimare. “Non so come dirtelo.” Continuò, abbassando lo sguardo ed evitando di guardarmi. “Provaci.” Lo incoraggiai, sforandogli una mano. In quel momento, Jack rialzò lo sguardo, e si decise a parlare. “Non potrò darti un altro figlio.” Mi disse, facendomi letteralmente sbiancare. Ammutolita da quelle parole, non riuscii a parlare, ma decisi di agire, limitandomi ad abbracciarlo. Mi lasciai quindi andare fra le sue braccia, sentendomi profondamente protetta. In quel così lungo lasso di tempo, avevo certamente avuto modo di intuire che  qualcosa in Jack non andava, ma non avrei mai potuto neanche lontanamente credere che la situazione che lui viveva silenziosamente e senza un lamento, potesse essere così grave. Ad ogni modo, decisi di restare al suo fianco, pur essendo ormai consapevole di non poter mai avere un secondo figlio. Tale consapevolezza ci addolora entrambi, ma guardandoci attorno, Jack ed io riflettiamo, comprendendo di avere ancora la possibilità di essere felici. Difatti, la nascita di nostra figlia Michelle ci ha cambiato la vita, e tacendo nella nostra gioia, sappiamo che insieme riusciremo a superare ogni difficoltà, compreso il dolore talvolta derivante da alcune importanti notizie.
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XIX


