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Autore: Chloe R Pendragon    19/07/2015    2 recensioni
Dal testo: Nonostante fosse ancora un bambino, Demien non avrebbe mai dimenticato gli orrori della bat-taglia di Fashir: la razza umana, alleatasi con i nani, aveva mostrato tutta la sua ferocia, devastando i villaggi delle fate e sterminando tutti coloro che vi abitavano. I cadaveri dei caduti e dei prigionieri erano stati impalati e macabramente esposti al limitare della pianura in cui si erano svolti i combat-timenti, quasi fossero motivo di orgoglio per quei mostri senz’anima. Era stato proprio a causa di quella visione che l’innocenza del giovane era stata corrotta, trasformandosi in qualcosa di ben più sinistro...
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Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Il volto della morte

 
Demien osservava il sole morire all’orizzonte, tingendo il cielo di una moltitudine di colori: era uno spettacolo che lo aveva sempre affascinato, fin da quando era piccolo. A quei tempi, si arrampicava sulle sequoie del bosco di Lavreath insieme a sua sorella Luvien, così da poter godere di quella visione in tutto il suo splendore. Il ricordo di quei giorni lontani scosse le sue membra come una raffica di vento, riaprendo una ferita che aveva risanato faticosamente; erano passati dieci anni da allora, due lunghissimi lustri durante i quali il mondo era stato sconvolto da innumerevoli guerre.
Nonostante fosse ancora un bambino, Demien non avrebbe mai dimenticato gli orrori della battaglia di Fashir: la razza umana, alleatasi con i nani, aveva mostrato tutta la sua ferocia, devastando i villaggi delle fate e sterminando tutti coloro che vi abitavano. I cadaveri dei caduti e dei prigionieri erano stati impalati e macabramente esposti al limitare della pianura in cui si erano svolti i combattimenti, quasi fossero motivo di orgoglio per quei mostri senz’anima. Era stato proprio a causa di quella visione che l’innocenza del giovane era stata corrotta, trasformandosi in qualcosa di ben più sinistro...
Scuotendo vigorosamente la testa, il ragazzo scacciò via quelle inopportune reminiscenze, tornando a concentrarsi sul paesaggio che aveva di fronte: la luce del sole morente conferiva alla cittadella un aspetto spettrale, come se il sangue versato non fosse mai stato assorbito dalla terra. Vista dall’alto, la roccaforte appariva come una serie di cerchi concentrici che culminava nello sfarzoso palazzo del Governatore Terhador: attorno a esso si trovavano i meravigliosi Giardini Commemorativi, una piccola distesa di verde dalla quale si ergevano statue equestri del Comandante Balter, colui che aveva guidato il quarto battaglione nell’assedio dei villaggi delle fate. Dai Giardini si diramavano le principali vie della città, delimitate dalle residenze signorili, seguite dalle abitazioni dei ceti abbienti, fino a raggiungere il fiume Lockid, un piccolo corso d’acqua circolare che nasceva dalle profondità della Terra grazie a un antico incantesimo; superato il torrente, si trovava il cuore pulsante della città di Gandurth, caratterizzato da un agglomerato di botteghe, case sempre più diroccate, taverne e bordelli, finché non si giungeva alla prima cinta muraria. Oltre la fortificazione si trovavano gli appezzamenti di terreno destinati all’agricoltura e all’allevamento, insieme alle umili dimore di contadini e pastori, per poi terminare con gli imponenti bastioni; al di là di questi vi erano i resti della battaglia e, dalla parte opposta, il bosco di Lavreath, dove si trovava Demien.
Il ragazzo attese pazientemente che la città sprofondasse nell’oscurità per muoversi, il cappuccio del mantello nero come la notte calato sul volto pallido: sapeva di avere poco tempo a disposizione, perciò doveva muoversi in fretta o le sentinelle lo avrebbero scoperto. Uscito dal nascondiglio, si avviò spedito verso l’imponente muraglia, attento a non rivelare la sua presenza a occhi indiscreti. In meno di un minuto riuscì a raggiungere la monumentale fortificazione, così sfoderò da una tasca interna della tunica scarlatta un pugnale dalla lama ondulata, con la quale disegnò un pentacolo sulla parete granitica: per un istante il simbolo sembrò pulsare, facendo tremolare l’aria circostante, dopodiché scomparve nel nulla e Demien ne approfittò per attraversare il muro, poi riprese la sua silenziosa marcia.
