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Autore: Dark Magician    20/07/2015    0 recensioni
[Seconda classificata al contest "The Ancient Tales" indetto da -Tsunade- e Ino;Chan]
«Riparatevi!», gridò [Hazel] tuffandosi dietro la barricata alla sua sinistra. Henry la seguì, Carl e Thomas scelsero l’altra e la cosa le gelò il sangue nelle vene.
Aprì la bocca; avrebbe così tanto voluto avvertirli di nuovo, ricordare loro le regole – perché diamine non avevano ripassato tutto prima? Perché loro ridacchiavano e tanto non serviva a niente, ecco perché – ma il cervello le strillò “decima pecorella!” e si costrinse a tacere.
L’istante successivo il Moloch tarpò la luce che entrava dalla porta, proiettando all’interno i suoi riflessi argentei.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Fate silenzio», sibilò Hazel sollevando una mano, e il chiacchiericcio alle sue spalle si spense all’istante. Uno dei tre ragazzi sbuffò, ma grazie alla Madre le fu risparmiata l’ennesima polemica.
«Ci siamo quasi», aggiunse, tanto per troncare ogni eventuale commento sul nascere. Con la coda dell’occhio vide i tre rabbrividire; Henry in particolare impallidì tanto da sembrare sul punto di svenire.
Con la pesante tracolla che le batteva contro il fianco, Hazel scivolò al limitare del bosco e prima di affacciarsi si concesse qualche secondo ad occhi chiusi per valutare il proprio stato.
Le erano aumentati un po’ i battiti, okay, ma quello era colpa dell’ansia, niente a cui dar peso. La preoccupava di più la lieve nausea che le era montata qualche chilometro prima, invece, e che sembrava essere peggiorata negli ultimi minuti.
Per ora è tutto tranquillo, si disse, e con un sospiro profondo si sporse oltre gli ultimi alberi.
Sotto di lei la montagna scendeva dolcemente in una piccola vallata e al centro, ad alcune centinaia di metri, sorgevano i resti di un paesino abbandonato.
Il Sentiero lo attraversava, scivolava sopra i profili delle case e vibrava di energia argentea, alzandosi verso il cielo per metri e metri. In un punto impattava il campanile all’estremo del paese, lo risaliva per tutta la sua altezza e ridiscendeva subito dopo, per poi proseguire lungo la vallata ed inerpicarsi fra i monti.
Da quella distanza non poteva esserne del tutto sicura, ma sembrava trovarsi in una fase di quiete. Era un buon momento per attraversarlo, si trattava solo di decidere il punto migliore.
«Per ora è tutto tranquillo», ripeté, questa volta ad alta voce, e si voltò verso i tre ragazzi che la seguivano. Le loro espressioni si distesero, accompagnandosi con sospiri silenziosi, e rilassarono le posture irrigidite – il che avrebbe potuto rivelarsi un problema, perché ormai aveva scortato decine di ragazzetti nel loro primo passaggio e l’esperienza le insegnava che troppa tranquillità portava solo grossi guai.
«Beh, che aspettiamo allora?», sbottò Thomas con tono quasi stizzito, aggiustandosi lo zaino sulle spalle «Diamoci una mossa!».
Hazel non riuscì a trattenere una smorfia. Ecco, appunto, troppa sicurezza.
E quel fondo di nausea non voleva saperne di andarsene.
«Non abbiate fretta», borbottò alzando una mano «Ora io scenderò per qualche metro per valutare la situazione. Quando avrò trovato un punto che riterrò sicuro, vi chiamerò con un fischio; scendete veloci e in fila e raggiungetemi. Tutto chiaro?».
Nessuna risposta, solo sguardi. Quello di Henry esprimeva un terrore che andava a braccetto con il suo colorito cinereo, Thomas e Carl invece continuavano ad avere la tipica aria spocchiosetta dei sedicenni che pensano di aver capito tutto della vita.
«Tutto chiaro?», chiese di nuovo, indurendo la voce, e questa volta ottenne almeno un cenno d’assenso. Trattenendo fra le labbra un sospiro esasperato, si voltò e mosse un passo fuori dal bosco, continuando sul rimasuglio di sentiero che avevano percorso fino a quel momento.
Si ritrovò in un silenzio gradevole. Il vento lieve le scompigliava appena i capelli e faceva frusciare la mantellina marrone, insetti si chiamavano tutt’attorno a lei e in fondo il Sentiero tintinnava in modo lieve, quasi impercettibile, emettendo quel suo tipico suono molto piacevole che-
Un fischio le trapassò un orecchio e Hazel si fermò, preparandosi già a tornare indietro di corsa, ma parve esaurirsi così, come un fenomeno isolato e basta.
Si tastò la gola e valutò i battiti, erano appena più rapidi ma niente di che. Neppure l’accenno di nausea si era modificato, e a guardarlo il Sentiero sembrava ancora in quiete.
No, in parte sbagliava. Non poteva esserne sicura, ma anche da quella distanza sembrava che l’energia fluisse in modo diverso in una piccola porzione alla sua destra, molto oltre il campanile. Valeva la pena di tornare a dare un’occhiata nei giorni successivi, ma con i tre sbandatelli al seguito non le sembrava il caso di tergiversare ulteriormente.
Riprese la discesa, approfittandone nel contempo per togliersi la mantellina e osservare gli edifici abbandonati da quella posizione sopraelevata. Il Sentiero tagliava quasi a metà la piccola piazza del paese, davanti alla chiesa; era un buon punto, privo di grossi ingombri (poteva scorgere un carretto rovesciato, qualche panchina e una fontana ormai asciutta), ma quanto tempo poteva servire per raggiungere i primi ripari? Da sola non avrebbe avuto problemi, ma con tre persone al seguito e quella insistente nausea in sottofondo era un azzardo insensato.
Attraversare dove il Sentiero incontrava il campanile, invece? C’era una piccola gradinata davanti all’ingresso della chiesa, non proprio l’ideale per una rapida fuga, ma il buco nero al posto del portone prometteva un buon rifugio.
Le tornò in mente quell’altra volta, un paio di anni prima, in cui aveva creduto che “buco nero al posto della porta” significasse “non c’è la porta” e non “la porta è nera”; non avrebbe saputo dire poi se fosse stata peggio la testata o il canto del Moloch che le era rimasto nel cervello per giorni e giorni.
Magari controllo prima di attraversare.
Senza distogliere lo sguardo dal Sentiero, si portò gli indici in bocca e fischiò. Seguì uno scalpiccio rapido, e Hazel parlò solo quando sentì i tre ragazzetti dietro le spalle.
«Procederemo così», disse senza voltarsi, infilando intanto la mantellina nella tracolla «Il Sentiero passa per la piazza, arriva fino al campanile» tracciò una linea con l’indice da sinistra a destra, e uno dei tre (di certo Henry) ebbe un sussulto «Scendiamo, ci fermiamo un minuto per rivalutare la situazione e se tutto rimane tranquillo attraversiamo. Zaini alla mano come l’altra volta, se sarà necessario li lascerete indietro e penserete solo a nascondervi, chiaro? Mente lucida e vicino a me, che il Pellegrino vegli i nostri passi».
Terminò battendo la mano di taglio sul petto, e non appena ebbe sentito gli altri tre fare lo stesso riprese a muoversi verso il paesino. Passò fra le case abbandonate con un passo rapido che non era l’ideale nei pressi di un Sentiero, ma gli edifici la coprivano e lei continuava a sentirsi decentemente, potevano permetterselo. Si limitò a lanciarsi qualche occhiata alle spalle per assicurarsi che i tre le rimanessero dietro, nel suo zigzagare tra vicoli e stradine. Da sopra i tetti malconci delle case riusciva a scorgere volute di energia argentea stagliarsi verso il cielo e le bastavano per orientarsi; questo e il tintinnare gradevole del Sentiero che la richiamava, amorevole e infido assieme.
Rallentò solo quando scorse la piazza alla fine della strada.
«Toglietevi gli zaini dalle spalle», sussurrò, e i tre ragazzi obbedirono silenziosi. Henry continuava a sembrare sul punto di svenire da un momento all’altro, la preoccupava.
«Seguitemi».
Si avvicinarono cauti al Sentiero, e a pochi passi Hazel fece segno ai ragazzi di fermarsi.
Spirali di energia grigio brillante serpeggiavano quiete, avviluppandosi e distendendosi, ora grandi quanto l’intera altezza del Sentiero ora minuscole, ora così sfavillanti da sembrare bianche ora così cupe da tendere al nero. Erano armoniche e vibranti e tintinnavano, e come sempre Hazel pensò a Garnet e il tintinnare cessò, quasi risentito.
Come osi farti intontire da qualcosa che non sono io?” sembrava dirle ogni volta, e il pensiero le strappava sempre un risolino.
«Cosa ridi?», sbottò Carl, e Hazel lo fulminò con un’occhiata che lo ammutolì.
«Continua ad essere tutto tranquillo. Carl, la porta della chiesa com’è?» Hazel strizzò gli occhi e ruotò la testa, ma era come guardare attraverso vetro smerigliato.
«Eh? Che domanda è?».
«Non vedo attraverso il Sentiero. È aperta? È chiusa? C’è un portone?».
«Credo che il portone sia stato buttato giù», intervenne Henry con voce tremolante.
Hazel lo ringraziò con un sorriso, poi cercò di metter su lo sguardo più serio che era in grado di fare e di accompagnarlo con un tono di voce adeguato.
«Ora, ascoltatemi con attenzione. Non è detto che ci vada bene come all’andata, e anche se è tutto tranquillo» quante volte l’aveva ripetuto ormai? «vi voglio pronti a correre. Se non succede niente, al mio “via libera” correte dritto davanti a voi fino all’uscita del paese, sfruttando comunque tutti gli angoli da cui non vedete la piazza».
O da cui la piazza non vede voi.
«Se invece vi ordino di entrare in chiesa, voi mollate tutto – dall’altra parte del Sentiero, per carità – e vi ci fiondate come se aveste un branco di lupi alle calcagna, chiaro? Non inciampate nei gradini e non svenite, se la Madre vuole, perché potrebbe non esserci il tempo per raccogliervi. Dubbi?».
Nessuno fiatò. Prendendo un respiro profondo, Hazel si voltò a fronteggiare il Sentiero.
«Vado io per prima».
Non c’era davvero bisogno di specificarlo, era stato così anche all’andata e comunque tutti loro sapevano che davanti a un Sentiero era sempre la persona con la luz a passare per prima, ma trovava uno strano conforto nel dirselo ad alta voce prima di ogni attraversamento in gruppo.
Si scostò da un occhio una ciocca di capelli castani e un’altra ovvietà le attraversò la mente.
«Le tre regole. Ve le ricordate, vero?», chiese, e nonostante la palese tensione Carl riuscì ad esibirsi in un risolino cretino.
«Scherzi?».
Hazel lo ignorò «Non guardate. Non ascoltate. Ma soprattutto, per gli occhi della Madre, non rispondete. Andiamo».
Allungò una gamba e in un passo fu dall’altra parte del Sentiero.
Tutto a posto.
Ruotò su se stessa ed indietreggiò, facendo al tempo stesso con le mani segno ai tre di farsi avanti, e i conati la colsero a metà del movimento. Si piegò e vomitò, poi tornò subito dritta.
«Chiesa!», gridò, la bocca ancora impastata.
Piegò la testa di lato, assecondando il brivido che le aveva percorso il cervello.
«Dieci pecorelle!», gridò ancora, e benché quel ridicolo modo di misurare il tempo avesse suscitato un’ilarità incontenibile nei ragazzi, durante l’esercitazione, l’effetto ora fu opposto. Sbiancarono tutti e tre, Henry addirittura sembrò barcollare per una frazione di secondo, e rimasero immobili, gli occhi sgranati e le bocche semiaperte in un’espressione da bambini terrorizzati.
«Ho detto chiesa!», ripeté Hazel. Afferrò Henry per un gomito e questo parve riscuotere anche gli altri due. Lasciarono cadere gli zaini e scattarono per i gradini della chiesa, e dopo un attimo di esitazione anche Henry fece lo stesso, incespicando sul primo passo ma lanciandosi poi per i gradini con ampie falcate.
Un rapido sollievo attraversò la mente di Hazel mentre raggiungeva l’ingresso. Erano tutti alti almeno una spanna più di lei, non sarebbe mai riuscita a trascinarsene dietro uno se fosse rimasto paralizzato.
Balzò dentro nel momento in cui il suo orologio interno le annunciava la settima pecorella. Si concesse l’ottava pecorella per guardarsi attorno e trovò quello che aveva sperato di trovare: panche di legno accatastate ai due lati della porta. Era improbabile che nessuno avesse mai predisposto un nascondiglio così pratico per questa evenienza.
«Riparatevi!», gridò tuffandosi dietro la barricata alla sua sinistra. Henry la seguì, Carl e Thomas scelsero l’altra e la cosa le gelò il sangue nelle vene.
Aprì la bocca; avrebbe così tanto voluto avvertirli di nuovo, ricordare loro le regole – perché diamine non avevano ripassato tutto prima? Perché loro ridacchiavano e tanto non serviva a niente, ecco perché – ma il cervello le strillò “decima pecorella!” e si costrinse a tacere.
L’istante successivo il Moloch tarpò la luce che entrava dalla porta, proiettando all’interno i suoi riflessi argentei.
Hazel lanciò un’occhiata inquieta a Henry. Sudava e tremava terrorizzato, tenendo una mano sulla bocca un po’ per non gemere e un po’ per impedire ai denti di battere. Hazel gli prese l’altra mano e questo le bastò per attirare la sua attenzione.
Va tutto bene, gli sillabò, muovendo le labbra, concentrati sulla mia mano e basta.
Henry annuì. Sembrava convinto, poi il Moloch cominciò a cantare e il terrore nei suoi occhi svanì, sostituito da pace, quiete e serenità.
Malissimo.
Hazel gli pizzicò con forza il dorso della mano e sperò che questo lo riscuotesse quel tanto che bastava per impedirgli di rispondere.
Oh, era bellissima, la canzone del Moloch. Come l’abbraccio di un amante, come la mamma che ti bacia la fronte – negli ultimi tempi Hazel la percepiva come quell’unica intera notte passata fra le braccia di Garnet; sentiva il suo odore e i suoi capelli sul viso e le sue mani ruvide attorno ai fianchi, il suo seno morbido contro il proprio e quei baci un po’ goffi che non-
Scosse la testa per riscuotersi.
Stupida, debole e stupida. Attraversava sentieri da anni e ancora si lasciava abbindolare.
Henry fissava intontito il vuoto davanti a sé, e per sicurezza Hazel gli premette una mano sulla bocca.
Non sembrava nelle condizioni di rispondere, se non altro; gli sarebbe servita una mezza giornata per riprendersi.
Spero che gli altri due siano conciati uguale, pensò, e subito dopo rimbombò per tutta la chiesa un “sì!” che le attanagliò le viscere.
No, no, no, ti prego no, Madre fallo tacere, pregò, lasciando la mano di Henry per battersela sul petto.
«Sì!», esclamò di nuovo la voce – sembrava quella di Thomas.
Almeno non è figlio unico, pensò Hazel, ed ebbe disgusto di se stessa per il cinismo. Stava diventando una brutta persona, e a conferma di ciò il secondo pensiero fu spero che finisca in fretta.
Tornò il silenzio e anche il Moloch sembrava tacere, o più probabilmente era solo lei a non sentirlo più. Forse c’era speranza? Le era capitato altre volte (giusto un paio a dire il vero) che qualcuno si fermasse al secondo “sì” e per miracolo il Moloch se ne tornasse sul Sentiero, forse…!
No, lo sai che non sarà così, le disse quella disgustosa parte cinica.
Il terzo “sì!” tardò un paio di minuti ma arrivò, era inevitabile e lei per prima lo sapeva benissimo. Sentì dei passi e poi un fruscio, e si batté il pugno sulla fronte. Chissà per quanto ancora il Moloch sarebbe rimasto lì sulla soglia a cinguettare delizie e bei ricordi.