Punti di vista


Tengo gli occhi chiusi, e respirando profondamente, osservo il panorama fuori dalla mia finestra, attendendo l’inizio di un nuovo giorno. In completo silenzio, ammiro il sorgere del sole, spostando quindi lo sguardo su una foto che io e Jack abbiamo scattato a nostra figlia Michelle. Allora aveva solo quattro anni, mentre ora è cresciuta, e ne ha ben venti, pur avendo ancora tutta la vita davanti. Il tempo ha deciso di essere clemente con lei, conferendole una bellezza a dir poco incredibile. È infatti poco più alta di me, e vanta due occhi di un marrone così tenue da sfumare in un dolce color ambra. Il suo sorriso è letteralmente magnetico e luminoso, ed io sono davvero orgogliosa di essere sua madre. inoltre, Michelle ha da poco iniziato a frequentare l’università, e i suoi studi procedono splendidamente. Ha recentemente scelto di voler diventare insegnante, e per tale ragione ha deciso di impegnarsi nello studio. Ad ogni modo, proprio durante uno dei suoi corsi universitari, ha conosciuto Ryan, un ragazzo della sua stessa età, con il quale condivide una grande passione per gli animali e la lettura. Il giorno in cui ha deciso di presentarcelo, Jack ed io ci siamo mostrati molto aperti, e letteralmente entusiasti riguardo alla sua relazione. Sapevamo bene che quel ragazzo così gentile, premuroso ed educato avrebbe rappresentato parte integrante del suo futuro, ma eravamo completamente all’oscuro di qualcos’altro. Da allora sono passati circa sei mesi, e circa qualche settimana fa, Michelle è tornata a casa in sua compagnia come di consueto, ma ci ha detto di avere delle notizie per noi. Mantenendo la calma, Jack ed io abbiamo sorriso, e l’abbiamo incoraggiata a parlare. A quel punto, Michelle ha respirato profondamente, e ha scelto di comunicarci la lieta novella. “Ryan ed io saremo genitori.” Ci ha detto, sorridendo a sua volta e abbracciando il fidanzato. A quella notizia, non sapevamo davvero come reagire, ma ad ogni modo decidemmo di mantenere la calma e discutere con loro del prossimo avvenire. “Cosa credete che accadrà?” chiese Jack, con aria ed espressione interrogativa. “Avrò questo bambino, ed io e Ryan ci sposeremo.” Disse Michelle, suonando estremamente convinta della sua scelta. Alle sue parole, seguì un secondo abbraccio da parte di Ryan, ora visibilmente orgoglioso della vita che conduceva assieme alla ragazza che amava. Di fronte a quella tesi così ben articolata, e a quel progetto di vita apparentemente calcolato nei minimi dettagli, Jack ed io non potemmo fare altro che arrenderci, pur non permettendo la loro immediata convivenza. Tale espediente era nato da un pensiero dello stesso Jack, che voleva evitare distrazioni per nostra, ora impegnata negli studi universitari. Inizialmente, Michelle faticò ad accettare tale decisione, ma con il tempo comprese l’importanza della sua istruzione, rinunciando a farne un dramma. Ad ogni modo, le settimane passarono in fretta, e in un’assolata domenica autunnale, successe ciò che tutti noi credemmo essere l’irreparabile. Sembrava un giorno tranquillo ed ordinario, e Ryan stava venendo a farci visita utilizzando il suo amato e affidabile skateboard, ma per qualche strana e ignota ragione, cadde direttamente sul duro e grigio asfalto, finendo per fratturarsi entrambe le gambe. Mia figlia, che aveva assistito all’intera scena dal giardino di casa, si affrettò a chiamare i soccorsi, e un’ambulanza raggiunse subito il luogo dell’incidente, trasferendo subito Ryan in ospedale. Come c’era d’aspettarsi, la prima reazione di Michelle fu quella di chiedermi di seguire Ryan, ma tale richiesta le fu negata, e non le rimase altro da fare che restare a casa, costantemente in pensiero per il fidanzato. Dopo quanto era accaduto, i giorni scorrevano lenti, e dall’ospedale non giungevano notizie concrete. Per tale ragione, Michelle ci chiese di accompagnarla a fare visita a Ryan, e dato il suo stato di elevata preoccupazione, Jack ed io acconsentimmo senza esitare. Quando arrivammo, lasciammo che i medici ci informassero sulle condizioni del ragazzo, ma le infermiere dissero che la realtà avrebbe fatto le loro veci, ragion per cui, lasciarono che gli facessimo visita nella sua stanza. Ad ogni modo, Jack ed io non tentammo di entrare, lasciando a Michelle la piena libertà di farlo. Ringraziandoci per tale concessione, nostra figlia non se lo fece ripetere, ed entrò subito in quella stanza, non riuscendo tuttavia a credere ai suoi occhi. In quel preciso istante, Ryan era infatti costretto su una sedia a rotelle, e riusciva a muoversi con il solo ausilio dei medici, che lo portavano senza esitazioni ovunque desiderasse. Ad ogni modo, Michelle scelse di avvicinarsi al fidanzato, e i due si scambiarono un bacio. “Sai quando ti dimetteranno?” gli chiese, con un filo di preoccupazione e nervosismo nella voce. “Fra circa tre settimane.” Disse Ryan, mostrandole un debole sorriso di incoraggiamento. A quelle parole, Michelle si limitò ad annuire, e lo baciò nuovamente, per poi decidere di uscire da quella stanza e tornare assieme a noi. Durante il viaggio in auto, nostra figlia manteneva un perfetto e religioso silenzio, ma anche se evitava i nostri sguardi fissando gli occhi sullo schermo del suo cellulare, io potevo ad ogni modo vedere i suoi chiari occhi divenire lucidi e velarsi di lacrime. Jack era impegnato a guidare verso casa, mentre io cercavo incessantemente di rassicurarla parlandole. Poco tempo dopo, fui ben felice di vedere un seppur debole sorriso spuntare sul suo volto. La vista dello stesso, mi fece capire una cosa. Lei ama davvero Ryan, e la vita che hanno deciso di progettare insieme, con anche l’arrivo di un bambino, non è altro che il risultato dell’amore visto con i loro occhi, ovvero sotto nuovi e diversi punti di vista.
 
 