Fino a quel momento, tutto era filato liscio, proprio come aveva previsto: gli allevatori si erano ritirati con le loro mandrie e i contadini si erano chiusi nelle piccole abitazioni per rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro, così poté attraversare tranquillamente i campi aperti senza farsi vedere. Giunto al confine con la città bassa, ripeté il rituale usato all’ingresso, grazie all’arma in argento e quarzo rutilato[i] che incanalava la potenza magica del pentacolo: fu così che nell’arco di dieci minuti raggiunse la città bassa, pochi secondi prima che il cambio della guardia fosse ultimato e le fortificazioni divenissero insuperabili. Senza perdere tempo a gongolare per il successo della prima fase del piano, Demien continuò la sua inesorabile marcia verso il palazzo del Governatore, determinato a compiere la sua missione.
In quegli ultimi mesi aveva studiato minuziosamente ogni vicolo e lasciato delle tracce pressoché impercettibili, se non si sapeva dove cercarle: grazie a quei segni, il giovane si orientò facilmente in quel dedalo di cunicoli e stradine, raggiungendo in un’ora e mezza la città alta. Appoggiandosi al muro di un edificio elegante, il ragazzo si prese qualche secondo per recuperare le energie e contemplare la bellezza di quei palazzi: nonostante l’oscurità della notte, i colori sgargianti delle pareti in marmo erano ben visibili, sembrava quasi che la tenue luce della luna ne esaltasse le sfumature più di quanto facessero i raggi solari. Ogni facciata era riccamente adornata, a partire dai portali, sopra i quali spiccavano frontoni particolareggiati, e dai balconi, decorati da festoni[ii] finemente scolpiti; alcune finestre erano abbellite da singolari lunette[iii], mentre tutte le pareti presentavano bassorilievi raffiguranti uomini illustri dei rispettivi casati di appartenenza, sopra i quali spiccavano gli stemmi delle famiglie residenti. Sulla sommità degli edifici, sfarzosi fastigi[iv] e doccioni bestiali troneggiavano sui palazzi, creando giochi di luci e ombre peculiari: per quanto ribrezzo potesse provare per gli uomini che risiedevano a Gandurth, Demien non poté negare il loro gusto estetico sopraffino.
Scosse nuovamente la testa, facendo ondeggiare quell’oscuro mantello come se fosse una tenda smossa dal vento: aveva recuperato le energie, per cui non c’era motivo per indugiare su quelle facezie, per quanto potessero essere affascinanti. Scostandosi dalla parete, riprese il suo cammino attraverso le vie secondarie, prestando attenzione a ogni suono sospetto. Impiegò un’altra ora, ma alla fine raggiunse i Giardini Commemorativi in tempo per sfuggire al controllo serrato delle guardie: mentre si scambiavano le zone di competenza, Demien poté muoversi furtivo tra le statue equestri che abbellivano quello sprazzo di natura come alberi di marmo, raggiungendo il portico del palazzo del Governatore Terhador con estrema facilità. Il ragazzo sorrise di fronte all’inettitudine delle sentinelle e all’eccessiva tracotanza della razza umana: una battaglia vinta, pur essendo stata cruenta, non li rendeva invincibili, possibile che non lo capissero?