Quando poté mettere finalmente la testa fuori, il sole era già alto nel cielo e il mezzogiorno doveva essere passato da poco. Il Sentiero aveva l’aspetto di un tranquillo fiume argentato e il fondo di nausea era sparito, ma tanto valeva ormai rimanere per la notte lì dentro. Carl aveva cercato di allontanarle la mano quando gli aveva strizzato un orecchio, ma Henry era ancora catatonico e lo sarebbe rimasto per ore.
Recuperò gli zaini uno alla volta – Madre santissima quanto pesavano, sarebbe stato come al solito un problema con quello che ora avanzava – e lì portò dentro. Raccolse poi i vestiti di Thomas da dov’erano rimasti, in un mucchietto nel rettangolo di luce della porta, li ripiegò con cura e li appoggiò sopra la propria tracolla. A dove cacciarli avrebbe pensato in un secondo momento, quando gli altri due ragazzi fossero stati capaci di qualcosa in più che sguardi vitrei.

*
Arthur Lynch fissava Hazel in silenzio dalla soglia della porta, ben attento a non incrociare lo sguardo. Sua moglie era in piedi accanto a lui, leggermente più indietro, gli occhi bassi e le mani intrecciate in grembo.
Finiamola in fretta con questa cosa.
Le si attorcigliò lo stomaco. L'aveva pensato solo di sfuggita, più per stanchezza che altro, ma le scatenò un tale disgusto verso se stessa da farla esitare per un attimo.
«Mi dispiace», disse piano. Porse i vestiti di Thomas al signor Lynch, piegando il capo in segno di rispetto, e aggiunse con un filo di voce «Che il Pellegrino lo accompagni e lo protegga».
Arthur Lynch tacque a lungo, forse anche un minuto intero, e per lo stesso tempo rimase immobile. Alla fine parve riscuotersi, prese i vestiti e rispose piatto: «E che l'Altrove sia luminoso».
L'istante successivo le chiuse la porta in faccia.