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XX


Gocce di speranza


Quello odierno, è un giorno come tanti altri, e il sole sembra essere letteralmente svanito. Le bianche nuvole prendono il loro posto nel cielo lasciandosi sospingere dal vento, e la luce solare non da segni di esistenza. La mia amata cittadina appare oggi ombrosa, ed io non me ne spiego il motivo. Ad ogni modo, la mia vita scorre lenta, e mia figlia non è proprio al massimo della forma. Difatti, ora come ora è davvero giù di tono, e il suo morale è inequivocabilmente basso. Sono appena trascorsi due mesi dal giorno in cui il suo fidanzato è stato vittima di un incidente che ha finito per costringerlo su una sedia a rotelle. Il tempo continua a scorrere, e il suo umore non cambia. Ora come ora, il suo sorriso sembra aver letteralmente cessato di esistere, finendo per spegnersi come una vecchia lampadina ormai fulminata. Ad ogni modo, Michelle continua a chiedere di essere accompagnata in ospedale per poter fare visita al suo fidanzato, ma per sua mera e semplice sfortuna, suo padre Jack non ha alcuna voglia di farlo. Provando quindi per lei una pena quasi istintiva, ho deciso di provare a realizzare questo suo desiderio. Sorridendole, ho lasciato che si sedesse nella mia auto, decidendo di accompagnarla in ospedale. Non appena arrivammo, Michelle scelse di farsi comunicare il numero della stanza di Ryan, raggiungendola senza esitazioni. Rimanendo in silenzio, la guardavo muoversi agilmente, e ad una velocità tale da non permettermi di starle dietro. Ero infatti costretta ad arrancare, desiderando unicamente di rimanere al suo fianco. Guardandola, notai un rallentamento nei suoi movimenti, forse dipendentemente da una paura provata e sapientemente taciuta. Entrò in quella stanza scegliendo di avvicinarsi subito al fidanzato, che sembrava davvero felice d vederla. “Come ti senti?” chiese lei, visibilmente preoccupata. “Bene, ma ho una sorpresa per te.” Rispose Ryan, sorridendole e guardandola negli occhi. “Che cos’è?” si affrettò a chiedergli, mostrandosi ora felice come una bambina. “Chiudi gli occhi.” la pregò, tacendo subito dopo. A quelle parole, Michelle non rispose, limitandosi ad annuire, e scegliendo di fare ciò che le era stato chiesto. Chiuse quindi gli occhi, e rimase completamente immobile per alcuni minuti, ovvero fino a quando Ryan non le chiese di riaprirli. “Guardami.” Le chiese, regalandole un secondo sorriso. In quel preciso istante, mia figlia aprì gli occhi, non riuscendo quindi a credere a ciò che stava vedendo. Dopo ben due mesi di stasi forzata, Ryan era finalmente in grado di alzarsi in piedi e camminare autonomamente. A quell’istante seguì un fortissimo abbraccio, legame che in quel preciso momento sembrava essere letteralmente indissolubile. Michelle manteneva il silenzio, e delle lacrime di felicità le velavano gli occhi rigandole conseguentemente il volto. “Sapevo che ce l’avresti fatta.” Disse, abbracciando nuovamente il suo fidanzato. “Ti amo.” Rispose Ryan, sorridendo e sfiorando la mano di mia figlia. “Che mi dici del bambino?” le chiesi, con un tono che rispecchiava la sua preoccupazione e la sua curiosità. “Sta bene, ed è un maschio.” Rispose Michelle, decidendo di baciarlo. Ryan strinse la sua mano, accettando quel bacio come una vera e genuina manifestazione d’affetto. Una volta sciolto l’abbraccio in cui erano romanticamente stretti, continuarono a sorridere e guardarsi reciprocamente negli occhi. Il silenzio la faceva da padrone, ed io non osavo intervenire, volendo evitare di rovinare quel momento. “Staremo insieme per sempre.” Le disse, sfiorandole la guancia con le labbra. A quella scena, sorrisi. Due lunghi mesi erano appena passati, e l’amore di mia figlia per Ryan cresceva con l’andar del tempo. Nonostante le difficoltà della loro vita, che finivano inesorabilmente per riflettersi sul loro amore, sono riusciti a fare in modo che lo stesso prevalesse su ogni avversità. Ora come ora, sono certa di una cosa. Nonostante il lento scorrere del tempo, e le sfide di ogni giorno, sul loro amore piovono gocce di speranza.
 
