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Autore: BabaYagaIsBack    20/07/2015    1 recensioni
Jay ha diciotto anni e tutto ciò che ha imparato sulla vita le è stato insegnato da Jace, il fratello maggiore, e i suoi migliori amici. Cresciuta sotto la loro ala protettrice, ha vissuto gli ultimi anni tra la goffaggine dell'adolescenza, una cotta mai confessata e un istituto femminile di cui non si sente parte. E' ancora inesperta, ingenua e alle volte fin troppo superficiale, ma quando Jace decide di abbandonare Londra per Parigi, la sua quotidianità, insieme alle certezze, iniziano a sgretolarsi, schiacciandola sotto il peso di ciò che non sa
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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Chapter Thirty-five
§ The end will come, but it won't be the end §
part one

 

"It gets harder every time I gotta say goodbye
Tears are falling, that's why I can't say it eye-to-eye
Every time that I go, can't find a reason why
Maybe someday you'll know just how I feel inside

I can't hold on, won't let go, going down the same old road
Have it all, take my soul, praying that I'll make it home
And even if I pretend it'll be alright
I know I'll see you again in my other life"

 

- Coming Home, Hollywood Undead

 

Con i piedi nudi accavallati sul parapetto di ferro, mi concedo l'ennesimo tiro da un filtro troppo inumidito. Osservo le luci della città da un balconcino che a fatica può contenere due ospiti e le piante aromatiche con cui Josephine condisce le sue pietanze.
Aspiro nicotina, trattenendola dentro al petto esattamente come tutte le frustrazioni che mi hanno spinta qui e che, ancora, mi pizzicano il cuore.
Nonna ha provato a chiedermi spiegazioni, a farsi confessare il motivo degli occhi gonfi e delle linee di mascara colato sulle guance, ed io, slacciandomi il cinturino dei sandali, ho risposto: "E' solo un'altra serata di merda". 
Lei mi ha fissata. Ha seguito la mia schiena fino al momento in cui non l'ho appoggiata sulla sedia di legno dove ancora sono appollaiata, negandola alla sua vista. Così ha dovuto ripiegare sull'espressione del viso stanco, dove le occhiaie probabilmente descrivevano meglio delle parole la delusione provata - e alla fine mi ha proposto un tè, perché "il bergamotto aiuta a combattere la depressione, sai?"

Ho annuito, non convinta.
La mia non è depressione, è una sensazione più simile all'amarezza, alla nostalgia. Si è insinuata piano nel cuore, restando in attesa. Come un bambino che gioca a nascondino ha aspettato il momento che la tana si liberasse, poi gli è corso incontro e ha urlato "salvo!" - anche se di salvo, qui, non mi è rimasto nulla.

Mentre Josephine si rintanava in cucina a preparare il suo intruglio benefico, io mi sono fatta ammaliare dal pacchetto che ancora tenevo in tasca, riprendendo a fumare. La prima sigaretta si è sostituita con la seconda e, all'arrivo delle tazze bollenti, sono ancora a metà.

La nonna mi si siede davanti, appoggiando il tè accanto al mio cellulare sulla mensolina di legno che ingegnosamente ha attaccato al parapetto, in modo da creare una sorta di tavolino e ottimizzare lo spazio. Dopo lunghissimi minuti ha finalmente smesso di vibrare come un ossesso, mostrando a intermittenza i nomi di Jace, Seth e Caroline. Solo Misha si è limitata a mandarmi un messaggio, qualcosa simile a un insulto, ma che mi ha fatta sentire un po' meno strana - perché non credo di essermi comportata come una persona matura stasera.
Ad ogni modo, la vecchia che ho di fronte soffia un paio di volte sul vapore che emerge dalla ceramica, poi allunga una mano e mi sfiora le dita dei piedi, ancora arrossate dopo la fuga dall'Elder and the Moon.
«Mon Dieu, Jacqueline... tu ne gèle pas?»
Scuoto la testa, ma lei non pare capire.
«Veux-tu tomber malade?»

Mi premo i palmi sugli occhi: «Je ne sais pas» sbuffo, sempre più esausta. 
In questo momento il mio corpo combatte contro la mente: lui vorrebbe accovacciarsi sul divano, addormentarsi, lasciar perdere tutto nel torpore delle coperte, mentre lei preferirebbe restar sveglia al freddo e arrovellarsi su ogni stupido sbaglio compiuto finora.
Il problema è che il cuore vorrebbe mettere in pausa ogni cosa, in modo da potersi calmare.

Mi rimetto seduta in modo composto, aspetto qualche secondo e, infine, afferro la tazza colorata, portandomela alla bocca - magari questo bergamotto saprà davvero aiutarmi, oppure, mal che vada, si limiterà a scaldarmi le membra.

Prendo il primo sorso, mi scotto la lingua e con una smorfia allontano il bordo dalle labbra, imprecando.