«Quanti ne hai persi?», chiese il nonno senza nemmeno alzare lo sguardo dal suo tavolo da lavoro.
«Da cosa si capisce? Dal mio passo?», borbottò Hazel. Poggiò la tracolla a terra e vi si inginocchiò accanto «O dalla voce lamentosa con cui ho salutato mamma?».
«Esperienza. Quanti?».
«Uno. Su tre. Ha risposto».
Il nonno annuì, poi finalmente si voltò e allungò una mano per passargliela sulla testa.
«Allora hai fatto tutto come si deve, non ti crucciare».
Hazel strinse le labbra. Il problema era più che altro l'opposto, si stava abituando e la cosa le faceva schifo. Lei si faceva schifo. Tutto faceva schifo.
Tranne Garnet. Spero che veda il segnale.
Poi alzò lo sguardo e incrociò gli occhi del nonno. Le sue iridi scintillavano brillanti, percorse da piccole spirali d'argento che si arrotolavano come serpentelli attorno alla pupilla, e nella scarsa luce del tramonto le sclere grigiastre sembravano quasi normali.
Si sentì un po' meglio – meno sola – e gli sorrise.
«Mi hai portato qualcosa di bello, Zee?».
Hazel annuì ed estrasse dalla tracolla quello che era stato il migliore acquisto di tutto il viaggio, ora avvolto in una pelle morbida e resistente per proteggerlo.
«Mi sono costati un capitale», disse, la voce che le tremava leggermente per l'emozione, e dall'involucro estrasse due libri. Anche solo a vederli da fuori erano bellissimi, aveva dovuto fare violenza su se stessa per resistere alla tentazione di sfogliarli durante il viaggio «Ma credo ne valga la pena. Questo è un'antologia di racconti».
Porse al nonno un volume dall'aria raffinata, il titolo inciso in lettere d'oro e ghirigori dello stesso materiale lungo i bordi.
«“Dell'Altrove e di altri Dove”», lesse lui ad alta voce, ed inarcò un sopracciglio «Ti sei fatta regali meno spudorati».
Hazel sentì montare un accenno di imbarazzo «Scusa. Però ho il trattato di erbe officinali che volevi!» e a questo vide gli occhi del nonno brillare d'interesse (e di spiraline d'energia, quello sempre).
«E poi ho le mappe!», esclamò ancora. Cacciò le mani nella tracolla ed estrasse un pacchetto di fogli legati con uno spago che poggiò sul tavolo del nonno. Gli si affiancò – e il nonno fece balzellare la sedia di lato per farle spazio – e sciolto il nodo allargò i fogli come un ventaglio.
«Siamo arrivati fino a Sertral e ho conosciuto un tipo simpatico che fa il nostromo, abbiamo fatto un po' di scambi. Gli ho lasciato le mie copie delle mappe e lui mi ha dato le sue, ho cercato di essere il più precisa possibile. Guarda che spettacolo!».
Esaminò i fogli e ne aprì uno contrassegnato con una “n” in un angolo.
«Avevi ragione!», esclamò, pervasa da un'allegria che una parte di lei percepiva fuori luogo e forse un po' isterica «C'è un Nido qua, in mezzo al mare, a cinquanta chilometri dalla costa. Ti giuro che quando me l'ha fatto vedere sono rimasta zitta per cinque minuti. E poi ho un sacco di lettere per te dai tuoi amichetti».
Gli occhi del nonno brillavano. Sorrideva come un giovanotto e il suo viso sembrava ringiovanito di vent'anni.
«Brava, Zee. Ottimo lavoro», disse, e Hazel si godette quelle parole come di solito si gustava il latte speziato della mamma. La scaldarono e le regalarono qualche secondo di gioia. Poi prepotente lo schifo tornò a farsi sentire, questa volta sotto la forma di una vocina che le sottolineava quanto fosse ridicolo emozionarsi per Nidi e Sentieri, ma mise tutto a tacere con una scrollata di capo e si augurò che bastasse.
«Spero tu non abbia voglia di dormire, stanotte», disse il nonno, rivolgendole un sorrisetto complice «Abbiamo del lavoro da fare».
Hazel annuì con energia, sentendo l'eccitazione tornare a dominare sulle vocette dello schifo.
«Ma non una parola a tavola, Zee, o Magda ci caccia indietro senza cena».
«Io starò zittissima», ridacchiò Hazel «Vuoi una mano ad alzarti?».
Il nonno scosse la testa. Spingendosi fece ruotare la sedia e si alzò in piedi, sorreggendosi al tavolo con una mano. Qualche anno prima sarebbe riuscito ad arrivare in cucina saltellando sulla gamba e ci aveva messo mesi (e litigate feroci) a convincersi a usare le stampelle, per cui ogni volta che Hazel lo vedeva prenderle senza brontolii infiniti si sentiva sollevata. Si spostò all'altro lato della stanza, un po' per lasciargli – facendo finta di niente – spazio per muoversi, un po' per scorrere con gli occhi i volumi ordinati con cura sui pensili in fondo alla stanza. Non negò un'occhiata affettuosa pure alla mappa su pelle infissa alla parete, altro tesoretto di cui si sentiva fierissima pur avendo contribuito in una parte minuscola, e le sovvenne una cosa che le strappò una risata.
Chissà che avrebbe detto Garnet a vederla osservare cose simili con tanto trasporto, probabilmente le avrebbe riso dietro.
O forse sarebbe stata gelosa.
Intrigante.
«Nonno», disse, dandogli le spalle per evitare eventuali sguardi inquisitori «Non è un problema se dopo cena mi assento un paio d’ore, vero? Ho… cose da fare».
Le parve quasi di sentire le iridi brillanti del nonno perforarle il cervello, ma fece finta di niente e si dondolò sui talloni, continuando a fissare la mappa.
«Non perdere troppo tempo», borbottò il vecchio dopo qualche secondo, e Hazel annuì con un cenno del capo.

