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Autore: ItalianDork    17/07/2015    3 recensioni
" Il primo giorno era stato un ammasso confuso di colori intensi che si mescolavano e sfumavano l’uno nell’altro: gli occhi improvvisamente gialli di Aoba, i toni metallici delle divise delle guardie di Toue, l’azzurro quasi vitreo del pavimento, il nero che gli aveva annebbiato gli occhi in seguito ad un colpo alla testa; perciò, quando venne risvegliato all’improvviso da una mano che gli scuoteva una spalla, Noiz ci mise qualche secondo ad adattarsi all’ambiente dai toni anonimi e grigiastri in cui erano stati trasportati nel mentre. "
(KouNoi)
Seconda classificata al contest Just Let Me Cry sul forum di EFP
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aoba Seragaki, Koujaku, Noiz
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Note autrice: Fermiamoci un momento a immaginare una Bad End generale in cui non è stata scelta alcuna route e, mentre i nostri eroi erano intenti a irrompere nella Oval Tower, l’Altro Aoba è riuscito in qualche modo a prendere pieno possesso del corpo del nostro amato protagonista e a tradirli tutti, unendosi a Toue. Ecco, questo è il contesto da cui ha origine la storia.  Ad ogni modo, non vorrei rivelare tutte le direttive contenute nella storia per evitare spoiler, ma sono comunque almeno tre (una delle quali è chiaramente il What If?) e ci terrei a sottolineare che l’angst va in crescendo, quindi ci saranno anche attimi più leggeri nel mezzo (così, giusto per avere un po’ di calma prima della tempesta).
Disclaimers: Non posseggo il gioco, il suo sequel, il suo remake, l’anime (altrimenti la KouNoi sarebbe stata canon in quattro routes su sei coughcough) e neanche le sue musiche e canzoni (due delle quali sono state però ‘mescolate’ da me per la storia).
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The pupils were shut deeply
Where the worlds sinks into darkness
The voice that does not receive is crying
I want to grab your hand, but I am shy
When it all comes down, what do I say
Somewhere in the heart, there is still a part of me
There's a hole in the corner of my heart
That can only be filled by your noise.
                                                                                                                           
Giorno 1

Il primo giorno era stato un ammasso confuso di colori intensi che si mescolavano e sfumavano l’uno nell’altro: gli occhi improvvisamente gialli di Aoba, i toni metallici delle divise delle guardie di Toue, l’azzurro quasi vitreo del pavimento, il nero che gli aveva annebbiato gli occhi in seguito ad un colpo alla testa; perciò, quando venne risvegliato all’improvviso da una mano che gli scuoteva una spalla, Noiz ci mise qualche secondo ad adattarsi all’ambiente dai toni anonimi e grigiastri in cui erano stati trasportati nel mentre.
Era in una cella, quasi interamente spoglia ad eccezione di un gabinetto e di una brandina malandata, e in cui, con ogni probabilità, doveva fare piuttosto freddo, almeno a giudicare dalla posizione chiaramente sotterranea e dall’assenza di una qualsiasi fonte di calore; il pavimento era di cemento dalla sua posizione per terra riusciva a vedere un uomo robusto seduto con la schiena contro il muro e i gomiti sulle ginocchia, apparentemente troppo immerso in ciò che stava pensando per alzare lo sguardo, che riconobbe immediatamente come Mink,  e un’altra figura, molto più esile e chiaramente ancora incosciente, adagiata sulla branda, che identificò come Clear solo grazie ai capelli bianchi, essendogli stata levata la sua caratteristica maschera a gas; ma non fece in tempo a domandarsi dove fosse l’unica persona mancante all’appello, che venne nuovamente scosso.
“Moccioso, svegliati!” sentì una voce ben nota dire alle sue spalle.
Facendo leva su di un gomito, Noiz torse il busto e allontanò malamente la mano di Koujaku dalla propria spalla, fulminandolo con lo sguardo.
“Non toccarmi.” Gli intimò con un sibilo.
Koujaku contrasse la mascella e lo sollevò per il colletto della maglia, rispondendo al suo sguardo con uguale rabbia.
“Questo non mi sembra il momento adatto per tirare fuori quella tua attitudine da moccioso viziato e irritante, soprattutto dopo averci fatto pensare di essere finito in coma come Clear.” Gli ringhiò contro.
Noiz voleva quasi ridergli in faccia.
Come se fosse veramente importato a qualcuno se non si fosse svegliato più; Koujaku di sicuro non voleva un altro peso morto che intralciasse un suo eventuale piano di fuga, o forse aveva bisogno delle sue doti per metterlo in atto, era evidente.
Come se a qualcuno fosse veramente importato se non fosse più stato lì.
“Cos’è, eri in pena per me? Che dolce che sei...” Gli disse con tono falsamente commosso e un sorrisetto stampato in faccia, fissandolo attentamente e aspettando la sua reazione.
Koujaku sembrò sul punto di dire qualcosa, ma venne interrotto da una risata sommessa proveniente da oltre le sbarre.
Si girarono tutti verso l’origine del suono, persino Mink, e ciò che videro li lasciò come congelati.
Aoba era lì, che li fissava tutti con una mano intorno ad una delle sbarre e l’altra ad adombrargli la bocca, mettendo ancora più in evidenza il nuovo colore giallo dei suoi occhi, così diversi dalla loro originaria controparte nocciola nella malizia e nella gioia perversa che li faceva brillare.
A quella vista, la presa di Koujaku sul suo colletto si era stretta così tanto da sbiancargli le nocche, notò Noiz.
“Siete uno più adorabile dell’altro, sapete?” disse quello che un tempo era stato senza dubbio Aoba, ma con una voce più profonda e melliflua di quanto non fosse mai stata, sorridendo in modo sornione.
“A-Aoba…” cominciò Koujaku, lasciando andare la maglia di Noiz e alzandosi lentamente in piedi, allungando una mano davanti a sé quasi volesse raggiungere il suo amico d’infanzia. “…Cosa ti è successo? Che ci fai lì…?”
Aoba staccò la mano dalla sbarra e fece qualche passo indietro, prendendosi il tempo di ammirare lo sguardo addolorato e tradito di Koujaku, gli occhi spalancati e al contempo indagatori di Noiz, l’espressione indecifrabile di Mink e il corpo inerte di Clear prima di rispondere con un’alzata di spalle.
“Avevo bisogno di un po’ di aria fresca, tutto qui. E respirare a pieni polmoni è ancora più piacevole se sei in testa ad una grande potenza.”
Detto questo, fece un breve cenno di saluto con la mano e se ne andò.


Giorno 3
Il terzo giorno, Clear venne portato via mentre tutti stavano ancora dormendo.
Non che la sua presenza si fosse fatta sentire così tanto, alla fin fine, si ritrovò a pensare Noiz nel fissare la brandina vuota.
Giorno 7
Il settimo giorno, invece, fu Mink a sparire.
Certo, non era stato particolarmente loquace nel breve periodo che aveva passato nella cella, ma almeno, fino a che c’era stato lui, Koujaku e Noiz avevano avuto una ragione per non azzuffarsi; ora, invece, solo il tempo avrebbe potuto dire quanto avrebbero resistito prima di saltarsi al collo.