Nonna non dice nulla. Non mi rimprovera e men che meno si concede il lusso di arricciare il naso per il fastidio, piuttosto resta in attesa, quasi debba confessarle qualcosa - ma non c'è niente che serva essere svelato, dopotutto al momento le parole hanno gran poco valore. Sicuramente si deve star arrovellando sul motivo per cui tutti mi cerchino così assiduamente - ed io mi rifiuti di rispondergli.

Nuovamente provo a bere, ma appena il calore del tè mi sfiora la pelle ritraggo il viso.
Sbuffo, forse delusa dall'ennesima cosa andata male, poi poggio la tazza sulla mensolina, attendendo qualche istante prima di mollare il manico. Non nego che il tepore della ceramica stia ammaliando la mia carne infreddolita; e un cuore che ancora fa male e abbia bisogno di conforto, seppur mi stia costringendo a non prestargli attenzione. Ma proprio in quell'esitazione, nel mio restare immobile per qualche momento, una luce irrompe nelle tenebre della sera, spezzando il silenzio sceso tra Josephine e me con una lieve vibrazione.
La figura atletica che riempie lo schermo porta sottobraccio uno skateboard rovinato sul cui grip vi è sbiadito un "Holy Shit!" scritto a mano - e nel riconoscerlo sussulto.

Charlie.

Afferro il telefono, scatto in piedi e in un lampo sono lontana dal balcone, gelosa in modo quasi morboso di qualsiasi cosa succederà dal momento in cui la sua voce riempirà le mie orecchie - perché è un momento solo nostro, una telefonata che ho bisogno mi dia speranza.
Scivolo svelta tra le stanze della casa, arrivando infine a chiudermi in bagno Giro due volte la chiave e con il fiato corto per la corsa soffio: «Pronto?!» Il cuore mi batte così forte da colpire dolorosamente le ossa del torace. Potrei avere un infarto ora, ma non avrebbe alcuna importanza.
Dall'altra parte della cornetta, concitata, arriva una voce che temo possa essere solo un sogno: «Dove sei?»
Le lacrime iniziano a scendermi lungo il viso prima ancora che io possa rendermene conto, costringendomi a fermare sul nascere un singulto che, però, a lui non sfugge.

«Jay, dimmi dove sei.»
«I-io... sono d-da Josephine» biascico, la bocca già impastata dal pianto.
In sottofondo sento il rumore molesto del motore di una macchina, probabilmente il suo maggiolone azzurro: «Okay... okay. Stai bene, vero? Cioè...» fa una pausa, tituba su cosa sia giusto dire. Le parole d'improvviso gli muoiono in gola e il desiderio di averlo qui, davanti a me, si fa intollerabile - così lo anticipo, supplicandolo.
«Ho solo... ho bisogno che torni.» Persino un sordo udirebbe il tremore nelle mie parole, la lentezza con cui roche mi escono di gola, oltrepassano il microfono e si aggrappano a lui, alla sua maglia, il suo petto, al collo bollente intorno a cui vorrei intrecciare le braccia e restare appesa.
«Sì. Sì, io... sono per strada, va bene? Però promettimi che resti lì.»
Lenta mi faccio scivolare lungo la porta, mordendo con forza il labbro inferiore.

Sta arrivando.
Sta tornando da me.

Annuisco, ignorando il fatto che non possa vedermi.

Il mio Charlie sta venendo qui per aiutarmi a rimettere insieme ciò che è andato distrutto. Giusto? Sta tornando per levarmi di dosso una parte del peso delle decisioni sbagliate che ho preso e riempire i vuoti che si sono andati a creare dopo di esse, trasformandomi in una struttura cava incapace di sorreggere le conseguenze di simili scelte - come sempre del resto. Non è forse per questa ragione che con lui mi sento a casa? 

«Jay?» D'un tratto mi chiama, mi ridesta dal pianto silenzioso e dai pensieri dolci da cui mi sono lasciata sopraffare. «Non c'entra Seth, vero?»
Lo stesso cuore che tenta di uscirmi dal petto improvvisamente rallenta il suo battito, si affievolisce, arriva quasi a fermarsi. Una sorta di timore mi lambisce gli organi e la confusione si fa totale. Non capisco. 
«C-che intendi?»
Nella sua voce c'è qualcosa di strano, un tono a cui non riesco ad associare alcuna emozione - si avvicina alla stanchezza, ma sono certa essere altro. 
Lo sento prendere un grosso respiro. Lo immagino bagnarsi le labbra e soppesare pensieri e parole come in quei rari casi in cui fa il serio, poi alla fine sospira, quasi rinunciando a ciò che vorrebbe dire veramente: «E' per colpa sua che stai piangendo? E' successo qualcosa che non volevi o... dimmi che non ti ha fatto nulla.»
«P-perché... perché me lo chiedi?» Sento la stretta della paura farsi sempre più intensa, mi nausea tanto da riportare a galla l'unico sorso di tè che ho bevuto; e anche se non vorrei inizio a immaginare la risposta che potrebbe darmi, insieme alle motivazioni con cui argomenterebbe la sua tesi. Credo di averlo già detto più volte: da Seth ci si aspetta il peggio persino quando non fa nulla - e non posso biasimare Charlie dall'essere il più diffidente di tutti visto ciò che gli ha fatto.
«Rispondimi e basta.»
E' così lapidario che mi sento tremare.