Capitolo XXI


L’inaspettato


Una buia e fredda notte ha fine, e il sole spunta raggiungendo le bianche nuvole ora presenti nel terso e azzurro cielo. Il panorama visibile appena fuori dalla mia finestra non sembra essere cambiato di una misera e singola virgola, eccezione fatta per la nascita di una delicata margherita nel centro del verde e rigoglioso prato. Un raggio di luce fa capolino, illuminando l’erba e facendola brillare poiché letteralmente pregna di rugiada. Ad ogni modo, per qualche strana ed a me ignota ragione, la giornata odierna sembra essere completamente fuori dall’ordinario, poiché capace di nascondere ad ognuno di noi una sorta di inconfessabile segreto. Con mia grande sorpresa, mia figlia Michelle è dello stesso parere, ma sembra nuovamente ed inspiegabilmente triste. Continua a ripetere che Ryan ha smesso di chiamarla, e che secondo il suo pensiero ha intenzione di lasciarla. Non accadrà.” La rassicuro ogni volta, lasciando che un sorriso mi illumini il volto e le sollevi il morale. “Grazie.” Risponde, avvicinandosi per abbracciarmi. “Ti voglio bene.” Le dico, guardandola negli occhi. Ad ogni modo, il tempo scorre incessantemente, e dopo un’intera settimana di silenzio e mutismo, il cellulare di Michelle ha ricominciato a squillare. Subito dopo averlo sentito, ha deciso di prenderlo in mano e raggiungermi in cucina, al solo scopo di mostrarmi quel che aveva scoperto. “È un messaggio di Ryan.” Mi ha detto, sorridendo per la contentezza. “Leggilo.” Le chiesi, guardandola negli occhi. “Sono brutte notizie.” Mi disse, fissando lo sguardo sullo schermo del suo cellulare. “Che vuoi dire?” continuai, mutando il mio stato d’animo da felice a preoccupato. Senza proferire parola, mia figlia mi passò il cellulare, dandomi quindi modo di leggere quel messaggio. “Devo parlarti.” Diceva, interrompendosi dopo solo quelle due parole. “Andrà tutto bene.” Tentai di rassicurarla, abbracciandola con dolcezza. Accettando quella mia manifestazione d’affetto, decise di allontanarsi da me, iniziando quindi a salire le scale che portavano alla sua stanza. Continuai a guardarla finchè non sparì dietro un angolo. La sentii quindi sbattere con violenza la porta della sua stanza, e lasciarsi andare ad un pianto dirotto. Io non osavo muovermi, e pur provando un’immensa pena per lei, non potei fare altro che guardarmi intorno, notando che il suo cellulare era rimasto esattamente dove lei l’aveva lasciato, ovvero sul ligneo tavolino del salotto. Avrei davvero voluto prenderlo e restituirglielo, ma ad ogni modo desistetti dal farlo. Buia e fredda è la notte, soppiantata dalla luce solare, annunciante l’inizio di un nuovo giorno. Sono sdraiata e immobile nel mio letto, e riesco ancora a sentire il pianto ininterrotto di mia figlia Michelle. Poco dopo, anche Jack tentò di rassicurarla, seppur fallendo miseramente nel suo intento. Di primo mattino, Michelle saltò la colazione, scegliendo di recarsi senza esitazione all’università. Vi arrivò in poco tempo, e si mise subito alla ricerca di Ryan. “Michelle, mi dispiace.” Le disse, non appena la vide.” “Di cosa?” chiese lei, confusa e stranita dalle sue parole. “Non potrò crescere il bambino.” Disse, sentendo il dolore crescere dentro di sé come una robusta quercia. “Perché?” chiese, mostrandosi incredibilmente preoccupata. “Mi trasferisco.” Rispose, con la voce rotta e spezzata come vetro. “Andrò in Canada. Continuò, rassicurandola e tentando di avvicinarsi a lei. “Lasciami stare! Fra noi due è finita!” urlò, iniziando a piangere e allontanandosi subito da lui. “Aspetta!” la pregò, tentando di seguirla.” “Vattene Ryan!” urlò lei di rimando, non riuscendo a trattenere le lacrime e rompendo definitivamente gli argini presenti nei suoi occhi. Continuando a seguirla, Ryan tentò di convincerla, pur fallendo nel suo intento. Ad ogni modo, dopo alcuni vani e meri tentativi privi di qualunque significato, decise di uscire da quell’edificio, comprendendo di dover rinunciare a lei per sempre. Avrebbe seguito le orme della sua famiglia, trasferendosi in Canada e lasciandosi la sua fidanzata e il suo futuro figlio alle spalle. Stando ai piani che il destino aveva per lui, quelle non erano altro che scelte obbligate. Al povero Ryan, non restare che camminare a capo chino, e aspettarsi silenziosamente l’inaspettato.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 
 