Giorno 11
L’undicesimo giorno, quando si svegliò, Noiz realizzò di essere da solo e in un’altra cella.
Si alzò a sedere su di una brandina diversa da quella per cui solo la sera prima aveva litigato con il vecchio e si guardò intorno, notando con una stretta alla gola, da lui riconosciuta come disagio, che le sbarre avevano lasciato il posto ad un’altra parete, munita di una singola porta, su cui spiccavano due finestrelle, le quali probabilmente servivano per il passaggio del cibo e per permettere a chiunque passasse fuori dalla stanza di guardare all’interno.
Con lui, a questo punto, c’era la sola compagnia del silenzio e di una specie di flebile ticchettio intermittente che era sicuro di non aver mai sentito nell’altra cella.
Aggrottando le sopracciglia, alzò la testa nella direzione da cui proveniva il suono e si ritrovò a fissare l’obbiettivo di una telecamera.
Scosse la testa, indeciso se ridere o sbuffare di fronte all’ennesima prova di quanto maniacale fosse l’Aoba che li aveva sequestrati, la cui risata sardonica era fin troppo facile da immaginare per Noiz mentre dava il benvenuto alla telecamera alzando il dito medio nella sua direzione.
Il ragazzo si sdraiò sul fianco, dando le spalle all’obbiettivo e tirandosi le ginocchia contro il petto.
Stare da solo in cella fino a che non avessero portato via anche lui per chissà quale ragione non sarebbe stato un problema.
Non che fosse niente di nuovo per lui, dopotutto.


Giorno 13
Il tredicesimo giorno, Noiz  se ne stava seduto per terra con la schiena contro al muro, quando sentì la voce.
Inizialmente, non ci prestò troppa attenzione, convinto che fosse solo frutto della sua immaginazione, l’effetto che stare chiuso in una stanza dominata da un silenzio quasi totale aveva prodotto per l’ennesima volta su di lui, attirando all’esterno del suo cervello il chiasso perenne che lo riempiva, quindi si limitò ad appoggiare la testa contro il muro e a chiudere gli occhi, provando a svuotarsi la mente.
Tuttavia, quando si sentì chiamare per la seconda volta, si rese conto che nessuna delle voci che solitamente albergavano nella sua mente usava mai il nome che si era scelto. La realizzazione gli fece raddrizzare il collo e assottigliare gli occhi mentre spostava lo sguardo da una parte all’altra della stanza.
“Dove sei?” domandò all’aria, tendendo le orecchie per provare a prestare più attenzione alla voce e riconoscerla.
“Avvicinati di qualche metro, moccioso.” Si sentì rispondere.
…Koujaku.
Quello era Koujaku.
Alzando le sopracciglia e mettendosi carponi, fece come gli era stato richiesto e, quando arrivò in prossimità della parete, capì finalmente da dove provenisse il suono: c’era una crepa nel muro, situata all’incirca a quella che, se fosse stato in piedi, sarebbe stata l’altezza del suo ginocchio e che si allargava in una fessura abbastanza larga da farci passare un dito; Noiz, ci avvicino il viso e provò a guardarci dentro, scorgendo un singolo occhio rosso che lo fissava di rimando.
“Ehilà.” Salutò con un ghigno che cominciava a sollevargli un angolo della bocca. “Ti mancavo così tanto?”
Dall’altra parte del muro giunse uno sbuffo.
“Mi fai pentire di averti chiamato.” Mugugnò Koujaku.
“E allora che ci fai ancora qui?” gli chiese Noiz in tono di sfida; tanto, presto si sarebbe stancato di lui, tanto valeva incitarlo ad andarsene in modo secco.
A questo punto, si aspettava un qualche insulto e poi di nuovo il silenzio, eppure l’uomo riprese a parlare.
“Senti, lo so che io non piaccio a te e tu non piaci a me,” cominciò in tono serio. “ma siamo rinchiusi entrambi in delle celle adiacenti collegate da una crepa e dove non entra mai nessun altro, quindi la nostra unica scelta è imparare a sopportarci; non avere nessuno con cui socializzare può avere conseguenze orrende sulla mente, e non ci tengo.”
E, in quel momento, Koujaku non capì perché Noiz fosse scoppiato a ridere.


Giorno 25
Il venticinquesimo giorno, c’erano dodici segni sul muro di Noiz, sette lineette dritte e cinque croci.
“Ehi, vecchio.” Chiamò Noiz, sapendo che, malgrado le lamentele e gli sbuffi relativi al soprannome, Koujaku si sarebbe comunque subito avvicinato alla fessura per ascoltare quello che aveva da dire.
“Cosa c’è?” chiese infatti pochi secondi dopo.
“Parliamo da quasi due settimane e abbiamo litigato solo cinque volte. Penso sia una specie di record.” Lo informò Noiz con il suo solito tono piatto.
“…Stai tenendo il conto?”
“Sì.”
“Perché…?”
“Non che ci sia molto altro da fare. A volte sei persino più tonto di quanto avrei potuto immaginare, sai?”
Noiz sentì il suo interlocutore inspirare profondamente dall’altro lato del muro, come se stesse provando a trattenersi, e ghignò soddisfatto, sistemandosi meglio contro la parete, in modo che la sua faccia fosse a pochi centimetri dalla crepa.
“Sei calmo o devo aggiornare l’elenco?” chiese.
“Sei davvero infantile, a volte, sai? Diciamo pure sempre.” Sbuffò di rimando Koujaku.
“E tu sei antiquato, ma che vuoi farci?”
“…Stai cercando di farmi arrabbiare di proposito o è solo una mia sensazione?”
“Allora non sei poi così tonto.” Commentò Noiz, per poi mettersi a tracciare con l’indice uno dei segni sul muro di cemento. “Incidere segni nella parete mi svaga.”
Inaspettatamente, udì un accenno di risata e spalancò gli occhi dalla sorpresa, solo per accigliarsi l’istante seguente, fulminando la crepa con lo sguardo.
“Qualche problema?” domandò con un filo di irritazione nella voce.
“No, niente è solo che…” Koujaku si interruppe, come cercando le parole giuste, e Noiz sentì di nuovo quel suono. “Incidere segni nelle pareti è uno stereotipo terribilmente comune per i carcerati che contano quanti giorni mancano al loro rilascio, ma tu che lo fai per tenere un calendario dei litigi… Ecco, è una cosa un po’ assurda, anche divertente. Tutto qui.”
Noiz si ritrovò ad aggrottare le ciglia ancora più di prima, vagamente confuso dalla spiegazione.
Si aspettava che quella specie di risata abbozzata fosse un intento di prendersi gioco di lui, un qualcosa di sarcastico e pieno di biasimo, non una reazione genuina; non era un tipo da fare battute, né una presenza allegra, quindi quella reazione gli era del tutto estranea, tanto più che non riusciva neanche a ricordare l’ultima volta in cui qualcuno gli avesse anche solo sorriso.
“E cosa stai usando, poi? Le ciotole che ci danno sono di polistirolo.” Chiese Koujaku dopo qualche secondo, attirando l’attenzione dell’hacker e cercando di suonare indifferente, ma chiaramente incuriosito.
“Uno dei miei piercing.” Rispose Noiz come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Non te li hanno ancora tolti?”
“Evidentemente non pensavano che avrei potuto farci nulla che fosse dannoso per loro.” Offrì come spiegazione il ragazzo, dando un’alzata di spalle benché non ci fosse nessuno a vederla, oltre alla telecamera.
“Mi sembra comunque strano…” insistette Koujaku, con il tono di chi sta per perdersi nelle proprie elucubrazioni.
“Forse. Ma, da quando siamo qui, cosa è normale?”
Koujaku non seppe come rispondere a quella domanda.