Quando ormai era convinta che non sarebbe più venuta, Hazel sentì un rumore di passi e scattò in piedi. Si spazzolò i pantaloni, sistemò i capelli con gesti secchi e si appoggiò alla vecchia quercia con aria noncurante, mordicchiandosi un labbro.
Cercava spesso di indovinare la prima cosa che Garnet le avrebbe detto; in questo caso sperava in uno “scusa per il ritardo”, ma sembrava allergica a quelle parole e lo accantonò. Anche un “che bello rivederti” le sarebbe piaciuto, ma di nuovo Garnet aveva palesi difficoltà con le dimostrazioni di affetto, quindi niente.
In ogni caso, quando la vide sbucare dal sentiero, il cervello le si svuotò e quelle sciocchezze smisero di avere importanza.
Garnet stringeva la gonna fra le mani, sollevandola, e il suo seno prosperoso si alzava e abbassava in respiri rapidi. Mentre si avvicinava si passò il dorso di una mano sulla fronte, e tempo di raggiungerla aveva già ripreso fiato.
Doveva aver corso per tutto il tragitto, e la cosa riempì Hazel di un’infantile soddisfazione. Garnet ovviamente distrusse tutto aprendo bocca, un po’ come sempre.
«Ho poco tempo», disse secca «Ho sentito che Thomas Lynch c’è rimasto».
Hazel non poté trattenere una smorfia.
«E’ stata colpa sua, vero? Non era uno molto sveglio», continuò, accennando un sorrisetto sotto il suo tipico sguardo duro, poi i suoi occhi si addolcirono appena «Sono certa che hai fatto un buon lavoro. Com’è andata?».
«Parliamo d'altro», borbottò Hazel. Le scostò un ricciolo ribelle dalla fronte e si soffermò a fissarla.
Era bellissima, Garnet, con quella pelle candida tempestata di lentiggini e i lunghi capelli arancioni, e ogni volta che rivolgeva una preghiera alla Madre e al Padre Hazel non mancava mai di ringraziarli; poi le tornavano in mente tutti i problemi e allora un po’ li malediceva, perché mai una volta nella vita che qualcosa le andasse bene senza rifilarle qualche schiaffone a tradimento.
«Se vuoi ti racconto chi mi ha toccato il culo questa settimana», disse Garnet.
Hazel si irrigidì e non rispose, trattenendo a fatica una smorfia angosciata.
«E Bryan Edwards ha chiesto la mia mano. Di nuovo. Si sta facendo insistente», continuò Garnet «Forse dovresti farti avanti anche tu».
Rise da sola, e Hazel la guardò in silenzio con angoscia crescente. Tutto schifoso, tutto sbagliato, non c’era niente che non-
Garnet le prese le mani e questo bastò ad interrompere i suoi pensieri. La fissò dritta negli occhi – ed era l’unica a farlo, oltre al nonno e alla mamma, e la cosa la commuoveva sempre un po’ – e le sorrise, questa volta teneramente.
«Dai, scema, scherzo. Più o meno» si alzò sulle punte per schioccarle un bacio «Mi hai portato qualcosa?».
«Sì!», esclamò Hazel con un’enfasi fuori luogo; forse la emozionava soprattutto cambiare discorso «Sì, sì, ti ho portato delle cose, aspetta, ho… ho tutto qui!».
Si tuffò sulla tracolla, che aveva lasciato a terra poggiata alla quercia, e avvertì Garnet avvicinarsi per fissare da sopra le sue spalle.
«Ho… ho un paio di cose», disse, scattando di nuovo in piedi. Ruotò su se stessa, si trovò Garnet a due dita di distanza e non riuscì a trattenere un urletto. Accennò un passo indietro, ma ottenne solo una testata contro l’albero.
Madre dolcissima, quella ragazza le annebbiava il cervello. C’era qualcosa nello sguardo di Garnet che non-
«Dunque?», la incalzò la suddetta, distendendo le (bellissime) labbra in un mezzo sorriso che le fece saltare un battito.
«L’altra volta ti era piaciuto, quindi, ecco, ti ho…» Hazel si passò una mano sulla fronte. All’improvviso sentiva un gran caldo «Perché ti era piaciuto, vero? Mi era sembrato di sì, e te ne ho preso ancora».
Aveva avvolto la saponetta alla lavanda in un fazzolettino ricamato, e se l’idea fino a pochi istanti prima le era sembrata carina, mentre le porgeva il fagottino si sentì una demente.
Garnet accettò con un “grazie” e un sorriso. Non sembrava particolarmente colpita, ma era il suo modo tipico di comportarsi, no? In genere quando le cose non le piacevano non sorrideva né tanto meno ringraziava, no? Oh, perché la mandava così nel panico?
«Ho un’altra cosa!», aggiunse con un certo affanno «Avevo pensato di prenderti qualcosa di… qualcosa di bello, degli orecchini, tipo».
Lo sguardo di Garnet si indurì all’istante. Aprì la bocca, ma prima che potesse parlare Hazel la precedette alzando le mani.
«Aspetta, aspetta, so cosa vuoi dire, ma ci ho pensato e basta, giuro! Ti ho… ti ho preso un amuleto».
Hazel estrasse un secondo fagottino da una delle tasche dei pantaloni, lanciando brevi occhiate al viso di Garnet per sincerarsi del suo umore. Sapeva benissimo quanto odiasse ricevere gioiellini, nastri per capelli e qualsiasi cosa potesse essere considerata un ornamento, ma sapeva anche che c’era una cosa che Garnet desiderava tantissimo e non avrebbe mai ottenuto. Forse regalargliela rimaneva comunque un azzardo, specie se qualcun altro l’avesse vista, ma tanto valeva…
Aprì il fagottino ed estrasse l’amuleto, e glielo porse con un sorriso tremolante. Era il più semplice e discreto che avesse trovato, una stella in rame a otto punte con il simbolo di Crocell al centro.
Aveva aggiunto un nastrino rosso, un po’ per buon augurio un po’ perché le sembrava che la stella e basta fosse un po’ spoglia.
«Ti prego, non farlo vedere a nessuno», la implorò «Per la Madre, se qualcuno dovesse scoprire che ti ho regalato una Luce…! Tuo padre mi prenderebbe a sassate. Non si avvicinerebbe perché gli faccio senso, ma un sasso lui non-».
«Chi è?», chiese Garnet. Stringeva l’amuleto con entrambe le mani e la voce le vibrava di emozione; Hazel si sentì quasi svenire per la gioia «Che Luce è?».
«Oh, beh, è Crocell», rispose Hazel, cercando di darsi un’aria più adulta mentre dentro si scioglieva come una ragazzina «L’ho scelto perché… per un sacco di motivi, in realtà; il primo ammetto che è il colore dei tuoi-».
Di nuovo Garnet non la lasciò finire. Le buttò le braccia attorno al collo e le tempestò il viso di baci, alternando sussurri che Hazel non colse subito – ma quando capì rimpianse di avere così poco tempo a disposizione.

Rimpianse anche di averle fatto un regalo del genere, dopo. Più ci pensava, più trovava che fosse stata una pessima idea e le si stringeva lo stomaco.
«Scusa il ritardo», disse piano, entrando nello studio del nonno in punta di piedi.
Il nonno era come al solito al suo tavolo da lavoro, chino sulle mappe con una matita in mano. Alzò brevemente lo sguardo, giusto il tempo di un’occhiata scintillante che tagliò la penombra della stanza come un fulmine, poi tornò alle carte.
«Cos’è successo?», chiese, grattandosi la barba bianca con il dorso della matita «Sembri preoccupata».
Davvero bastava così poco, uno sguardo e due parole? Le si leggeva tutto in faccia così bene?
«Forse ho fatto una sciocchezza», gemette Hazel «Ho regalato una Luce a Garnet. Lei ne voleva così tanto una, quando l’ho vista non ho resistito».
Questa volta il nonno la fissò più a lungo. Hazel temeva di scorgergli in viso rimprovero o comunque disapprovazione, rimase sorpresa quando lo vide solo inarcare un sopracciglio.
«Garnet è la figlia di…? Malcolm Rendu?».
Hazel annuì, e il nonno corrugò la fronte.
«Progetti qualcosa che dovrei sapere?», le chiese ancora. Hazel scosse la testa, sempre senza emettere un suono.
«Che Luce?».
«Crocell».
«E dunque?», sbottò allora il nonno, stringendosi nelle spalle «I pascoli sono a ovest. Smettila di perderti in stupidaggini e vieni qua, abbiamo del lavoro da fare».
I pascoli sono a ovest!, si ripeté Hazel. Era l’unica cosa sensata a cui avrebbe dovuto pensare e ovviamente era l’unica che non le era venuta in mente. I pascoli erano a ovest, Garnet andava sempre nei pascoli, e anche se aveva scelto Crocell per motivazioni più infantili cadeva a fagiolo! Nessuno avrebbe avuto da ridire. Non c’era niente di strano, no?
«Smettila di angosciarti e comincia con il rifarti le mappe che ti servono», sbottò il nonno in un tono a metà fra l’impaziente e l’infastidito.
«Sì, scusa, scusa».
Hazel posò la tracolla accanto al secondo tavolo di lavoro, poggiato alla parete opposta della stanza, accese la lampada ad olio e preparò tutto ciò che le serviva – le vecchie mappe, fogli nuovi, righe, matite e inchiostro; era un’attività che sin da bambina aveva sempre adorato, da quando aveva acquisito la luz aveva iniziato a spendere ore nella stanza del nonno a discutere con lui dei Sentieri, ipotizzando l’ubicazione dei Nidi e le abitudini dei Moloch. Era tutto così orrendo e affascinante al tempo stesso – e probabilmente era anche il terreno su cui germogliavano le vocette dello schifo.

Nel sogno era seduta fuori dalla chiesa.
Era certa che fosse un sogno perché non era la prima volta che capitava e ogni volta aveva sempre questa intensa sensazione di lucidità, ma sembrava tutto così reale. Il sole aveva cominciato da poco la sua discesa verso ovest e dall’altra parte del cielo, nascosta fra le nubi, poteva scorgere la falce appena accennata di una delle due lune (doveva essere Albia, dal colore).
Accanto a lei il Sentiero brillava e vibrava quieto, e come spesso faceva nei sogni le parlava. Ma non parlava con la voce suadente e melodiosa dei Moloch, i Moloch la chiamavano Zazie come faceva papà tanti tanti anni prima, il Sentiero la chiamava Hazel Audrey Bornholm con la solennità di un re che nomina un guerriero cavaliere (quante ne aveva lette di quelle storie!).
Il Sentiero non le faceva domande ma le mostrava immagini, frammenti di gente che non conosceva e che probabilmente non avrebbe mai conosciuto, gente con visi, vestiti, lingue diverse, di epoche diverse, di paesi così lontani che le sembravano irreali.
Il Sentiero la chiamava, il Nido la chiamava ancora più forte, ed era certa che un giorno sarebbe finita come il nonno, ad alzarsi nel sonno e grattare la porta chiusa a chiave perché era là che sentiva di dover andare ed era quello il posto a cui apparteneva.