 
 
 
 
 
Capitolo XXII


I poteri del cuore


Un lungo giorno passa, e piove nuovamente. Il cielo si veste di tuoni, e un burrascoso temporale bagna il Texas. L’aria è fredda, e le nuvole grigie. Ora come ora, siedo tranquillamente sul divano del salotto. Le mie gambe accavallate mostrano un portamento degno di una ballerina classica. L’orologio appeso al muro della cucina ticchetta debolmente, e mia figlia siede al mio fianco. Non ha alcuna voglia di parlare, e mantiene un docile e perfetto silenzio, tenendosi occupata con la lettura. Il suo romanzo preferito giace sulle sue gambe, e le pagine sono lentamente mosse dal vento. Improvvisamente, il suo cellulare vibra, facendola letteralmente sobbalzare. Prendendolo lentamente in mano, si accorge di aver ricevuto un messaggio. È da parte di Ryan, ed è composto da due parole. “Mi manchi.” Dice, ed è ovviamente riferito a mia figlia. Non appena lo legge, lei decide di ignorarlo, scegliendo di cancellarlo senza neppure guardare lo schermo. Ryan era un ragazzo di buona famiglia, con un futuro brillante ed un intera vita davanti, fidanzato con mia figlia Michelle prima della fine del loro rapporto, avvenuto ormai due mesi fa. Dal loro amore, è iniziata l’inaspettata gravidanza di mia figlia, accettata con il tempo sia da me che da mio marito Jack. Ad ogni modo, il loro rapporto ha avuto fine per una singola e semplice ragione. Difatti, Ryan si era inizialmente mostrato entusiasta riguardo alla sua condizione, per poi rivelare il vero sé stesso e spezzare irrimediabilmente il cuore di Michelle. Un improvviso e repentino trasferimento da parte dei genitori di Ryan lo ha costretto a trasferirsi in Canada, allontanandolo sia da lei che dal suo futuro bambino. Il povero Ryan ha ovviamente cercato di spiegare ogni cosa a Michelle, ma lei non ha voluto credergli, decidendo di lasciarlo senza neppure riflettere, poiché completamente distrutta e corrotta dal dolore. La loro seppur breve relazione si è così consumata, finendo per bruciare come legna in un focolare. Il tempo scorre lentamente, e un intero mese giunge al termine. In questo preciso istante, mia figlia riposa nella sua stanza, pensando esclusivamente a sé stessa e al benessere della creatura residente proprio sotto il suo pulsante e puro cuore. Ora come ora, la sua gravidanza prosegue, e il tempo che la separa dal vedere suo figlio nascere e fare il suo ingresso in questo grande e luminoso mondo, scoprendolo in ogni sua sfaccettatura, si accorcia sensibilmente, come un abito sapientemente e accuratamente modificato da una sarta. Mancano quindi ben cinque mesi alla nascita di mio nipote Kyle, che io amerò incondizionatamente fino alla fine dei miei giorni. Ad ogni modo, il silenzio regna sovrano e viene rotto solo dal suono del campanello, che mi spinge ad alzarmi e aprire la porta. Avvicinandomi lentamente alla porta, ne abbasso la maniglia e la apro, rimanendo letteralmente allibita. Sull’uscio non c’era anima viva, ma sullo zerbino giaceva una piccola busta contenente una lettera. Abbassandomi, la raccolgo, scegliendo di prenderla in mano e portarla in casa. Tenendola fra le dita, noto il nome del mittente, e corro subito a chiamare mia figlia. “C’è una lettera di Ryan.” Le dico, facendola scattare in piedi come una molla. Ad essere sincera, mi aspettavo quel tipo di reazione. Parlandomi, continuava a mentirmi, dicendo che non voleva fare altro che provare a lasciarsi quella delusione amorosa alle spalle, pur soffrendo internamente e sperando di poter tornare indietro. Ryan le mancava davvero, e pur non volendolo ammettere, lo lasciava intendere con tutti quei comportamenti. Ad ogni modo, aprì quella lettera e la lesse non appena raggiunse in salotto, iniziando a lacrimare per la gioia. Quel manoscritto, testimoniava infatti l’amore di Ryan per lei, e attestava a chiare lettere che lui la rivoleva indietro, e desiderava essere presente per il loro futuro figlio. Piangendo per la gioia, mia figlia mi disse che avrebbe davvero voluto rispondere a quella lettera, ed io non battei ciglio. Procurandole della carta e una penna, la lasciai completamente da sola nella sua stanza, così che il suo genio creativo potesse essere liberato. Ad ogni modo, passarono due ore prima che lei riuscisse a trovare le parole giuste per esprimersi. Una volta finita la sua lettera, scese le scale e tornò in salotto, chiedendomi gentilmente di imbucare quella lettera per conto suo. Sorridendo, decisi di acconsentire, e salendo in macchina, mi recai verso il vicino ufficio postale. Il tempo scorreva, ed io guidavo senza sosta. Sapevo di stare facendo la cosa giusta, utilizzando la mia gentilezza e il mio buon senso per aiutare mia figlia. Guidavo mantenendo una ferrea concentrazione, e in quel mentre, scorsi una figura nello specchietto retrovisore della mia auto. Un ragazzo incredibilmente simile a Ryan sembrava dirigersi verso casa mia, ma proseguendo per la mia strada, decisi di ignorarlo. Una volta raggiunto l’ufficio postale, imbucai la lettera, dirigendomi quindi verso casa, mia prossima destinazione. In quel momento, ero troppo concentrata sulla guida per parlare, ma lasciavo comunque che un roseo pensiero occupasse la mia mente. Stavo ora aiutando mia figlia, lasciando che lei fosse sé stessa, e utilizzasse i profondi poteri del suo cuore, secondo i quali, tutto sarebbe prima o poi tornato normale.
 