Giorno 39
Il trentanovesimo giorno, Noiz decise di confrontare Koujaku riguardo una supposizione che gli girava per la mente da almeno una settimana ormai.
“Tu ci speri ancora, vero?” esordì.
“Huh? Di cosa stai parlando?” chiese Koujaku, con la voce piena di confusione.
“Di Aoba.” Fu la lapidaria risposta. “Tu speri che ritorni com’era.”
La stanza cadde nel silenzio più totale, tanto che Noiz non avrebbe potuto sentire il respiro di Koujaku neanche se avesse avvicinato l’orecchio alla crepa, il che lo incitò a continuare.
“A volte ti viene a parlare attraverso la porta, lo so perché sento la sua voce.” Spiegò con calma, come se stesse facendo un’esposizione. “Tu provi a convincerlo a lasciarci tutti andare, o a farti dire dove hanno portato Clear e Mink, o anche solo a ricordare ‘i vecchi tempi’, ma lui non fa altro che prendersi gioco di te con le sue risatine e i suoi commenti vaghi. Perché continui a provare?”
Il silenzio continuò a perpetuarsi, diventando così teso da sfiorare la soglia dello sconfortante, ma Koujaku continuava a non rispondere, come se avesse qualche segreto inconfessabile da nascondere, lasciando Noiz a fare supposizioni com’era sua abitudine mentre aspettava che l’altro si decidesse a parlare.
Pensò che fosse perché erano amici da tanto tempo, o almeno così aveva inteso dalle conversazioni origliate, ma sospettava ci fosse qualcosa di più, qualcosa di celato nel tono profondamente addolorato e melenso che Koujaku adottava nel corso di esse.
Un’ipotesi improvvisa gli si conficcò nel cervello, ma prima che potesse anche solo pensare di analizzarla in modo appropriato, Koujaku finalmente cominciò a parlare.
“…Il perché mi sembra ovvio.” Disse con una voce così bassa che Noiz dovette quasi appoggiare l’orecchio alla crepa. “Lui è mio amico, ci conosciamo da quando siamo bambini e-” si interruppe a metà frase, come se fosse stato sul punto di aggiungere qualcosa ma avesse avuto un ripensamento improvviso. “…E semplicemente per me è naturale sperare che ritorni in sé. Non voglio pensare che ormai sia un caso perso, perché non lo è. Punto.”
Noiz non sapeva se ritenersi divertito o semplicemente allibito da quelle parole; per quanto si arrovellasse, non riuscire a capire come si potesse negare con tanta testardaggine la realtà.
Che senso aveva?
I fatti erano fatti, per quanto deludenti e amari, provare a negare l’evidenza non faceva altro che farti sembrare stupido e ingenuo.
Vulnerabile.
Debole.
E i deboli soccombevano ai fatti.
“Che comportamento idiota.” Fu l’asciutto commento del ragazzo.
“Cos-”
“Qualsiasi cosa abbia preso possesso di lui di sicuro non ha intenzione di lasciarlo andare, mi sembra così chiaro.” Spiegò il ragazzo in tono quasi annoiato. “Ora c’è solo quello psicopatico che si diverte a giocare con te, non l’hai ancora capito? Il tuo caro Aoba è andato per sempre.”
“Stai zitto.”
Era appena un sussurro, ma conteneva una vena di pericolosità che Noiz scelse di ignorare.
“Cos’è, la verità ti fa male? Scommetto che non è nulla rispetto a quello che lasci che ti faccia lui-
Ti ho detto di stare zitto!”
Quel sottile velo di minaccia si era gonfiato ed espanso in un ringhio quasi ferale, e Noiz si bloccò per la sorpresa, dando a Koujaku la possibilità di parlare di nuovo.
“Cosa ne sai tu? Cosa ne sai di Aoba? Cosa ne sai di me? Nulla, non sai nulla!” gli sibilò contro l’uomo, con ogni singola parola che trasudava rabbia e veleno. “Quindi, cosa credi che ti dia il diritto di metterti a giudicare quello che faccio e dare sentenze? Sei solo un moccioso viziato e petulante, ecco cosa sei.”
Noiz scoprì di avere improvvisamente qualche difficolta a deglutire, ed era come se il suo cervello contenesse troppi dati allo stesso tempo; non era tanto per la sfuriata in sé, quanto per le domande che essa aveva fatto nascere nella sua testa.
Cosa sapeva davvero di Koujaku?
E perché, ora che ci pensava, l’idea di avere informazioni su di lui gli risultava così allettante?
Era distorsione professionale? Mancanza di altri stimoli esterni? L’effetto della compagnia forzata?
Ma, soprattutto, perché gli aveva voluto spiegare il motivo per cui riteneva controproducente il suo atteggiamento?
L’unica spiegazione possibile sarebbe stata che aveva voluto girare il dito nella piaga per farlo soffrire, ma, per quanto si divertisse a strappare reazioni emotive e a volte esagerate a quell’uomo, si scoprì a non volere che provasse quel tipo di disagio.
Perché?
C’era tuttavia una cosa di cui era sicuro: non l’avrebbe lasciato vincere.
“Effettivamente non so un cazzo di te,” cominciò, dopo aver preso un respiro profondo dal naso. “ma in effetti neanche tu sai un cazzo di me, quindi conta fino a dieci prima di dare giudizi, vecchio.”
Seguì un lungo silenzio e, quella sera, la croce che Noiz incise sulla parete era leggermente più profonda e dai contorni più tremolanti delle altre.