Si svegliò frastornata, una guancia premuta sul tavolo e le braccia attorno alla testa.
«Nonno, scusa», borbottò, strofinandosi gli occhi «Devo essermi addormentata».
Il nonno si limitò a sbuffare. Era nel suo tipico atteggiamento “sono troppo concentrato per ascoltarti” e in quei momenti non amava essere interrotto, ma rivedendo la chiesa in sogno ad Hazel era tornato in mente un particolare che aveva rimosso dopo aver perso Thomas e aveva paura che, se avesse rimandato, sarebbe partita di nuovo scordandosi di parlargliene.
«Nonno», lo chiamò, e per attirare la sua attenzione si alzò e gli si portò accanto «Nonno, è possibile che un Sentiero fischi? Un suono come… lo stridio del metallo. Non mi era mai capitato».
«Può essere una pessima cosa come può non avere significato», rispose il nonno senza alzare lo sguardo «Com’era il Sentiero?».
«Normale. No, non è vero, ho avuto l’impressione che in un punto ci fosse qualcosa di diverso, ma non saprei dire cosa di preciso. Non ho potuto controllare, non… mi sembrava il caso».
«Tornaci, e se lo vedi agitarsi come se bollisse rimani lì. Se dovesse germogliare-».
«Oh per la Madre», lo interruppe Hazel «Non è possibile. È passato troppo poco tempo».
Pur avendo già la luz era ancora piccola l’ultima volta che un Sentiero si era biforcato, ma le sensazioni e i sogni di quei giorni erano indelebili. Aveva visto solo dopo più di un mese il paese che era stato attraversato dal nuovo Sentiero, e l’aveva trovato proprio come l’aveva visto in sogno, con l’unica differenza che molti dei vestiti abbandonati erano stati spazzati via dal vento e dalla pioggia.
«Se dovesse germogliare, voglio sapere all’istante in che direzione va», riprese il nonno «Anche se posso far evacuare tutti in dieci minuti, se dovesse decidere di puntare qui».
Hazel si sentì rincuorata. Il nonno aveva percezioni talmente fini che di certo se ne sarebbe accorto in tempo, se non in anticipo; un po’ era il motivo per cui tutti in paese lo trattavano alla stregua di un emissario degli Dei – probabilmente se si fossero trovati davanti una delle Luci l’avrebbero liquidata con meno riguardi.
Magari un giorno sarà così anche per me e potrò sposare Garnet, pensò, poi rise da sola. Ne aveva di strada da fare, dato che i ragazzini continuavano a sfruttarla per le prove di coraggio.
Il nonno le schioccò le dita davanti agli occhi.
«Zee, non ti distrarre. C’è qualcosa di più importante del Sentiero che fischietta» il nonno tacque un attimo, carezzandosi la barba con una mano «Sono molto, molto perplesso».
Hazel sgranò gli occhi. L’idea che potesse esistere qualcosa che sorprendeva il nonno le suonava così assurda che per un attimo pensò fosse uno scherzo. Peccato che il nonno fosse sempre mortalmente serio.
«Te lo ricordi il Sentiero che curva?», le chiese. Hazel annuì, il nonno ci si era fissato così tanto che sarebbe dovuta essere cieca, sorda e deficiente per dimenticarselo. C’erano due certezze al mondo sui Sentieri e la prima era che andavano dritti per decine e decine di chilometri, scavalcando qualsiasi ostacolo, eppure alcuni anni prima, quando ancora il nonno poteva muoversi, ne avevano trovato uno che si piegava di qualche grado. Una cosa quasi invisibile, avevano dovuto fare decine di misurazioni per averne la conferma, ma era così e nessuno sapeva spiegarsi il perché, nemmeno gli eminenti conoscitori di Sentieri con cui il nonno si teneva in contatto per via epistolare.
«Anche il nostromo che ho conosciuto ne ha visto uno», disse Hazel, passando in rassegna i fogli sul tavolo del nonno con lo sguardo «E’ segnato lì da qualche parte, in mezzo al mare. Solo che a differenza del nostro fa una curva così secca che sembra biforcarsi».
«Ce ne sono altri, Zee. Unendo le mie mappe a quelle che mi hanno appena spedito Wolf e Hirschhorn ci sono un paio di Sentieri la cui direzione tornerebbe solo se curvassero in qualche punto. Non sono in grado di dire dove, ma…».
Il nonno si interruppe, tamburellando le dita sul tavolo.
«Hai una qualche sensazione?», gli chiese Hazel con un filo di voce. Percepiva la tensione sia nell’aria che nelle spirali argentate che vorticavano folli nelle iridi del nonno.
«Ho una sensazione, sì, ma devo ancora lavorarci. Vai a dormire, Zee, ne riparliamo domani».
«Oh. Va bene», borbottò Hazel. Di colpo le era morta tutta l’eccitazione.
«E chiudimi a chiave. Non credo che dormirò molto, ma di certo avrò sonni agitati».

Come al solito il nonno aveva ragione.
Hazel fu svegliata nel mezzo della notte da un tonfo, e col cuore in gola ci mise qualche secondo ad orientarsi. Non era capitato spesso, ma non era nemmeno la prima volta che il nonno picchiava la porta con la stampella durante uno dei suoi attacchi.
Prima o poi succederà anche a me, fu l’inevitabile pensiero. Sgusciò fuori dal letto, chiuse a chiave la porta e lasciò cadere la chiave dentro uno degli stivaletti, un posto dove era sicura non avrebbe guardato nemmeno nella crisi più lucida, e per essere ancora più tranquilla lo spinse sotto al letto con un piede.

Hazel Audrey Bornholm,” la chiamavano i Sentieri, poi arrivava il canto dei Moloch a sovrastare il loro chiacchiericcio.
Zazie, Zazie, c’è qualcosa che desideri.”
Un’affermazione, non era una domanda.

La svegliò un altro tonfo, molto più intenso e molto più vicino. Ma la notte ormai era trascorsa, e al secondo tonfo capì che era il nonno che picchiava la sua porta con la stampella.
«Hazel!», la chiamò, accompagnandosi con un altro colpo che fece vibrare la porta «Alzati, mangia e poi vieni da me. Anzi, alzati e vieni da me subito!».
Da lontano arrivò anche la voce di sua madre; non riusciva a capire le parole, ma avrebbe scommesso su un “smettila di fare casino a quest’ora”.
Hazel sbadigliò e rotolò fuori dal letto, sfruttando lo slancio delle gambe per mettersi in piedi. Chinandosi recuperò lo stivaletto e la chiave, e mentalmente si rimproverò per tutte queste preoccupazioni inutili. Ma cosa ci poteva fare, lei era la reginetta delle preoccupazioni inutili, poco importava se poi aveva faticato ad addormentarsi e ora si sentiva uno straccio. C’era un’immagine che le si era piantata nella mente come un tarlo e più ci pensava più si convinceva che quel momento sarebbe giunto presto – ci si vedeva benissimo, a svegliarsi in piena notte con gli occhi che sprizzavano scintille d’argento, uscire di casa ed incamminarsi così, a piedi nudi, verso il Sentiero più vicino.
Si sentì invadere di nuovo da fitte di angoscia e cercò di scacciarle scuotendo la testa, ma ormai lì si erano impiantate e lì sarebbero rimaste per sempre. Finché non fosse diventata matta, ovvio, e aveva come il presentimento che non avrebbe dovuto aspettare tanto.
«Hazel!», la chiamò di nuovo il nonno, assestando un altro colpo alla porta – ma era ancora lì fuori?
«Arrivo, arrivo», borbottò lei in risposta, e avvertì il familiare rumore dei saltelli del nonno quando percorreva di corsa il corridoio.
Sembrava più eccitato del solito.

«Dimentica tutti gli impegni che hai!», esclamò il nonno sbattendo con energia le mani sul tavolo.
Hazel sussultò «Devo andare a ricontrollare il Sentiero che ha fischiato…?».
«Dimentica anche quella cazzata! Preparati viveri per almeno una settimana, voglio vederti per strada nel giro di un’ora. Vai, veloce!».
Hazel corrugò la fronte. Rispetto ad alcuni anni prima il nonno si era ammorbidito e andavano abbastanza d’accordo, ma per gli Dei quanto lo odiava quando cominciava a fare così, sbraitare e spedirla in luoghi a caso perché sì. Rimase ferma, una mano a massaggiarsi una spalla, e il nonno la guardò con un accenno di fastidio negli occhi.
«Dunque?».
«Prima mi spieghi», disse Hazel. Si era esercitata molto nel tenere salda la voce e fu felice di non sentirla tremolare come quella di una bimbetta «Poi mi muovo».
Il nonno brontolò qualcosa di incomprensibile, forse un’imprecazione, e si sedette al tavolo. Tacque qualche istante, tamburellandosi il mento.
«Forse mi sto agitando troppo», ammise infine, anche se dalle rughe che gli increspavano la fronte era palese che l’affermazione gli costasse fatica «E forse mi sto agitando per niente. Ma qui» e picchiò con forza l’indice su un mucchio di fogli di carta «c’è qualcosa e voglio sapere cosa. Osserva».
Con un’aria quasi mistica, il nonno dispiegò il foglio che aveva appena martoriato col dito. Si rivelò essere un’ampia mappa, poco più piccola del tavolo da lavoro, su cui erano riportati tutti i Sentieri in una scala tale da poter racchiudere tutta la regione.
Hazel notò ciò che il nonno voleva mostrarle molto prima che lui vi posasse l’indice: c’erano quattro sentieri che curvavano, tre di una manciata di gradi e uno che compiva quasi un angolo retto, e davano l’impressione di delimitare una zona.
Come se ci fosse un punto che proprio non volevano attraversare.
«Dici che non è un caso?», chiese, anche se era una domanda retorica.
Il nonno la prese in contropiede e si limitò a stringersi nelle spalle «E’ una semplice foresta, ci sono passato alcune volte in passato e non ho mai visto niente di strano. Ma è anche vero che non mi aspettavo di trovare niente, ed ero così superficiale ai tempi che non avrei trovato niente nemmeno sapendo cosa cercare. Vai, spingiti fino al centro di questa zona» ripassò con l’indice il cerchio che aveva tracciato all’interno dei quattro Sentieri «E se non trovi niente torna indietro. Dovresti arrivarci in tre, quattro giorni al massimo».
Hazel calcolò rapidamente la distanza con un’occhiata «Quattro, sì. Posso partire domattina».
Si spostò di mezzo passo, pronta ad una reazione che come immaginava non tardò. Il nonno sobbalzò sulla sedia, ruotò il torso e la fissò torvo, poi brontolò e sbuffò per mezzo minuto almeno ma non aggiunse altro.
Hazel si dileguò prima che cambiasse idea e la spedisse in cammino a suon di stampellate – cosa che era successa più volte, in passato.
Quando il nonno si emozionava per qualcosa non ammetteva “dopo”.