Attese con impazienza che il soldato di ronda svoltasse l’angolo, dopodiché scattò in direzione opposta e seguì il contorno dello spigolo in alabastro della facciata principale. Il suo obiettivo era la terza finestra, quella delle cucine, che a quell’ora sarebbe stata sicuramente aperta per far prendere aria alla camera; era da mesi ormai che osservava minuziosamente ogni movimento delle sentinelle e della servitù, perciò sapeva esattamente come e quando muoversi senza correre rischi. S’insinuò all’interno dell’edificio con agilità felina, lasciandosi cadere sul pavimento in arenaria con un tonfo sordo e guardandosi intorno: proprio come aveva previsto, i cuochi si erano già allontanati dal locale, abbandonando i pentoloni ancora tiepidi e i piatti delle prime portate con qualche avanzo. La stanza era piuttosto spaziosa, segno che il Governatore era una buona forchetta: sul lato destro si trovavano il focolare e i ripiani di lavoro su cui erano adagiati gli utensili adoperati, mentre nella parete opposta vi erano le mensole colme di stoviglie di ogni forma e dimensione. Al centro della stanza, un imponente tavolo di legno mostrava i segni delle pietanze preparate: tracce del ripieno con cui era stato farcito un tacchino, croste di pane secco, gocce di olio e salse varie, nonché un bicchiere di vino rovesciato.
Pur essendo affamato, Demien si costrinse a ignorare quella moltitudine di odori e visioni tentatrici e avanzò incurante verso la porta che aveva di fronte, la mano sinistra stretta intorno all’elsa del pugnale in quarzo. Uscì con prudenza dalla stanza, guardandosi attorno per essere certo che non ci fosse nessuno, per poi puntare dritto di fronte a sé, dove lo attendevano le scale usate dalla servitù per portare i cibi caldi nella sala da pranzo senza passare attraverso la parte elegante del palazzo, quella ricca di arazzi e affreschi. Salì i gradini silenziosamente, i sensi all’erta per cogliere anche il minimo rumore, dopodiché sporse la testa sul corridoi del primo piano per accertarsi che fosse vuoto. Proprio come aveva previsto, non c’era anima viva, così svoltò a sinistra e raggiunse con pochi passi il muro che separava la sezione del palazzo abitata dalla servitù da quella riservata al Governatore e ai suoi ospiti.
Senza indugiare, Demien sfoderò il pugnale in quarzo e disegnò nell’aria un altro pentacolo, grazie al quale poté attraversare quella barriera come se fosse uno spettro. Anche l’altra parte dell’edificio era pressoché deserta, se non fosse stato per le guardie poste all’ingresso della camera da letto di Terhador. Il ragazzo ghignò per la semplicità con cui stava procedendo quell’ultimo incarico, rinfoderò la lama e la assicurò nella tasca da cui l’aveva estratta, per poi tirare fuori dal mantello un fazzoletto nero e un sacchetto misterioso; legatosi il pezzo di stoffa sul viso, prese una manciata di polvere di cianite[v] e soffiò in direzione dei soldati, i quali in poco tempo caddero in trance.
Con la strada ormai sgombra, il giovane intruso si avviò serenamente verso la camera del Governatore, muovendosi con disinvoltura per evitare di ridestare l’attenzione delle guardie: pur essendo perse nelle loro menti, se avessero notato qualcosa di sospetto avrebbero potuto tornare in sé e questo Demien non poteva permetterselo. Così li raggiunse con passo cadenzato e lasciò che loro si scostassero dall’ingresso per permettergli di entrare, per poi chiudersi la porta alle spalle. La stanza era esattamente come l’aveva immaginata: un imponente letto a baldacchino con fregi legnosi e lenzuola in seta sul lato destro, tende di velluto che celavano la grande finestra di fronte a sé, un’ampia scrivania in mogano piena di monili e suppellettili di grande valore e dubbia utilità sulla sinistra. Ciò che lo stupì fu la presenza di librerie e scaffali colmi di tomi, disposte affianco al talamo e allo scrittoio: non credeva che quel bifolco avesse questa propensione alla lettura, anche se magari li aveva compranti solo per boria e non per un reale interesse.