Giorno 52
Il cinquantaduesimo giorno, fu Koujaku a esordire con una domanda inaspettata.
“Non ti piace la solitudine, vero?”
Noiz si irrigidì immediatamente alle parole dell’uomo, e la sua voce, quando si avvicinò di più alla crepa, trasudava insofferenza.
“Ah? Cosa te lo fa pensare? La mia intensa vita sociale?”
Quando lo udì, poteva quasi immaginare lo scuotimento di testa che aveva accompagnato il sospiro di Koujaku, ma l’uomo persistette.
“C’è una differenza fra ‘stare da soli’ ed ‘essere soli’ e so lo sai anche tu, quindi vedi di fare il simpatico con me.” Lo ammonì.
Noiz si ritrovò a sbuffare, incrociando le braccia al petto anche se il gesto non poteva essere visto, lanciando un’occhiata di sufficienza alla crepa.
“E tu continui a non avere prove per la tua tesi, sai?” lo rimbeccò il ragazzo, irritato dal fatto che, alla fine dei conti, l’uomo non aveva tutti i torti.
“Fra noi due, in genere sei sempre tu quello che parla per primo.” Si limitò ad affermare Koujaku, con il tono di chi sta facendo notare l’ovvio ad una persona per nulla intenzionata ad ammettere di avere torto; e, in effetti, era proprio così.
Noiz si tirò le ginocchia al petto, appoggiando la testa contro il muro e fissando il vuoto di fronte a sé, mentre qualcosa gli si attorcigliava nella gola, rendendo difficile la deglutizione.
“… Forse mi dà semplicemente fastidio stare in posti silenziosi.” Disse infine, dopo quello che era sembrato un silenzio infinito e che fece capire al suo interlocutore di aver toccato un tasto in qualche modo delicato, troppo per il momento.
“Forse.” Gli concesse Koujaku.
Giorno 53
Il cinquantatreesimo giorno, Noiz stette in silenzio per la maggior parte della giornata, tanto che, quando Koujaku chiamò il suo nome dopo qualche ora, c’erano tracce di quella che poteva essere preoccupazione nella sua voce.
“Moccioso? Moccioso, sei ancora lì?”
“No, sono andato a fare un giro.” Gli biascicò contro il ragazzo, seduto di fianco alla crepa come al solito, ma guardando ostinatamente davanti a sé.
“Non scherzare. Come potevo sapere se eri stato portato via o meno?!” lo rimbeccò Koujaku, per poi sospirare. “…Non scherzare su certe cose.”
Noiz assottigliò gli occhi e fissò la crepa intensamente per alcuni secondi, analizzando le parole di Koujaku una per una mentre la gola gli si contraeva proprio come il giorno prima.
“…E a te cosa importa?” chiese alla fine, avvicinandosi inconsciamente alla fessura.
“Non ho idea di cosa succeda a quelli che vengono portati via, è naturale che mi preoccupi.” Rispose l’uomo con il tono di chi sta dicendo una cosa banale e scontata e non capisce il bisogno di esplicitarla. “E poi non abbiamo finito di parlare.”
“E poi quello che non riesce a star zitto sono io.”
Noiz.”
Il ragazzo quasi sobbalzò, allontanandosi leggermente dal muro e raddrizzando la schiena per la sorpresa.
Koujaku l’aveva chiamato per nome solo un’altra volta, quindi la situazione doveva essere abbastanza seria.
Il che lo incuriosiva terribilmente.
Noiz si tirò le gambe al petto e si avvicinò nuovamente alla crepa con gli occhi un po’ più aperti del solito e fissi in essa, umettandosi velocemente le labbra e senza dire nulla, quasi ansioso di sentire ciò che l’altro aveva da dire.
“Pensi davvero che ieri mi sia bevuto la tua scusa?” esordì con una domanda Koujaku.
“…”
“…Moccioso, rispondimi.”
“…Non era una scusa…” bofonchiò Noiz, gonfiando leggermente le guance e guardando a terra con espressione corrucciata.
“Non era neanche tutta la verità, però, vero?” lo incalzò il suo interlocutore, ottenendo ancora una volta il silenzio come risposta. “Lo prenderò come un sì.”
Koujaku non disse nulla per qualche secondo e Noiz quasi pensò, sperò che l’interrogatorio fosse finito, ma l’uomo riprese a parlare, misurando con una certa cura le proprie parole, questa volta.
“Io penso di sapere perché non ti piacciono i posti silenziosi.”
“Ah, sì? Allora illuminami, o grande strizzacervelli incompreso!” sbottò all’improvviso Noiz, parlando a denti stretti, furioso più con sé stesso che con Koujaku, perché se c’era una cosa che non era mai riuscito a capire era la motivazione dietro le proprie azioni e reazioni, mentre quest’uomo ce l’aveva fatta in poco tempo.
La cosa non faceva altro che ricordargli che non aveva un briciolo sensibilità, in nessun senso; non faceva altro che ricordargli che era anormale e sbagliato.
“A te non piace la solitudine, quindi cerchi di soffocare il silenzio con dei suoni; può essere la nostra voce, come adesso, ma anche solo i ronzii e i segnali acustici di tutto il materiale tecnologico che usi per il tuo lavoro. E’ più facile fingere di non essere soli, se c’è del rumore attorno a noi.”
Noiz si sentì strozzare, e si portò una mano alla gola, come se il gesto potesse costringerla a riaprirsi, ma proprio quando sentiva di poter nuovamente parlare, insultare, negare, qualsiasi cosa pur di far smettere Koujaku, lui parlò di nuovo, ammutolendolo.
“Non ti devi vergognare, moccioso. Anche mia madre era come te.”
C’era una dolcezza nella sua voce che Noiz non aveva mai sentito, neanche quelle poche volte in cui aveva parlato di Aoba; era quasi inudibile, intrisa di una malinconia intensa che, per qualche motivo, gli faceva spuntare una strana pressione al centro del petto.
Non sapeva cosa fosse, e la cosa lo faceva sentire immensamente piccolo.
“…Non capisco.” Ammise Noiz dopo un quantitativo imprecisato di tempo. “Non capisco cosa vuoi dire con ‘stare da soli’ ed ‘essere da soli’ e qual è la differenza fra le due cose, e non capisco te. Mi irriti.”
Il suono di una risata sommessa giunse dalla fessura, e la pressione nel petto di Noiz tornò.
“Davvero non capisci?” in quelle parole c’era una lieve, quasi impercettibile nota di qualcosa a cui Noiz non sapeva dare un nome preciso, come un miscuglio di preoccupazione, incredulità e… tenerezza…? “Non è un concetto difficile, ci puoi arrivare anche tu. ‘Stare da soli’ vuol dire non avere fisicamente persone intorno, il che piace ad alcuni, come a te, almeno da quello che ho capito; ‘essere da soli’ vuol dire non avere nessuno intorno a livello emotivo, e questo non piace a nessuno. Ci sei?”
Noiz fece un verso affermativo, ma non parlo più molto per il resto della giornata; il peso di quelle parole, tutto ciò che esse implicavano e i possibili significati delle reazioni che il suo corpo aveva avuto gravavano su di lui in modo così reale da riuscire quasi a percepirne la pressione, ma, in qualche modo, se ripensava al fatto che Koujaku si era offerto di spiegare tutte quelle cose solo per lui, era come se il peso diminuisse.
Che cosa curiosa…