*
Il tempietto del Pellegrino era vuoto, come sperava che fosse.
Hazel richiuse la porta e vi si poggiò contro con la schiena, godendosi per qualche istante il silenzio e l’odore d’incenso che aleggiava nell’aria. La luce che penetrava dalle dodici finestrelle a forma di stella a otto punte era scarsa, ma bastava ad illuminare gli altari senza dover lasciare la porta aperta.
In cinque passi fu all’altarino centrale, su cui era poggiato un lume che non ricordava d’aver mai visto spento – da piccola pensava fosse una magia, poi un giorno aveva assistito al momento in cui sorella Esthel lo cambiava e l’incanto era finito di colpo, lasciandole l’amaro in bocca. In fondo dopo aver visto un Sentiero l’idea di un fuocherello inestinguibile le pareva quasi naturale.
Un pensiero pessimista di livello catastrofico si aprì uno spiraglio e tentò di farsi avanti, ma Hazel lo ricacciò indietro picchiettandosi la fronte con le nocche.
(pensare ai Sentieri aveva richiamato quello in procinto forse di biforcarsi)
Aprì la borsa di pelle che aveva legato alla cintura ed estrasse una manciata di cilindretti di incenso delle dimensioni di una castagna. Accese il primo e si spostò verso l’altare di Phenex, orientato a nord, e questa volta il rumore dei suoi stivaletti sulla pietra la fece rabbrividire.
(gli amici di città del nonno dicevano che negli ultimi cinquant’anni avevano cominciato a biforcarsi più spesso)
Mise l’incenso sul piccolo altare incastrato nel muro, si chinò su un ginocchio solo e poggiò la mano sinistra di taglio sullo sterno.
«Abbi misericordia di un’insignificante viaggiatrice e illuminale la strada», disse, poi si rialzò, tornò al centro ed accese un secondo incenso. Aveva pregato tutte e dodici le Luci prima di partire per l’ultimo viaggio, sarebbero state sufficienti quelle principali.
(prima o poi sarebbero morti tutti, questo le diceva il pensiero catastrofico. Morti tutti o, ancora meglio!, costretti a vivere nelle grotte sottoterra come sorci)
«Oh, Hazel, dacci un taglio», si disse stizzita, soffiando sull’incenso per dargli un po’ di grinta «Se anche fosse, per allora sarai già morta. Non aggiungiamo preoccupazioni inutili».
Depose l’incenso sull’altare di Vassago, a est, e lo pregò alla stessa maniera. Ripeté poi con Stolas, a sud, e quando fu il turno di Crocell le sfuggì un sorrisetto.
«Abbi misericordia di un’insignificante viaggiatrice e illuminale la strada», ripeté. Non riuscì a trattenersi e aggiunse: «E proteggi la sua amata. A differenza della viaggiatrice non deve attraversare Sentieri, ma può sempre farsi male. E scusa se ti ho scelto per motivi sciocchi».
Tornò all’altare centrale e accese altri quattro incensi, che dispose poi attorno al lume. Indietreggiò di un passo, si mise in ginocchio e si chinò tanto da sfiorare il pavimento con la fronte.
«Onore al Pellegrino, protettore dei viandanti», recitò «Proteggimi nel cammino perché non mi perda nel corpo e nella mente; e qualora il mio viaggio dovesse terminare, conducimi all’Altrove perché io non vaghi in eterno per questo mondo».
Aveva già la formula di chiusura sulla lingua, ma le passò davanti agli occhi il volto di Thomas e si bloccò. Non era sicura che il Pellegrino potesse fare qualcosa, quando qualcuno veniva toccato da un Moloch, ma si sentiva comunque in colpa a non dedicare almeno una parola a chi era morto durante uno dei suoi viaggi. La vedeva come una questione di rispetto.
E una flebilissima speranza, forse.
«Ti imploro, Pellegrino», disse, sospirando contro la pietra fredda del pavimento «Fa’ che Thomas Lynch non si perda, prendilo per mano e conducilo all’Altrove. Che il cammino sia luminoso e la tua luce possa dissipare le ombre nei miei occhi. Io ti accolgo».
Drizzò il torso, chinò solo il capo e si batté tre volte la mano di taglio sul petto.
Si sentì meglio all’istante. Forse era l’atmosfera del tempietto, forse la sensazione di affinità che le suscitava il Pellegrino; qualsiasi cosa fosse, aveva cacciato i pensieri pessimisti e li aveva sostituiti con una gradevole quiete.
Si sentiva pronta ad attraversare diecimila Sentieri e questo era ottimo, perché aveva buttato alla mappa solo una rapida occhiata ma ne aveva contati ben tre, per arrivare alla zona cerchiata dal nonno.
Prima di ripartire però voleva rivedere Garnet.

Il Pellegrino doveva averci messo mano. Forse aveva sentito il suo desidero e aveva deciso di esaudirlo (poteva fare una cosa del genere? Non che fosse importante), perché non le capitava frequentemente di vedere Garnet all’infuori dei loro incontri più o meno segreti.
Aveva quindi perso per un attimo coscienza del mondo quando se l’era trovata davanti, uscendo dalla casa di khef Leydig. Portava i capelli raccolti in una treccia e un fazzoletto bianco in testa, ma era comunque bellissima e soprattutto molto molto scollata nei suoi abiti da lavoro.
Hazel sentì le guance avvampare e cercò di nasconderlo coprendole con le mani.
«Signorina Rendu», balbettò, e Garnet inarcò un sopracciglio. Passò poi subito alla sua espressione tipo, quella che sembrava voler dire, in modo quasi doloroso, “ma noi ci conosciamo?”
«Signorina Bornholm», rispose con un accenno di sarcasmo nella voce «Sia più salda, le sfugge lo sguardo».
Hazel sussultò. Ora le bruciava tutta la faccia, ma benché si vergognasse non riusciva a trattenere qualche occhiata fugace verso il basso.
«E’ sempre… è… mi scusi», pigolò Hazel, ruotandole attorno per liberare la porta. Garnet la seguì con lo sguardo e spostò contro un fianco la cesta che teneva fra le braccia, per liberare una mano.
«Le auguro una buona giornata», disse Hazel. Chinò il capo, un po’ come gesto di saluto, un po’ perché gli occhi glaciali di Garnet erano insostenibili e la rivoltavano con una certa crudeltà.
«Buona giornata a lei», rispose Garnet. Aveva un tremito nella voce che sapeva di ilarità «A presto».
Hazel rialzò il capo solo quando sentì la porta richiudersi.
Perché doveva farle quest’effetto, per gli Dei? Ma soprattutto, cosa doveva fare così scollata da khef Leydig? Il khef era un uomo rispettabile, okay, ma doveva mettere in mostra così tanto?
Le sfuggì un lamento dalle labbra. Ecco come tutta la pace mentale ottenuta al tempietto se ne fuggiva via, rimpiazzata da altre angosce. Ma come poteva evitarlo? Tutta la sua vita ormai si divideva fra angosce e vocette dello schifo. Attraversare i Sentieri era un’angoscia, dormire di continuo all’aperto era un’angoscia, i Moloch figurarsi, e Garnet era l’angoscia suprema – scostante, gelida, ma soprattutto l’amava tantissimo e sapeva bene che prima o poi l’avrebbero maritata a qualche uomo di quelle parti.
Garnet era l’unica che la guardava negli occhi senza sentirsi a disagio e non c’era niente che potesse fare perché fra loro ci fosse un futuro.