 
 


Capitolo XXIII


La forza dell’amore


Il silenzio regna nella notte, e il cielo è scuro. Le timide ma brillanti stelle lo punteggiano, e delle incerte lucciole volano nel cielo, spargendo la loro luce all’interno del cielo stesso, così come un’ape farebbe con del polline. Quattro mesi sono giunti al termine, e quella odierna è una notte tranquilla. Il silenzio che la caratterizza sembra essere eterno, ma viene spezzato da quello che al mio fine udito appare simile ad un pianto. Quasi istintivamente, scivolo fuori dal mio letto, e spinta dalla curiosità, controllo la fonte di quel rumore. Cammino silenziosamente negli ampi corridoi della mia casa, raggiungendo la camera di mia figlia. La porta è chiusa, ma dal buco della serratura si intravede un debole fascio di luce, chiaro segno che Michelle è forse ancora sveglia. Avvicinandomi alla porta, finisco per origliare, sentendo mia figlia piangere. Provando istintivamente pena per lei, decido di bussare, attendendo che lei apra la porta. La mia attesa non si protrae a lungo, poiché Michelle mi lascia subito entrare. Per qualche strana e a me ignota ragione, un’espressione di tristezza e dolore sembrava essere costantemente dipinto sul suo volto. “Credo sia il momento.” Mi dice, non accorgendosi che delle fredde lacrime le rigno il volto. Guardandomi, attende e spera nel mio aiuto, mentre si tiene la pancia per il dolore. Improvvisamente, un suo urlo squarcia la notte come la spada di un combattente, ed io rimango completamente immobile. “Aiutami.” Sembra dire, pur mantenendo un silenzio causato dal dolore che ora prova. Quasi istintivamente, le prendo la mano, scegliendo di aiutarla ad uscire dalla sua stanza e violare l’uscio di casa. “Sali in macchina.” Le chiedo, iniziando a seguirla subito dopo. Decidendo di darmi retta, Michelle si avvicina all’auto, e aprendo la portiera, si siede al posto del passeggero. Il viaggio verso l’ospedale ha inizio, e il suo dolore sembra non avere letteralmente fine. Continua a lamentarsi, e posa una mano sulla pancia, tentando in qualche modo di lenire il dolore. Ad ogni modo, il suo tentativo si rivela vano, e pur essendo concentrata sulla guida, provo comunque a rassicurarla, almeno fino al nostro arrivo in ospedale. Intanto, mio marito ha deciso di seguirci, avendo anche lui sentito le sue urla. Il tempo scorre, e la strada sembra scivolare via come olio. Raggiungiamo l’ospedale nell’arco di mezz’ora, e i medici presenti hanno delle insolite notizie per noi. “Questa ragazza è incinta.” Esordisco, cingendo un braccio attorno alle spalle di mia figlia per aiutarla a camminare. Alle mie parole, i medici non rispondono, pur reagendo fulmineamente. La affido quindi alle loro cure, guardandoli trasportarla in sala parto. Nel frattempo, vengo raggiunta da mio marito Jack, che appare ora preoccupato e visibilmente stanco. “Come sta?” mi chiede, riferendosi a nostra figlia.” “La stanno aiutando.” Rispondo, sorridendo debolmente. Subito dopo, decido di sedermi in sala d’attesa, e Jack sceglie di