Giorno 69
Il sessantanovesimo giorno, Noiz aveva coinvolto Koujaku (con qualche difficoltà e insulto, in realtà) in un gioco di domande e risposte.
“Dobbiamo proprio?” si lamentò il maggiore dei due, in un tono decisamente esasperato.
“Hai di meglio da fare?” lo pungolò Noiz.
“…”
“Come pensavo.” Il ragazzo ghignò soddisfatto, godendosi la vittoria. “Quanti anni hai? E non mentire per fingerti più giovane, potrei semplicemente fare ricerche per conto mio e scoprire la verità.”
“Che razza di domanda-”
“Rispondi.”
“Ugh… Ventisette.” Noz poteva quasi immaginarselo che si premeva la mano contro la fronte, e la cosa lo divertiva più del gioco in sé. “Quanti piercing hai?”
“Se non sbaglio dovrebbero essere circa trentacinque.” Rispose con molta calma Noiz.
“…Hai qualche problema?!”
Era una banale esclamazione, al massimo una battuta innocente, Koujaku non poteva sapere, ma Noiz sentì comunque la sua mascella serrarsi.
“Attieniti al tuo turno.” Gli disse a denti stretti. “Perché fai il parrucchiere? Un lavoro simile non sembra coincidere bene con Ribsteez.”
“Ho… Sempre amato prendermi cura dei capelli delle donne.” Rispose Koujaku in modo stringato, come se quelle parole gli fossero state strappate. “Ce l’hai una famiglia?”
Noiz si sentì mancare l’aria per un attimo e guardò in basso.
Ormai Koujaku doveva aver intuito il vero gioco a cui stava giocando, ed evidentemente anche lui doveva provare il desiderio di fare qualcosa di simile da qualche tempo.
Vivevano letteralmente l’uno a fianco all’altro da almeno due mesi ormai, solo con la rispettiva compagnia, quindi era normale che l’uno volesse saperne di più dell’altro e viceversa, ma le loro personalità e il loro passato rendevano la cosa difficile, anche se questo non era che il problema minore: la verità è che, in qualche modo, avevano capito.
Avevano intuito che entrambi avevano dei segreti sporchi e oscuri rinchiusi nel profondo delle rispettive teste, e che determinate tematiche erano delicate abbastanza da poter portare ad essi; e, così, eccoli qui: a tastare il terreno con cautela, partendo con sciocchezze per arrivare alle cose che volevano davvero sapere, seppur mascherando le domande affinché non fossero troppo esplicite.
Era un gioco rischioso, ma il fatto che Koujaku lo stesse seguendo e vi stesse partecipando attivamente lo riempiva di uno strano senso di anticipazione, proprio come faceva l’adrenalina durante i match di Rhyme.
“Sì, ma è rimasta in Germania.” Rispose Noiz. “Perché tenti di nascondere il tatuaggio che hai sul petto e, suppongo da quella specie di ciuffo che ti ritrovi, in faccia?”
“…E tu che ne sai?” il tono di Koujaku era cambiato all’improvviso, rendendo la sua voce simile al ringhio sordo di un animale che digrigna i denti per non mostrare la paura.
“Attieniti al tuo turno. Comunque dal tuo kimono si riescono a vedere degli sbaffi neri.” Spiego con tono falsamente disinteressato Noiz. “Risposta?”
“Lo detesto.” Fu l’asciutto responso. “Perché non vuoi essere toccato? Il primo giorno che siamo arrivati in questo posto sembravi pronto a mordermi per averti scosso.”
Noiz non poteva rispondere a questo.
Non poteva semplicemente dirgli che odiava ricordare che tutto ciò che poteva trarre da un contatto fisico di qualsiasi genere era solo della misera pressione, a volte così debole da essere percepita a malapena.
Non poteva dirgli che la sua malattia gli avrebbe per sempre impedito di conoscere il calore e la morbidezza della pelle di qualcun altro o il dolore di un morso.
Non era ancora pronto e, si scoprì a pensare con sgomento, il pensiero di una reazione negativa da parte di Koujaku lo soffocava, quindi mentì.
“Perché preferisco essere io a toccare. Se sai ciò che intendo.” Rispose nel tono più ammiccante che riuscì a tirare fuori, rilassandosi nel sentire un familiare sospiro esasperato, salvo poi irrigidirsi nuovamente quando una domanda che lo aveva assillato nei giorni precedenti tornò a galla nella sua mente. “…Sei innamorato di Aoba?”
“…Cosa?”
Calò un silenzio glaciale nella stanza, rotto solo dai ronzii della telecamera, fino a che Noiz non si scoprì ad aprire la bocca e dire, in un tono che, così come la pressione costringente che, mista al senso di anticipazione, gli stava avvolgendo la gola, il costato e lo stomaco, non sembrava quasi appartenergli:
“Guarda che puoi dirmelo”
Seguì un altro breve silenzio, poi un sospiro stanco.
“La verità è che… Non lo so. E’ importante per me, in passato il suo ricordo mi ha…” un rumore di deglutizione interruppe la frase. “…impedito di fare una cosa stupido, è mio amico, o almeno lo era, ma… non so. Non lo so. Probabilmente no.”
La costrizione abbandonò immediatamente tutte le parti del corpo di Noiz che aveva avvolto, e lui si ritrovò a provare un sollievo che non riconosceva, ma le cui origini, in qualche modo, intuiva.
E la cosa lo lasciò senza parole e confuso, almeno fino a che Koujaku non parlò, o, meglio, borbottò di nuovo.
“Vorrei strangolarti per avermi fatto fare questo gioco…”
Noiz sogghignò e si accoccolò contro il muro, avvicinando le labbra alla crepa e abbassando la voce fino a raggiungere una nota sufficientemente seducente.
“E poi che mi faresti?”
“Noiz.”
“E’ il mio turno.”
Noiz.”

Giorno  81
L’ottantunesimo giorno, Noiz giunse ad una conclusione che lo scosse nel profondo, lasciandolo a fissarsi le mani per qualche tempo mentre pensava a quale potesse essere il giusto abbinamento di parole da usare con Koujaku a riguardo, salvo poi decidere di uscirsene con una frase atta a tastare il terreno:
“Perché continui a parlare con me?” domandò.
“Ah?” fu la reazione confusa del suo interlocutore. “Te l’ho detto, c’è bisogno di parlare con qualcuno, o-”
“Palle. Ci sono migliaia di cose che puoi fare quando sei rinchiuso da solo in una stanza, oltre a parlare con qualcuno. Rispondi sinceramente.”
Dopo un silenzio sorprendentemente teso e pesante, per quanto breve, Koujaku sospirò.
“E va bene, allora.” Disse. “All’inizio la ragione per cui ho cominciato a parlare con te era quella, ma adesso, come dire… Non sei un cattivo ragazzo, anzi; in effetti, potrei quasi dire che tu sia meglio di altra gente che conosco. Ma non esaltarti troppo, ora.”
Noiz non disse nulla per diversi secondi, troppo impegnato a cercare di dominare il modo in cui percepiva il cuore pulsargli con insistenza e una velocità anormale nel petto e il frullio caotico di pensieri, parole e immagini che quelle poche frasi avevano provocato nella sua testa, lasciandolo con un vago senso di stordimento.
“Al momento non hai abbastanza informazioni per dare giudizi su di me, fidati. Però…” Disse alla fine di quel breve silenzio, con un tono così lento da far pensare che stesse giungendo ad una conclusione e che stesse parlando più a sé stesso che non ad altri. “… Però, un giorno, potrei fornirtele io stesso, quelle informazioni.”
“Neanche tu sai tutto quello che c’è da sapere su di me…” ammise Koujaku, e nel suo tono c’era un’evidente amarezza. “Ma hai ragione. Un giorno, anche io potrei dirti tutta la verità; prendilo come uno scambio di informazioni, se ti mette più a tuo agio. Ma non sono più sicuro del fatto che sapere certe cose potrebbe cambiare il nostro rapporto, a questo punto.”
E, per la seconda volta in quella giornata, Noiz si ritrovò preda di uno scombuglio che, per un motivo che ormai non poteva più disconoscere, gli prese il torace e la mente.

Giorno 97

Il novantasettesimo giorno, fu Noiz che si ritrovò a sbuffare per il comportamento del suo quasi-compagno di cella, il quale sembrava aver raggiunto il punto di rottura e aveva pertanto passato gli ultimi due giorni in preda all’ansia più totale.
“Vecchio, smettila. Riesco a sentire quelle rotelle arrugginite girare fin da qui.” Gli disse, guardando verso la crepa con sufficienza.
“Io non capisco come tu possa essere così calmo tutto il tempo mentre a me sembra di impazzire!” esclamò Koujaku con una voce piena di esasperazione, preoccupazione e nervosismo. “Potremmo non uscire mai di qua e tu rimani calmo!”
“Questo perché non tutti sono teatrali come te.” Rispose Noiz, incrociando le braccia dietro alla testa. “Comunque non bruciare quelle poche cellule cerebrali che ti sono rimaste, troverò un modo per tirarci fuori di qui entrambi.”
Ciò che Noiz non fu in grado di aggiungere era che lo avrebbe fatto perché ormai gli era difficile immaginare una vita di cui Koujaku non era parte, ma si disse che, a tempo debito, avrebbe rivelato tutto.
“E come penseresti di farlo?” chiese quest’ultimo con scetticismo.
“Non lo so ancora, ma mi inventerò qualcosa.” Noiz si fermò un attimo, tirandosi il piercing sulla lingua con i denti, per poi aggiungere, in un tono di voce molto più basso: “Te lo prometto.”
Seguì un breve silenzio, che fu ben presto rotto da una risata sommessa da parte di Koujaku.
“Mi sa che alla fine stai impazzendo anche tu.”
“Forse, ma guarda il lato positivo: almeno stiamo impazzendo insieme.”