Hazel interruppe la preparazione dello zaino per studiare la mappa per l’ennesima volta. Avrebbe avuto un torrente a poca distanza per buona parte del percorso e procacciarsi cibo in quelle zone non era mai stato un problema, ma ricalcolò comunque la distanza, per scrupolo.
I tre Sentieri non la preoccupavano, e dato che era certa che non avrebbe trovato niente pure la zona da esplorare la lasciava indifferente; perché diamine allora si sentiva addosso questa vaga irrequietezza?
Forse era la durata del viaggio. Non le dispiaceva muoversi da sola, ma una decina di giorni in compagnia soltanto dei suoi pensieri non era proprio l’ideale, al momento.

*
Giunse in vista del primo Sentiero al tramonto del primo giorno. Risaliva il pendio della montagna, passando sopra al torrente poco più in basso e addentrandosi in una fitta macchia di abeti rossi.
Hazel vi si affiancò e lo risalì finché non fu al margine del bosco. Niente le segnalava che ci fossero Moloch nelle vicinanze, nemmeno un accenno di pelle d’oca, perciò poté permettersi di attraversarlo in quel punto senza dover incespicare nel sottobosco.
Appena fu dall’altra parte, un brivido alla base della nuca le comunicò che un Moloch l’aveva notata e le stava ora venendo incontro, ma era talmente lontano – settanta, ottanta pecorelle almeno – che Hazel si limitò ad allontanarsi di corsa, con tranquillità, per rifugiarsi poi nel bosco un attimo prima che scadesse il conteggio. Era abbastanza lontana perché il Moloch non potesse raggiungerla neanche se l’avesse vista, e il suo canto le arrivava come un mormorio confuso privo di significato.
Per prudenza attese comunque che riprendesse il suo cammino sul Sentiero, prima di uscire di nuovo allo scoperto.
Tempo di accamparsi per la notte. Per fortuna la primavera avanzata recava con sé una temperatura gradevole, non portava bene accendere un fuoco così vicino ad un Sentiero.

La prima cosa che faceva ogni mattina, quando era in viaggio, era controllare il polso a cui aveva legato la corda. Era diventato un riflesso ormai, si ritrovava spesso a fissarlo quando ancora aveva gli occhi appannati dal sonno, e temeva il giorno in cui l’avrebbe trovato graffiato e arrossato. Anche quella mattina era intonso come tutte le altre volte, ma era certa che fosse vicino il giorno in cui avrebbe avuto bisogno di bardature più salde.

*
Il terzo Sentiero si preannunciava problematico. Attraversava un’ampia vallata priva di ripari, le prime macchie d’alberi erano troppo lontane e non si scorgevano nemmeno affioramenti rocciosi utili; l’unica possibilità era preparare la coperta e cercare di correre il più lontano possibile.
Hazel poggiò a terra lo zaino e si portò a pochi passi dal Sentiero. Le spirali di energia roteavano lente, parevano quasi ferme, ed era un buon segno; l’altro buon segno era che lei si sentisse benissimo, nemmeno un accenno di ansia o una vaga nausea o un formicolio sospetto.
Se c’era un Moloch nei paraggi doveva essere lontano chissà quanti chilometri.
Sganciò comunque la coperta verde marcio dallo zaino – di certo era più in tinta con la vallata dei suoi vestiti marroni – e se la posò su una spalla, tenendola con una mano. Con l’altra afferrò lo zaino e lo lanciò dall’altra parte del Sentiero, poi prese un respiro profondo e attraversò.
Nulla. Nessuna sensazione, nemmeno la più lieve, e ciò era assurdo. In tutta la sua esperienza era la prima volta che le succedeva, anche nelle situazioni più tranquille un brividino al collo era d’obbligo, e ora non sentiva neanche quello.
Sarebbe stato comunque idiota non approfittarne, quindi si caricò lo zaino su una spalla e si allontanò di corsa verso la macchia d’alberi più vicina. Moriva dalla voglia di voltarsi a guardare se qualcosa era cambiato, ma il nonno le aveva raccontato di gente stregata da un Moloch solo per averlo visto con un binocolo e il pensiero la fece resistere.
Probabilmente poi non era cambiato niente, glielo suggeriva l’atmosfera.
Si sedette all’ombra di un abete per ripiegare la coperta, e ne approfittò per prendersi due morsi di carne secca e studiare la mappa per l’ennesima volta. Era entrata nel territorio segnato dal nonno, e il sole ancora alto nel cielo le garantiva almeno altre quattro o cinque ore di luce. Poteva proseguire verso il centro della zona, accamparsi al tramonto e perlustrare la foresta dal mattino seguente, senza l’impiccio dello zaino che la rallentava parecchio. E magari piazzare un paio di trappole, non avrebbe certo disdegnato un po’ di carne fresca.
Delle due lune, Albia era quasi piena e, seppur calante, anche Noxe avrebbe brillato alta per tutta la notte; se il cielo fosse rimasto libero come in quel momento, avrebbe avuto un’altra nottata luminosa.

Nel sogno era davanti al Terzo Sentiero.
Dubitò per un attimo che fosse un sogno, e fu presa dall’intensa angoscia di non essersi legata bene o essersi liberata e di aver ripercorso la strada nel sonno.
Poi il Sentiero la chiamò
(Hazel Audrey Bornholm)
ma i Sentieri di giorno non la chiamavano mai in quel modo, e ciò la rasserenò.
Albia brillava eterea ed etereo era anche il Sentiero, nel suo avvilupparsi quasi liquido eppure impalpabile.
Pareva così fiacco, con le spirali che si muovevano lentissime e il tintinnio appena percettibile, e pure le immagini che le mandava avevano un che di svogliato – erano appannate, come ricoperte da condensa, i colori spenti e smorti di una giornata plumbea.
Hazel Audrey Bornholm, la chiamò di nuovo, ma il cognome uscì in un mormorio confuso, quasi biascicato (che follia, come se un Sentiero potesse biascicare qualcosa), eppure in tutto ciò emerse qualcosa di diverso. Una certa urgenza, forse, un avvertimento.
Di colpo il Sentiero scomparve e scomparvero anche le lune nel cielo, e la notte diventò talmente nera e ammorbante da essere quasi solida. Hazel traballò, annaspò e cadde indietro, e benché sentisse l’erba morbida fra le dita non la vedeva.
Poi esplose una luce abbagliante, così intensa da costringerla a chiudere gli occhi. Hazel non ne aveva la certezza razionale, ma dentro sapeva benissimo che la luce proveniva da qualche parte nell’area alle sue spalle, quella che i Sentieri volevano evitare.
Doveva esserci qualcosa, e qualsiasi cosa fosse cercava di farsi notare.

Eppure non c’era niente di insolito.
Hazel si fermò in un punto in cui gli alberi si diradavano per valutare la posizione del sole. Abbassò poi lo sguardo sulla bussola e sfilò la mappa dalla cintura.
Si era spinta fin quasi al centro e l’unica cosa degna di nota erano state alcune piante di fragoline selvatiche da cui aveva attinto con gioia, per il resto era il sottobosco più normale e noioso che avesse mai visto. Di tanto in tanto era incappata in qualche segno di passaggio umano – simboli sugli alberi soprattutto, e un paio di focolari propiziatori per il Pellegrino che aveva salutato con un inchino rapido – ma a parte questo era sola. Niente persone, niente di strano.
Cominciava a credere che, per quanto vivido, il sogno non fosse altro che un parto della sua mente e non un qualche messaggio da parte di chissà cosa.
«C’è nessuno?», gridò, tanto per, e sussultò quando alcuni uccelli presero il volo dagli alberi attorno a lei.
No che non c’è nessuno, stupida, si rimbrottò, e si stava già sedendo per terra quando una fitta le trapassò una tempia, rapida e lancinante. Perse l’equilibrio e cadde sulle ginocchia, disorientata.
Gli occhi cominciarono a pulsarle, accompagnandosi a un dolore sordo sul fondo dell’orbita; era una sensazione familiare e questo la rendeva ancora più assurda, perché era la stessa che aveva provato la prima volta in cui aveva visto un Sentiero, pochi istanti prima che le si risvegliasse la luz. Forse lei l’aveva scordata, ma il suo corpo no di certo e ancor meno aveva scordato il dolore allucinante che era seguito, e ora non riusciva a trattenere i brividi e i denti sbattevano così forte che aveva paura di tagliarsi la lingua.
Ma non poteva accaderle di nuovo, no? Non si era mai sentito di qualcuno a cui fossero scoppiati gli occhi due volte, no?
Si strofinò gli occhi e il dolore nel giro di pochi istanti si ridusse, e Hazel accolse il miglioramento con un sospiro di gioia. Era tutto a posto, non stava per succederle niente, forse era stato solo-
Alzò lo sguardo di scatto verso il cielo. Fino a poco prima c’era qualche nuvola, sì, ma ora la volta azzurra si era ricoperta di uno spesso strato di nubi, così, di punto in bianco.
Hazel tornò in piedi e si rimise in cammino, puntando all’area più centrale della foresta.
Qualcosa cercava di attirare la sua attenzione, aveva avuto il dubbio nel sogno e ora ne aveva la certezza, e forse era sulla buona strada.
Scavalcò una radice sporgente e abbandonò quell’accenno di sentiero che i passi di centinaia di altri viaggiatori avevano tracciato, inoltrandosi nel sottobosco. Aveva l’impressione che da quando il sole era stato coperto si fosse fatto tutto più silenzioso ed immobile; niente più fruscii, se non quelli che provocava lei infilandosi nei varchi fra i cespugli o facendosi strada col coltello, e niente frullare d’ali o gorgheggiare di uccelli. Assurdo, non sentiva nemmeno un insetto.
Luce grigiastra filtrava dalle cime degli alberi, quindi niente sole. Estrasse allora la bussola, ma sembrava impazzita: l’ago dondolava da una parte e dall’altra quasi fosse indeciso, e dopo qualche colpetto di indice prese ad indicare quello che, ed era abbastanza brava ad orientarsi da esserne certa, era l’est e non il nord.
Sì, c’era qualcosa. Qualcosa faceva impazzire il magnete e forse lo faceva apposta.
Si guardò indietro; era passata fra le piante in modo così traumatico che persino un cieco avrebbe potuto seguire il percorso a ritroso, ma decise comunque di lasciare un segno sull’albero che aveva accanto, per scrupolo, e continuò a farlo man mano che proseguiva.