Per la terza volta nell’arco della serata, il ragazzo dovette riscuotersi dal flusso dei suoi pensieri e obbligarsi a proseguire nello sviluppo del piano, avviandosi verso il letto e nascondendosi sotto di esso: c’era troppa carne sul fuoco quella volta e non poteva fallire, lo doveva a Luvien. Aveva iniziato quell’attività per lei e ora che stava per tirarsi fuori non poteva sbagliare, specialmente perché in ballo c’erano l’anima di sua sorella e il riscatto di una razza quasi estinta. Mentre attendeva l’arrivo del Governatore, i ricordi si rincorsero nella sua mente, riportandolo al giorno in cui la sua vita era cambiata...
Aveva solo sei anni quando i villaggi delle fate erano stati attaccati dall’esercito alleato degli umani e dei nani: i primi anelavano alle prolifere terre della colonia di Tuluk, mentre i secondi ambivano alle gallerie sotterranee, piene di ferro e minerali preziosi per le loro proverbiali fucine. Così avevano dato il via alla spietata battaglia di Fashir, a causa della quale centinaia di migliaia di fate innocenti furono sterminate senza ritegno. Quando l’attacco si era spinto all’interno dei villaggi, il quieto vivere si era trasformato in un incubo spaventoso: grida di terrore si erano fuse con urla belluine, le falci che mietevano i campi erano state sostituite dalle spade che spezzavano le vite di innocenti, le risate dei bambini si erano tramutate in lacrime e vagiti. Tutto quel frastuono aveva ridestato il piccolo Demien, i lunghi capelli viola ancora arruffati e gli occhi azzurri impastati dal sonno, e lo aveva catapultato bruscamente alla realtà.
«Presto, fratellino, non c’è tempo da perdere! Scappiamo verso il bosco di Lavreath!» aveva esclamato Luvien, trascinandolo con sé fuori dalla loro capanna e attraverso il villaggio in fiamme. La chioma corvina della giovane fata gli aveva frustato ripetutamente il viso, ma nonostante ciò non era riuscita a celare il lago di sangue e i cadaveri disseminati lungo il tragitto: quelle immagini sarebbero rimaste per sempre impresse nella memoria del bambino, accelerando la sua trasformazione da creatura innocente a mostro senz’anima. Ciò che però diede il via a quel tragico cambiamento fu la freccia che aveva centrato sua sorella nel petto, spegnendo la sua vita al limitare della foresta: gocce scarlatte erano schizzate dalla mortale ferita, mentre la fata innocente aveva perso l’equilibrio ed era caduta, tirando con sé Demien. Questi aveva impiegato qualche secondo per capire cos’era accaduto, giacché non aveva visto il dardo trafiggere il florido seno di Luvien: l’aveva voltata lentamente e l’aveva strattonata più volte, convinto che gli occhi spalancati fossero dovuti allo stordimento della caduta, finché non aveva compreso.
In quell’attimo, un solo pensiero aveva ghermito la sua mente: perché lei? Lacrime mute erano scivolate lungo il suo viso e una sorda disperazione si era impadronita di lui, spingendolo a compiere una scelta irrazionale: estratta la freccia, si era caricato il corpo della sorella sulle spalle e aveva ripreso a correre, alla ricerca di qualunque cosa avesse potuto salvare entrambi. Era stato un pensiero sciocco e privo di fondamento, ma la sua vita era sempre stata inscindibile da quella di Luvien: lei lo aveva trovato in quel fagotto sulla riva del fiume Lockid, lei lo aveva cresciuto quando nessuno lo aveva voluto, lei lo aveva protetto fino alla fine. Non avrebbe mai potuto continuare a respirare senza di lei, per cui doveva trovare il modo per riportarla in vita.
«Demien...» un sussurro improvviso si era insinuato nella sua testa, chiamandolo con voce suadente.
«Demien, vieni da me e io vi salverò...» aveva continuato, tentandolo con una proposta a cui non aveva potuto fare a meno di cedere: si era guardato intorno, cercando di ignorare le grida bellicose dei suoi inseguitori, finché non aveva notato la sagoma di un edificio nelle profondità del bosco.
«Corri, Demien, corri da me!»