Giorno 110

Il centodecimo giorno, quando ormai si era fatta notte, Noiz decise di rischiare quel poco che aveva e parlò.
“Vecchio?” chiamò con il tono più casuale possibile, sapendo che l’uomo dall’altra parte del muro avrebbe comunque risposto malgrado l’ora.
“Cos’hai, moccioso?” giunse infatti l’immancabile risposta.
“Mi piaci.”
Niente fronzoli o inutili prefazioni, solo la pura e semplice verità dei fatti, come d’altronde era nel suo stile.
Koujaku non disse nulla per parecchi secondi, e a Noiz sembrò quasi di sentirlo boccheggiare; era divertente da immaginare.
“…Come…?” chiese Koujaku con una voce così piccola e confusa, quasi scandalizzata, che Noiz non poté fare a meno di sghignazzare.
“E’ molto semplice, puoi arrivarci anche tu, se ti impegni: sei una testa dura? Sì. Hai reazioni esagerate in continuazione? Oh, sì. Ma mi dispiace parlare con te? No. Ti sei mai dimostrato disinteressato quando avevo qualcosa da dire? No.  Mi hai dato più di quanto chiunque altro abbia fatto mai? Sì.” Disse con molta semplicità Noiz dopo essersi ricomposto. “E tu? Cos’hai da dire a riguardo?”
Il silenzio dall’altra parte del muro continuò, ma il ragazzo non se ne preoccupò, intuendo che lo shock dovesse essere ancora forte, così si limitò ad avvicinare il viso un po’ di più alla crepa, accoccolandosi contro il muro e abbassando le palpebre.
“Non c’è bisogno che tu me lo dica ora, sai?” mormorò, e la sua voce suonava diversa dal solito, più dolce, persino alle sue stesse orecchie. “Il tempo qui di sicuro non ci manca, dopotutto.”
 
I cannot meet you again, be by your side
So take me away
I stay with you
Even when I felt the pain
I held to the unfulfilled desire
And I want to hear your heart beating
Laying beside you
And glad you opened my black door

I stay with you
Even I was crushed and scattered splendidly


Giorno 111
 Il cent’undicesimo giorno, quando Noiz si svegliò, la crepa era stata chiusa e Koujaku non rispondeva a nessun richiamo, colpi sul muro o urla che fossero.
C’erano soltanto lui e quel punto di muro di fronte a cui si era seduto, perfettamente intatto e più chiaro del resto.
Da fuori, Noiz era perfettamente immobile, quasi si fosse congelato sul posto, ma dentro era come se avesse di nuovo sette anni, quando quella mattina si era svegliato e aveva scoperto per la prima volta che la porta della sua camera era stata chiusa a chiave dall’esterno, lasciandolo lì dentro a sbattere i pugni e, nel giro di pochi secondi, anche tutto il resto del corpo contro la porta, spaventato, piangente e solo.
Koujaku non c’era più.
L’avevano portato via.
Era di nuovo solo.
Noiz non seppe mai quanto tempo rimase lì, fermo e con la fronte poggiata ad una parete, potevano essere secondi, minuti, ore, non aveva importanza per lui, fatto sta che a distoglierlo dopo quel quantitativo indeterminato di tempo fu una risata vellutata e mielosa proveniente dalla porta della cella.
Il ragazzo si alzò e si fiondò contro di essa, pronto a staccare la lingua a chiunque si fosse permesso di ridere, se necessario a farlo tacere, ma ciò che vide lo congelò sul posto per la seconda volta quel giorno.
La persona che lo fissava sorridendo attraverso la finestrella era completamente bianca, dai capelli, alla pelle, persino le iridi sembravano aver perso i propri pigmenti; la cosa più inquietante, tuttavia, era che, malgrado quell’assenza di colore, i lineamenti di Aoba erano ancora perfettamente riconoscibili.
“Ciao, Noiz.” lo salutò affabilmente, senza mai smettere di sorridere.
“Dov’è Koujaku?” chiese Noiz in un sibilo, tremante di rabbia e stringendo i pugni contro il metallo della porta.
Aoba scrollò le spalle e offrì al prigioniero un sorriso di scuse e uno sguardo beffardo.
“Mah, qua in giro, da qualche parte.” Disse con un gesto vago della mano, prima che una nota tagliente non gli sollevasse ancora di più gli angoli della bocca. “Ti manca, vero? Avevo capito sin dal primo giorno che sareste stati divertenti, voi due. Vi sareste dovuti vedere, eravate semplicemente adorabili!”
“Tu come-” cominciò Noiz, per poi sentire le parole morirgli in gola mentre la realizzazione lo colpiva come una secchiata di acqua gelida.
Questo era stato tutto un piano di quella versione corrotta e incolore di Aoba.
La cella solitaria, la crepa, la telecamera… Tutti i tasselli stavano trovando il loro posto nel puzzle ad una velocità impressionante, mentre quella risata melliflua suonava nuovamente nella stanza con rinnovato vigore.
Noiz diede un pugno alla porta, facendo vibrare il pesante acciaio, e cominciò ad urlare in un miscuglio incomprensibile di giapponese e tedesco contro quella cosa, che, sorridente, aveva già cominciato ad incamminarsi lungo il corridoio, accompagnata da quella cacofonia.
 
The heart was closed deeply
The tears flow shiningly
Feel your noise, feel your noise
The caught voice is crying
This pain is alive proof
Falling down, falling down

When you held my hand, you were shy
And I'd spend the end with you


Giorno 116
Il centosedicesimo giorno, c’erano cento e tre segni sul muro di Noiz, sessantasei lineette dritte, trentadue croci e cinque cerchi vuoti.
Non sapeva cosa gli stesse succedendo; lo intuiva, in qualche modo, eppure non riusciva ancora ad aggrapparsi al concetto vero e proprio.
Sapeva solo di avere una sensazione opprimente al centro del petto, alla bocca dello stomaco e lungo tutta la trachea, facendolo sentire come se qualcuno lo stesse schiacciando e strangolando allo stesso tempo; si sentiva gli arti pesanti, non aveva voglia di mangiare e faceva fatica a dormire, eppure questo era il minimo: era nella sua testa che il peggio stava avendo luogo.
Non passava un singolo giorno senza che il suo cervello lavorasse fino allo sfinimento, alcune volte per provare a identificare ciò che gli stava succedendo, altre per trovare un modo di uscire da quel posto, ma quasi ogni minuto era speso a pensare a Koujaku, e questa era una costante.
E, per quanto solo pochi giorni prima lo avrebbe negato fino alla morte, lo voleva indietro.
Lui era la causa di tutto ciò che stava passando, di ogni singolo pensiero martellante e di ogni singola sensazione aliena all’interno del suo corpo, ma era anche la soluzione, Noiz lo sapeva, anche se non c’erano prove a riguardo, anche se farlo andava contro tutto ciò che era stato fino a poco tempo prima; lo sentiva e basta.
Lui sarebbe stato in grado di spiegargli ciascuna di quelle cose, gli avrebbe svelato ogni segreto di quelle emozioni che non riusciva a capire e sarebbero stati insieme; lui non lo avrebbe abbandonato come il resto del mondo, perché lui non era come il resto del mondo.
Lui era diverso, come un piccolo cosmo a parte, così pieno di emozioni e contraddizioni insensate e semplicemente così umane che non c’era da sorprendersi se quell’uomo aveva catturato l’attenzione di Noiz sin dal primo istante, malgrado quest’ultimo lo realizzasse solo ora.
Koujaku si era insinuato in modo lento e inesorabile nella sua testa e in ogni fibra del suo corpo, lasciandolo stordito e speranzoso, con le mani tese verso un mondo che stavolta non lo avrebbe abbandonato.
E poi lo avevano portato via, lontano da lui, chissà dove.
Chissà se ancora in vita.
Il senso di oppressione che sentiva all’addome aumentò, facendo piegare Noiz in avanti con un conato del tutto inutile, vista la carenza di cibo nel suo stomaco, ma ugualmente reale.
Odiava quello che stava succedendo.
Odiava le reazioni del suo corpo, odiava quella prigionia, odiava quella stupida cella e, soprattutto, odiava quella cosa che gli aveva strappato Koujaku.
Sbatté il pugno contro il muro una, due, tre, forse anche cento volte, in quel momento non si curava della possibilità di rompersi una mano; tanto, si diceva, non lo avrebbe neanche sentito.
Tuttavia, se lo avesse fatto, allora avrebbe avuto ancora meno possibilità di uscire da quel posto, quindi si decise a fermarsi, guardando con sufficienza le nocche che si erano escoriate nei punti non protetti dalle bende e che ora erano dunque ricoperte di sangue.
E fu in quel preciso istante che gli venne un’idea.
 