imitarmi pochi istanti dopo, scivolando assieme a me nel più completo mutismo. Due lunghe ore passano, e un ragazzo siede di fronte a me nella sala d’attesa. Spinta dalla curiosità, lo guardo negli occhi, e lui mi sorride. “Ryan?” lo chiamo, incerta e dubbiosa. “Che cosa ci fai qui?” gli chiedo, letteralmente stranita dalla sua presenza. “La mia ragazza è incinta.” Risponde, sorridendo nuovamente. “Come fai a sapere del parto?” gli chiedo, confusa.” L’ho sentita urlare durante la notte, e ho fatto il suo nome qui in ospedale.” Mi disse, suonando stranamente serio. Guardandolo, notai che sulle sue gambe giaceva uno strano animaletto. Era un adorabile criceto, e i suoi scuri occhietti sprizzavano luce ed energia. “Lui chi è?” chiesi, scegliendo di cambiare argomento di conversazione. “Si chiama Brownie, ed è stato lui a portarvi la mia lettera.” Continuò, sempre utilizzando quel tono calmo e pacato. “Com’è possibile?” azzardai, stranita da quel racconto. “Sono tornato a vivere qui.” Chiarì, facendo spuntare un sorriso sul mio volto. Mi lasciai quindi sfuggire una risata, e mi alzai per abbracciarlo. “Bentornato.” Gli dissi, stringendolo a me. Poco tempo dopo, sentimmo un urlo agghiacciante, ed io ebbi l’occasione di vedere un’infermiera uscire dalla sala parto. “È un maschietto.” Ci disse, regalandoci un sorriso. “Possiamo vederlo?” chiese Ryan, preoccupato per il figlio e per la fidanzata. “Seguitemi.” Disse l’infermiera, facendoci quindi strada verso la sala parto. Quando la raggiungemmo, chiesi a Ryan di restare dietro di me, poiché volevo che la sua presenza in ospedale fosse una sorpresa per Michelle. Ad ogni modo, decisi di entrare in quella stanza, e vedendo mia figlia, la salutai. Mi avvicinai quindi a lei, abbracciandola quasi istintivamente. Michelle accettò quell’abbraccio senza protestare, e lo stesso si sciolse come burro poco tempo dopo. Ebbi quindi la possibilità di prendere in braccio mio nipote, e in quel preciso istante, misi in atto la sorpresa che avevo organizzato. “Ho una sorpresa per te.” Dissi, guardando Michelle negli occhi. “Cosa?” esclamò, incredula. “Voltati.” Le chiesi, scostandomi così che potesse vedere ciò che fino a quel momento nascondevo. “Ryan!” urlò, in preda ad una contentezza mai provata prima. Alcuni secondi passarono, ed io vidi i due ragazzi scambiarsi un bacio che sembrava racchiudere tutti i loro veri sentimenti. Non osai quindi interrompere quel momento, vedendo perfino mio marito versare un’affatto amara lacrime. In quel momento, il nostro morale era alle stelle, ed entrambi ci scambiammo un’occhiata d’intesa. Rimembrammo quindi i tempi in cui eravamo come loro, e guardavamo immobili il loro amore rifiorire. Non ci sembrava vero, ma  la forza del loro amore aveva appena squarciato l’oscurità della nostra vita.


Ciao a tutti! Lasciatemi dire grazie a chi ha letto fin qui. Spero che la storia abbia incontrato il vostro favore, e confido nelle vostre recensioni


Emmastory     
   
 
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