Quell’ordine lo aveva spinto a muoversi in direzione di quell’abitazione, affrettandosi per raggiungere un luogo che aveva avvertito come sicuro. Quando lo aveva raggiunto, pur essendo stremato e col fiato corto, aveva cercato disperatamente una via d’accesso sicura, ma era stato tutti inutile: i rovi avevano coperto completamente la porta di quell’edificio diroccato, estendendosi lungo l’intera facciata.
«Sono io... Sono qui!» aveva esclamato nella speranza di vedere quella barriera naturale infrangersi, invano. D’un tratto, però, la terra sotto ai suoi piedi era svanita nel nulla e il ragazzo era caduto nel vuoto, urtando un pavimento legnoso dopo qualche secondo.
«Salve, Demien. Sapevo che saresti venuto, ti aspettavo.»
Il bambino si era messo a sedere all’istante, portando il corpo di Luvien tra le sue braccia e levando lo sguardo verso la fonte della voce: davanti a sé, accomodata su uno scranno impolverato, vi era una giovane fata dall’aspetto singolare. I lunghi capelli biondi era sospesi per aria da una sorta di oscuro maleficio, mentre gli occhi smeraldini erano cerchiati da profonde occhiate e lo avevano fissato con uno sguardo magnetico e penetrante. Ciò che più lo aveva impressionato erano stati altri dettagli: due paia di corna, il più grande delle quali era pallido come l’incarnato, culminavano in due grosse pietre ovali dello stesso colore delle sue iridi, dalle orecchie a punta pendevano delle singolari catene come fossero macabri orecchini, le spalle e le clavicole erano ricoperte da una sorta di corteccia nera che proseguiva sotto la pelle delle candide braccia fino a nascondersi dietro una folta pelliccia, la quale ricopriva le mani bestiali che stringevano tra gli artigli un teschio. Era una creatura inquietante, ma per qualche oscuro motivo Demien l’aveva trovata bellissima: con un semplice sguardo aveva catturato l’anima del bambino, il quale pendeva letteralmente dalle sue labbra carnose.
«Ho una proposta per te, mio dolce Demien: diventa un assassino al mio servizio e io ti restituirò la vita di Luvien.»
Quelle parole lo avevano illuminato, rinvigorendo le irragionevoli speranze che lo avevano spinto a proseguire la sua fuga: quella meravigliosa fata, se tale poteva essere definita, aveva davvero il potere per farlo?
«Certo che posso farlo, bambino mio!» aveva esclamato, leggendogli nel pensiero. «Questo teschio è un portale che collega il Regno dei Vivi con quello dei Morti: tutto quello che dovrai fare sarà uccidere dieci persone, un prezzo necessario per riavere un’anima, non credi?»
Demien aveva annuito meccanicamente, rapito dal suono melodioso di quella voce e dalle parole che aveva pronunciato: non avrebbe mai rinunciato a una simile occasione, Luvien era tutta la sua vita.
«Accetto, Mia Signora. Massacrerei il mondo intero per voi e mia sorella!»
«Eccellente. Allora ti istruirò a dovere e ti fornirò le armi necessarie per uccidere Terhador e i suoi nove amici, coloro che hanno pianificato questo abominevole sterminio...»
Da quel giorno, aveva vissuto in quella misera dimora, apprendendo l’arte dell’omicidio e tutte le tecniche per non farsi scoprire: nell’arco di sei anni, si era trasformato in un assassino eccellente, capace di uccidere chiunque senza lasciare traccia, anche grazie agli strumenti che la sua Signora gli aveva fornito. I misteriosi delitti che erano avvenuti nei palazzi dei potenti avevano gettato un’ombra sinistra sulla città di Gandurth, tanto che si era diffusa la credenza che le fate avessero stregato la terra per vendicarsi degli eccessi di violenza immotivati.