You cannot be touched, be by my side
If you're bleeding, I want to taste the blood
So I can touch you in my way

You stay with me
Even when you could not hear anything
There's a hole in the corner of my heart
That can only be filled by your noise

You held to the unfulfilled wish
Touch your blood, touch your blood
Bring back soul of your affection

You stay with me
Even you were crushed and scattered splendidly
Hold your scars, hold your scars
Cast a soul in my direction
Feel your noise, feel your noise


Giorno 119

Il centodiciannovesimo giorno, Noiz mise in atto il suo piano.
Gli ci erano voluti alcuni giorni in cui, mancando il sole come riferimento per via della posizione sotterranea delle prigioni, non aveva fatto altro che contare a mente per riuscire a calcolare a che orari le guardie erano solite passare per portargli il cibo, giorni in cui aveva anche deciso le modalità di fuga nel dettaglio.
Aveva una possibilità sola, lo sapeva, ma ne valeva la pena.
Quando aveva calcolato che mancassero poco più di cinque minuti all’arrivo della guardia addetta alla cena, si era sdraiato sul letto, levandosi la camicia a maniche corte e posizionandosi in modo tale da dare le spalle alla telecamera; a questo punto, si era portato l’avambraccio al mento e vi aveva piantato uno dei suoi piercing, aprendo una ferita a cui aveva immediatamente premuto le labbra.
Poco dopo, prevedibilmente, era arrivata la guardia, che, al solito, aveva dato un colpo alla porta prima di aprire la finestrella per il cibo, segnale al quale Noiz si era riabbassato la manica e aveva cominciato a tossire nel modo più rumoroso e teatrale possibile; la guardia, nel sentire quei rumori, aveva aperto la finestrella più alta per controllare cosa stesse succedendo, trovandosi di fronte il prigioniero che tossiva, con la bocca e il mento grondanti sangue.
Un lampo di allarme era passato per gli dell’uomo occhi, e ben presto la porta della cella era stata aperta; a quel punto, Noiz non aveva sprecato un solo secondo: era scattato verso la guardia e, sfruttando l’effetto sorpresa, le aveva sbattuto la testa contro il muro con abbastanza forza da farle perdere conoscenza, poi aveva gettato la camicia sulla telecamera per non far vedere da che parte sarebbe fuggito, aveva rubato il mazzo di chiavi della guardia ed era corso fuori dalla cella.
Ora stava correndo, cercando disperatamente dove potessero aver nascosto Koujaku prima che le guardie avessero l’occasione di intercettarlo, anche se quello era un pensiero secondario, ormai.
Quello che contava era trovare Koujaku, era ricongiungersi a lui e assicurarsi che tutto sarebbe andato bene-
Noiz si fermò di scatto, girando la testa nella direzione da cui aveva sentito provenire un rumore sommesso e trovando una cella tradizionale, attraverso le cui sbarre riusciva a intravedere una sagoma a terra.
Si avvicinò cautamente e guardò dentro, sentendo il respiro bloccarglisi in gola nel riconoscere quella figura e provando quindi a mettere mano alle chiavi il più velocemente possibile, o, almeno, quanto più velocemente il tremolio che gli aveva preso le dita gli avrebbe concesso.
La porta si aprì stridendo, permettendo a Noiz di fare qualche  passo all’interno della cella e verso la figura.
“Vecchio?” chiamò, coprendosi bocca e naso con la mano quando un pungente odore di sudore e aria stagnante gli raggiunse le narici.
Era successo qualcosa a Koujaku, ora che i suoi occhi si erano abituati alla penombra poteva vederlo con chiarezza: era seduto approssimativamente sui talloni, ma con il petto appoggiato contro il pavimento, esibendo così non solo un grossolano paio di manette metalliche intorno ai suoi polsi, ma anche un tatuaggio di dimensioni impressionanti che gli copriva tutta la schiena, allungandosi fin sul braccio sinistro, e che rappresentava fiori di un rosso incredibilmente acceso, quasi gli fossero stati incisi nella carne viva; anche i suoi capelli, terribilmente scompigliati e sparsi sulle sue spalle tese, avevano assunto una tinta scarlatta.
Noiz sbatté le palpebre e deglutì, avvicinandosi ulteriormente e contro ogni buonsenso, diviso fra la gioia intensa di rivedere Koujaku e l’odio per chi lo aveva conciato così che gli contorcevano lo stomaco e la forte sensazione che  qualcosa fosse profondamente sbagliato che si agitava disperata in uno dei recessi della sua mente.
“Koujaku…?” provò di nuovo, ricevendo un ringhio sordo e minaccioso in risposta e, ancora una volta, non curandosene.
Il ragazzo, ignorando ogni segnale d’allarme e ogni norma di sopravvivenza, si inginocchiò a fianco di quello che ormai ricordava più un animale selvatico che un uomo e provò ad allungare una mano.
“Cosa ti ha fatto…?” sussurrò con rabbia e disgusto malcelati. “Cosa ti ha fatto Aoba?”
In quel preciso istante sembrò che qualcosa fosse scattato in Koujaku, che, con uno slancio fulmineo e un ruggito rabbioso, si alzò sulle ginocchia e affondò i suoi denti stranamente acuminati nella spalla di Noiz con abbastanza veemenza da buttarlo a terra.
Come la sua schiena entrò in collisione con il pavimento, il ragazzo sentì tutta l’aria abbandonargli i polmoni per un istante, mentre Koujaku, nella sua furia cieca, allentava la presa, solo per mordere con ancora più forza e ad un’angolatura leggermente diversa l’istante dopo, in una morsa che doveva essere davvero dolorosa.
In circostanze normali, Noiz avrebbe cominciato a scalciare e provare di liberarsi, pronto a lottare e difendersi, ma tutto ciò che fece fu cominciare a sghignazzare, senza alzare un dito.
Forse era perché quello che gli stava succedendo non gli poteva importare di meno, vista la sua insensibilità al dolore, forse perché non gli importava di morire, soprattutto se era l’uomo che amava ad ucciderlo.
O forse, più realisticamente, la sua ragione compromessa non aveva avuto la forza di impedire alla sua psiche sciupata dallo stress e dalla prigionia di collegare la gioia che aveva provato nel vedere che Koujaku era ancora vivo e illeso, seppur ridotto ad uno stato ferale, al morso che stava ricevendo, e il morso stesso a questa nuova versione dell’uomo, con il tutto che seguiva un cerchio di causa-effetto dalla logica contorta, ma più che lecita, se ti trovavi nello stato di Noiz.
Quindi il ragazzo non reagì minimamente quando Koujaku strinse ulteriormente mascella intorno alla sua spalla, facendo scricchiolare in modo raccapricciante le ossa, né quando, dopo aver aggiustato nuovamente la propria posizione, finì col premergli il mento contro la base del collo abbastanza forte da impedirgli di respirare correttamente; si limito a sorridere fra i colpi di tosse e le macchie scure che gli stavano cominciando a danzare di fronte agli occhi, felice che Koujaku fosse vivo e vegeto.
I cannot meet you again, be by your side
So take me away
I stay with you
Even when I felt the pain
I held to the unfulfilled desire
And I want to hear your heart beating
Laying beside you
And glad you opened my black door