«Beh... no» sibilo un po' disorientata. 
La colpa non è sua, o almeno non del tutto. Per una volta potrei dichiarare Morgenstern innocente, anche se solo in parte, perché il motivo del mio malessere a dire il vero non si può riassumere con un'unica persona, piuttosto è l'insieme di eventi che ne ha spinte varie a farsi la guerra - e ci siamo dentro tutti, volenti o nolenti.
«Seth è solo...» mi fermo. Trattengo quello che sto per dire, peccato che Benton voglia sapere, che non sia disposto, per ora, a lasciar in sospeso qualsiasi mia frase - quasi bramasse una scusa, una giustificazione, un motivo per premere il piede sull'acceleratore e tornare qui.
«Cosa? "Seth è solo" cosa?»
Picchio la nuca sulla porta. La sbatto piano per punirmi, pur non volendomi far male.
Porto la mano libera alla fronte e con gli occhi spalancati sul soffitto cerco nella mente un escamotage, una parola che possa far capire la mia repulsione nel volerlo accanto in questo momento, ma che non lo renda il capro espiatorio del mio stato d'animo, risultato ultimo delle liti tra lui, Jace e... sì, anche Charlie.

E lo faccio perché sono egoista.
Perché voglio che il mio migliore amico corra da me.
Apro la bocca e pronuncio delle parole solo per il semplice fatto che voglio Benton, che desidero accoccolarmi a lui più di ogni altra cosa al mondo, ora. Bramo la sua comprensione, la sua dolcezza, il calore che emana.

«Non è te.»

Silenzio.
Lui tace e il mio cuore si ferma.

Il suo respiro si fa così lieve da essere impercettibile e così le lacrime, per poco, smettono di scendermi lungo il viso.

Mi ha sentita?

«Tra un'ora e mezza sono lì» sussurra d'improvviso, con una decisione tale che pare arrivarmi addosso come una scossa di teaser. Il battito riprende con forza ed io con altrettanto vigore premo i denti nel labbro inferiore, ringraziando un'entità astratta.
«Noi... dobbiamo parlare, Jane. Quindi ti prego, non andare via da casa di tua nonna.»
Ancora una volta annuisco in risposta alla sua richiesta, peccato che non ci sia modo che possa vederlo.
«Vengo a pre-» tuh-tuh-tuh.
«C-Charlie?» Lo chiamo, ma lui non risponde. «Charlie?» riprovo, ma non ottengo risultati nemmeno stavolta. Allora svelta allontano il cellulare, me lo porto davanti agli occhi: la telefonata si è interrotta. I minuti che abbiamo passato insieme lampeggiano rossi su uno schermo bianco dove ora la sua foto è sparita ed io vado in panico.

Che diamine è successo?

Vado alla schermata del registro chiamate, premo sul suo nome e provo a contattarlo ancora.
La segreteria ci mette poco ad avvertirmi che il telefono potrebbe essere spento o l'utente non raggiungibile, così inizio a pensare agli scenari più disparati, concludendo infine che debba essere entrato in qualche area priva di rete, o debba aver consumato tutta la batteria - perché alle volte è esattamente come me: sbadato.

Mi ritrovo quindi sconsolata ed esausta al contempo, come se la nostra fosse stata una terribile telefonata d'amore. Con gli incisivi tiro il labbro, lo maltratto e, infine, mi ripiego sulle ginocchia, provando ad asciugare il viso e nascondermi da ogni emozione.
Non voglio più pensare a nulla, solo a lui, a quando e come arriverà qui ed io gli getterò le braccia al collo lasciandomi inglobare. Staremo stretti l'un l'altro come mi sembra non capiti più da tantissimo tempo e poi, forse, parleremo di come sistemare le cose. Perché dobbiamo farlo, l'ha detto anche lui, no?
Dovremmo anche disinfettare e mettere con cura un cerotto sulla ferita che gli ha lasciato Seth, trovare un modo per farli convivere entrambi all'interno della mia routine senza che si colpiscano nuovamente a morte - perché da principessa viziata quale sono ho bisogno di entrambi i miei cavalieri a difesa del regno. Dovremmo delineare con minuzia ogni prossima azione, stare attenti a seguire la strategia scelta, ritrovarci.

Sembra così facile a parole...
Il problema però è che non tutto ciò che luccica in realtà ha valore, quindi dovrei star bene attenta a cosa mi circonda - perché potrei ritrovarmi in mano solo un mucchio di inutili sassolini.

 
   
 
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