Il rumore della porta che si apriva riportò Demien alla realtà: finalmente era giunta l’ora di stroncare la vita del Governatore, così da consegnare la decima anima alla sua Padrona e riavere Luvien. Trattenne il fiato quando vide i piedi dell’uomo avvicinarsi al letto, fermandosi a un palmo di naso dal suo viso; non appena la massiccia figura si arrampicò sul materasso, schiacciandolo con il suo peso, il ragazzo liberò l’aria e con un gesto meccanico infilò la mano in una delle tasche interne del mantello, dalla quale estrasse il suo pugnale fatato. Tutto era pronto, era tempo di entrare in scena: il giovane assassino strisciò silenzioso come un aspide e uscì dal suo nascondiglio, per poi alzarsi e bloccare il nobile sul letto con un movimento fulmineo che andò a tappargli la bocca. Il nobile tentò di dimenarsi, ma Demien fu più rapido: mormorò una formula magica e dal materasso fuoriuscirono decine di rovi che fasciarono le membra di Terhador, paralizzandolo con una morsa dolorosa.
«Dieci anni...» mormorò il ragazzo, la voce arrochita dal silenzio; «Ho aspettato dieci, lunghissimi anni pregustando questo giorno... Mi avete riconosciuto? Aspettate, vi do una mano...»
Con il dorso della mano destra, l’assassino spinse via il cappuccio che celava il suo volto, rivelando la massa scarmigliata di capelli viola che si dibatteva come serpi e gli occhi azzurri accesi da una scintilla di pura follia omicida: le immagini di tutte le sue vittime guizzarono per una frazione di secondo nella sua retina, alternandosi con le visioni delle vittime dello sterminio e acuendo il suo sadico piacere. Il Governatore, proprio come gli altri nove collaborati che aveva seccato prima di lui, spalancò le palpebre di fronte a quei lineamenti così disumani, tremando al pensiero della furia vendicativa delle fate: cercò disperatamente di liberarsi dai rami spinosi che lo ancoravano al talamo, ma fu tutto inutile.
«Guardatemi bene, imprimete questa immagine nella vostra mente, scolpi tela nel vostro cuore: questo è il volto della morte...» sibilò ferino e con un taglio netto recise la giugulare; il collo dell’uomo si trasformò in una sorgente di sangue, dalla quale il fluido vitale fuoriusciva come un fiume in piena. Demien tolse la mano dalla bocca di Terhador e fece un passo indietro per godersi la visione, un ghigno perverso dipinto sul suo viso: era come invasato, inebriato da un desiderio spasmodico di uccidere ancora e ancora.
«Hai fatto proprio un ottimo lavoro, bambino mio...» sussurrò la suadente voce della Sua Signora, carezzando il suo lato oscuro come una madre farebbe con il proprio piccolo. Una forza ignota lo costrinse a chiudere gli occhi e a lasciarsi cadere nel vuoto, finché qualcosa non lo fermò; erano delle braccia esili che lo abbracciavano e lo accarezzavano, piangendo sulla sua spalla.
«Luvien...?» mormorò con la voce impastata da un’improvvisa sonnolenza, gli occhi ancora chiusi che rivedevano i suoi efferati omicidi, indugiando sui particolari più torbidi.
«Demien, cosa hai fatto?» singhiozzò la sorella sul suo esile corpo, amareggiando il giovane assassino con quella domanda: perché mai gli chiedeva una cosa tanto sciocca? Lui aveva fatto tutto questo per lei, non era forse ovvio?
«Tu non sei il mio fratellino, quella Fata Nera ti ha traviato, si è servita di te per i suoi loschi scopi, non capisci?» continuò Luvien, fomentando la collera che il ragazzo covava per quell’irriconoscenza: aveva sacrificato la sua innocenza, la sua vita, tutto per riportarla in vita e lei osava attaccare la sua Signora? Che diritto aveva per farlo?
«Tu non credi a lei, vero bambino mio? Tu ti fidi di me, solo di me?» sussurrava nella sua mente la sua Maestra, seducendo Demien e manovrando a sua insaputa il suo corpo.
«Torna in te, fratellino!» lo supplicò la sorella, stringendolo sempre più forte a sé.
«Torna da me, bambino mio...» lo ammaliò la Signora, sfruttando il torbido ascendente che aveva sul ragazzo.