I stay with you
Only even I was crushed and scattered splendidly
This pain is alive proof


Giorno 120
Quando, all’alba del centoventesimo giorno, Aoba andò a controllare come stesse il suo cucciolo, non poté fare a meno di schioccare la lingua contro i denti e accigliarsi di fronte alla scena patetica che si ritrovò davanti: Koujaku stava uggiolando, intento a dare colpetti con la testa al corpo immobile e insanguinato che aveva a fianco, sfregandogli il naso contro la guancia e leccando la ferita che gli dilaniava la spalla, come se potesse rimediare a ciò che aveva fatto e svegliarlo.
Aoba sbuffò irritato ed entrò nella cella sbattendo la porta, ordinando poi al suo animaletto di immobilizzarsi prima ancora che potesse pensare di attaccarlo.
“Stupido!” Gli sibilò contro una volta essergli arrivato davanti, per poi dargli un calcio che lo allontanò dal corpo steso a terra in una pozza del suo stesso sangue. “Non hai il diritto di rompere i miei giocattoli, lo sai!”
Koujaku gli ringhiò contro, tentando in tutti i modi di avvicinarsi, ma fallendo miseramente contro lo Scrap che lo teneva inchiodato a terra. Aoba, intanto, ignorando apertamente il suo cucciolo, fissò con sufficienza Noiz, scuotendo la testa.
“Sapevo che eri un ragazzino testardo, ma non pensavo anche suicida…” cominciò, salvo poi interrompersi e alzare un sopracciglio, meravigliato, nel notare che c’era qualcosa che non andava: Noiz aveva perso molto sangue, ma non abbastanza da essere morto con certezza, quasi come la sua spalla fosse stata lacerata dalle zanne di Koujaku sotto anestesia, senza contare che stava sorridendo.
Il ragazzo candido si chinò a fianco del corpo inerte e stese una mano verso il suo naso, sogghignando e abbassando le palpebre non appena sentì un debole soffio d’aria sfiorargli i polpastrelli.
“Be’, questo è molto interessante…” mormorò, carezzando con una delicatezza falsamente premurosa lo zigomo di Noiz usando l’indice e ignorando nuovamente i ringhi e i ruggiti di Koujaku. “Sei solo in coma, tesoro? Certo che sei un tipo resistente, non vedo l’ora di scoprire il perché. Sembri anche nel mezzo di un bel sogno, sarebbe un peccato svegliarti…”
***
Vuoi sentirti meglio?_
-Sì
 Sì
Vuoi rinunciare?_
-Sì
 Sì
Vuoi riposare?_
-Sì
 Sì
Vuoi dormire?_
-Sì
 Sì
Posso non svegliarmi?_
-Sì
 Sì
Posso smettere di provare?_
-Sì
 Sì
Posso smettere ora?_
 Sì
-…No
Perché?_
-Perché ho fatto una promessa
 Ho cambiato idea
Perché?_
-Perché voglio poter stare con lui. Per sempre.
 Perché voglio che lui sia parte della mia vita.

 
Era buio.
Un profondo oblio nero come la pece, senza una singola traccia di colore o di luce.
O almeno così era all’inizio.
Noiz chiuse gli occhi, e come li riaprì notò immediatamente due cose: la prima fu il colore rosso, la seconda una sensazione quasi aliena al suo corpo.
Dolore.
Stava provando dolore fisico, ed era infinitamente migliore di ciò che aveva provato negli ultimi giorni.
Un sorriso gli piegò le labbra e dei singulti ritmici gli scossero le spalle, sciogliendosi poi in una risata ovattata e quasi ansante, che faticava a passare per la sua gola riarsa.
Un ringhio sordo proveniente da sopra di lui lo riscosse e fece allargare il suo sorriso, riportando all’attenzione di Noiz la prima cosa che aveva notato e di cui ora poteva constatare l’origine: il colore rosso, avvinghiato agli occhi, ai capelli e al tatuaggio di Koujaku.
E, naturalmente, al sangue che colava sui loro corpi nudi.
L’uomo era semi-sdraiato sopra di lui e, nel punto in cui i loro addomi e le loro gambe si toccavano, una ragnatela sempre più ampia e profonda di squarci si stava aprendo sulla loro pelle, arrivando a intaccare la carne.
“Koujaku…” mormorò Noiz, allungando una mano e appoggiandola sul viso dell’uomo che amava, facendo aprire nuovi tagli e ricevendo un ringhio più rumoroso in risposta, prima che Koujaku girasse la testa e affondasse i denti nel polso del ragazzo fin quasi a toccare l’osso, dilaniandoli ulteriormente entrambi.
Noiz sibilò per il dolore e rise nel guardare i rigagnoli di sangue che gli colavano lungo l’avambraccio, creando una piccola pozza nell’incavo del gomito che ben presto strabordò, alimentando con le sue dense gocce quella sempre più ampia che si stava andando a creare sotto di loro.
Koujaku smise di morderlo e leccò il punto leso, non facendo altro che tagliarsi la lingua e peggiorare il danno fatto all’arto del ragazzo, che, in contrapposizione al grugnito irritato della belva umana, rilasciò un sospiro tremolante.
Era questo quello che aveva voluto .
Aveva voluto il dolore e aveva voluto Koujaku.
Dolore e Koujaku, Koujaku e dolore.
E ora, li aveva entrambi.
Noiz scoppiò a ridere e gettò le braccia al collo dell’uomo sopra di lui, beandosi del gocciolio che aveva sostituito il silenzio intorno a loro e dei muscoli che si strappavano sotto le carezze di artigli e zanne, ripetendo il suo nome come un mantra e rabbrividendo ogni volta che la loro pelle si toccava con più forza, aprendo nuovi squarci e lacerando ulteriormente quelli vecchi, fino a che i loro corpi non furono ridotti ad un ammasso appiccicoso di arti aggrovigliati, sanguinolenti e grondanti.
“Te l’avevo detto…” mormorò Noiz contro le labbra spaccate quanto le sue di Koujaku, sentendo il sapore del loro sangue mescolarsi sulla sua lingua. “Te l’avevo detto che ci avrei fatti uscire di là…”
E rise di nuovo, perché adesso né celle, né muri, né quella versione incolore e corrotta di Aoba avrebbero mai più potuto disturbarli e separarli: c’erano solo lui, Koujaku e il dolore, e d’ora in poi sarebbe stato questo il loro mondo.
Per tutta l’eternità.





 
Falling down, falling down
Stay with you
Let me steal you for my life time
Stay with me





 
  
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