Demien non poté fare altro che seguire la persona che più amava, colei che lo aveva accudito e compreso quando nessun’altro lo aveva capito. Fu così che piantò il pugnale nel petto della sorella, rigirandolo ancora e ancora, finché la ferita non divenne un buco abbastanza largo per estrarre la lama e affondarvi la mano libera: il giovane assassino gemette di torbido piacere nell’infierire sul cadavere di Luvien, gli occhi sempre chiusi per assaporare le sensazioni tramite il senso del tatto.
Il bambino disperato di dieci anni prima si era trasformato in un mostro depravato e senza cuore, un burattino sanguinario nelle mani di una Fata Nera, il cui unico desiderio era quello di seminare morte e distruzione, appagando così il suo potere oscuro. Lei prosperava nelle guerre e nei massacri, stregando menti fragili e innocenti per trasformarle in mostri depravati, proprio come Demien: lo aveva indotto a compiere omicidi sempre più efferati e cruenti, abbindolandolo con la promessa del ritorno di Luvien, in modo da corrompere la sua anima e renderlo un involucro vuoto e privo di sentimenti. Una volta compiuto l’ennesimo omicidio, lo aveva trascinato in una dimensione onirica, nella quale lo aveva persuaso a uccidere quel che restava della sua anima attraverso le fattezze della sorella morta.
Così, mentre Demien infieriva nella sua mente sul cadavere di Luvien, la Signora scioglieva le membra del ragazzo, trasformandole in quelle di Terhador per sostituire il Governatore morto con il suo nuovo giocattolo.
«Bravo, bambino mio...» mormorò la Maestra sul suo scranno malefico, accarezzando il teschio che ora grondava sangue; «Hai fatto uno splendido lavoro, ma non dimenticare: sono io il volto della morte...»
 
 
 
 
 
 
 
Spazio di Chloe.
 
Buonsalve a tutti! ^^
Se siete arrivati fino a qui, vi faccio i miei complimenti: non deve essere stato facile, lo so... u.u
Dunque, sinceramente non so da dove diavolo sia uscita questa storia, visto che l’idea di base era totalmente diversa, ma fa nulla: ormai è qui, perciò amen! u.u
Faccio delle piccole precisazioni, la storia è nata per il contest di -Tsunade- e di Ino;Chan, le quali chiedevano una storia Fantasy seguendo il contenuto di tre pacchetti:
  1. Questa immagine = http://sandara.deviantart.com/art/wild-creatures-1-156585430
  2. Classe “Rosso” = Assassino
  3. Situazione “Drago” = I rovi coprivano completamente quell’edificio diroccato
 
Come spero si sia capito, l’immagine rappresenta la Fata Nera: non mi andava di usare una protagonista femminile, perciò ho ripiegato sul ruolo di antagonista. Ho attribuito la classe a Demien, anche se non so quanto possa essere riconducibile a un Assassino serio... La situazione, pur essendo apparsa in seguito, penso che abbia un ruolo-chiave: dal giorno in cui Demien ha messo piede in quell’edificio è cambiato tutto... u.u
Ultime cose: qui sotto troverete delle note tratte da un sito (http://www.bethelux.it/pietre.htm) e da un documento in PDF che ho trovato su Google e che rapresenta una sorta di Glossario Architettonico.
Detto questo, vi ringrazio immensamente per aver letto; mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, anche perché sono una novellina delle OS fantasy e non so che idea farmi di questa storia.
Grazie a tutti! ^^
 
[i] Cristallo altamente elettrico, è in grado di arrivare, molto velocemente, in profondità superando la densità degli strati fisici, emozionali e mentali.
[ii] In architettura, ornamenti fatti di rami intrecciati con foglie e fiori dipinti o scolpiti.
[iii] In architettura, superfici semicircolari o a luna, poste sopra una porta o una finestra, in genere dipinte o decorate.
[iv] In architettura, importanti e decorati coronamenti ( parte più alta ) di un edificio.
[v] Cristallo che promuove l’alta connessione con il piano causale, favorendo i viaggi astrali e interdimensionali
 
  
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