C’era uno specchio d’acqua, lì in mezzo, ed era assurdo, soprattutto perché aveva trovato decine di segni di viaggiatori e nessuno lo segnalava.
Era uno specchio d’acqua minuscolo, del diametro di tre o quattro metri ad esagerare, circondato da quelli che le sembravano proprio salici. Salici lì?
La superficie sarebbe dovuta essere immobile e invece si increspava in piccole ondine che partivano dal centro, e illuminava i salici di riflessi argentati.
Alzando lo sguardo, Hazel riusciva a scorgere il cielo fra le fronde degli alberi. Si era rasserenato, e dalla luce il sole doveva essere ormai basso sull’orizzonte.
Le era parso di camminare per ore e così era stato, evidentemente.
Si chinò sullo specchio d’acqua per scrutare il fondo, e l’oscurità che le si aprì dinanzi la spinse a ritrarsi intimorita. Doveva essere profondo decine e decine di metri.
L’acqua aveva un bell’aspetto e un odore gradevole, di bosco, ma benché la trovasse ben più allettante di quella stantia nella sua borraccia aveva un che di infido. Tutto lì intorno era infido, i salici immobili sembravano deriderla e per un terribile istante, di fronte a lei, le parve che i tronchi degli alberi assumessero le fattezze delle orbite di un teschio.
Tutta suggestione, certo, ma si fidava delle sue sensazioni perché non sbagliavano mai; l’atmosfera sapeva di morte, e non la morte classica con roba putrefatta, sangue e cadaveri – una morte diversa, più eterea, come la morte data dai Moloch.
«Non dovrei essere qui», disse, e sussultò al suono della sua stessa voce. Era convinta di averlo solo pensato.
«Non dovrei essere qui», ripeté con un tono più alto, e le parve quasi che le sue parole rimbombassero nel sottobosco «Però non sono qui per caso, vero? Sono qui perché qualcosa vuole che io sia qui. Vero?».
Niente si degnò di rispondere, ma fu come se il senso di immobilità si fosse intensificato. L’acqua smise di incresparsi e i riflessi sugli alberi si fecero fissi e più intensi.
«Cosa sto aspettando?», chiese Hazel, un po’ a se stessa e un po’ all’ambiente «Che faccia buio?».
Lo spirito malvagio che compare col calare delle tenebre, un classico. Incoraggiante.
Cercò di distrarsi pensando a Garnet, ma come nei giorni precedenti la sua immagine le lasciò l’amaro in bocca. Forse avrebbe dovuto chiederle che ci faceva dal khef, prima di partire, almeno si sarebbe risparmiata migliaia di orribili congetture.
Deviò i pensieri su tutte le leggende che aveva sentito a proposito di spiriti notturni. Non era possibile fossero tutti malvagi, no? Qualcuno buono c’era di sicuro. Anche se la maggioranza era del tipo che ti propone un paio di desideri e poi approfitta delle ambiguità, e non era certa potessero classificarsi come “buoni”.
Scorse con la coda dell’occhio i rami dei salici che ondeggiavano e alzò lo sguardo. Lucine bianche comparvero a mezz’aria dalla parte opposta dello specchio d’acqua, proprio dove le era parso di vedere il teschio, e una nebbia biancastra cominciò a salire dall’acqua in volute armoniche, prendendo forme sempre più umanoidi ad ogni istante che passava.
Hazel si morse un labbro e strinse le ginocchia al petto. Sentiva il cuore in gola e le gambe molli, se anche avesse cercato di scappare sarebbe scivolata subito e comunque non voleva farlo. Strinse forte le mani attorno alle ginocchia e aspettò in silenzio.
Forse si era appena fatta attirare in trappola da uno spirito cattivo e affamato, perfetto, ma se c’era anche solo una minima possibilità che potesse fare qualcosa per i Moloch…
La nebbia lattiginosa si fece più solida, prendendo la forma di quello che sarebbe parso un ragazzino umano, se non avesse avuto la pelle del colore della neve. Il caschetto irregolare che gli incorniciava il viso aveva riflessi più rosati, come del latte mischiato alle fragole, e indossava un abito bianco che sapeva di paesi lontani, stretto in vita da una cintura dello stesso rosso dei bordi.
Fa’ che sia uno spirito buono, pregò Hazel. Voleva battersi la mano sul petto per chiedere protezione al Padre, ma le braccia erano troppo rigide e non rispondevano ai suoi comandi.
Lo spirito rimase in silenzio per un tempo che le parve infinito, con gli occhi chiusi e un sorriso inquietante sulle labbra appena aperte, poi finalmente sembrò prendere vita e allargò le braccia.
«Mi hai sentito!», esclamò, in una voce così umana e colma di eccitazione che Hazel si sentì presa in contropiede. Si aspettava parole melliflue e malevole, non certo un tono da bambino emozionato.
«… sì?», rispose, aggrottando la fronte.
Lo spirito si sollevò in punta di piedi e fluttuò sopra lo specchio d’acqua fino a portarsi davanti a lei. Hazel scivolò un po’ indietro, d’istinto.
«Sei qui perché mi hai sentito, non è vero?», continuò lo spirito «Come hai fatto a sentirmi? Cos’hai visto? Eri nella foresta?».
Hazel aprì la bocca, ma incrociare gli occhi dello spirito le fece morire le parole in gola. Le sclere erano scure e le iridi di un grigio liquido, scintillanti e percorse da spirali d’energia come le sue e quelle del nonno.
«Hai la luz?», gli chiese, per quanto le sembrasse improbabile, e lo spirito le rivolse uno sguardo confuso. Hazel allora optò per un’altra domanda, quella che avrebbe dovuto fargli subito: «Chi sei?».
L’espressione dello spirito cambiò di nuovo, assumendo questa volta toni stizziti. Borbottò qualcosa di incomprensibile; sembrava a disagio, come se-
Come se si vergognasse.
«Sei uno spirito malvagio?», gli chiese allora, e lui rise.
«Per le corna di Sitri, figuriamoci», rispose «Uno spirito. Uno spirito. Malvagio chissà» e le rivolse un sorriso di dentini affilati che le diede i brividi «Ma uno spirito! Ti prego».
Hazel deglutì. C’era un’altra possibilità, e solo pensarci le rivoltò lo stomaco.
«Allora sei un Moloch?», disse con un filo di voce.
Lo spirito la fissò perplesso per alcuni istanti, poi si lasciò andare in uno scoppio di ilarità tanto travolgente da ribaltarsi a mezz’aria. Rimase poi così, a fluttuare, ed incrociò le gambe.
«Sono certo che la tua mente semplice non abbia intenzione di offendermi, ma fossi in te misurerei le parole», sghignazzò, poi parve farsi più serio e guardò per qualche istante verso l’alto, pensieroso.
«Quanto tempo è passato?».
«Da cosa?», chiese Hazel. Lo spirito la fissò con astio, e lei si affrettò ad aggiungere «Dai Tre Giorni di Luce, intendi? Cinquecento anni! Cinquecentoventidue, per l'esattezza».
«Cinquece-» lo spirito sussultò. Si mordicchiò una nocca e borbottò qualcosa di incomprensibile «Non so cosa siano i tre giorni eccetera, ma è probabile. Cinquecento! Cinquecento! Sarà andato tutto in malora!».
Si piegò in avanti, sempre fluttuando a mezz’aria, e avvicinò così tanto il viso a quello di Hazel che lei poté rendersi conto che non respirava. Ovviamente, che si aspettava da uno spirito?
«Ma tu sei viva», disse dopo alcuni lunghissimi secondi di osservazione.
«Credo», rispose Hazel, e si diede subito della cretina.
Lo spirito le batté il dito in mezzo alla fronte – Madre dolcissima, com’era reale! Così… così fisico.
«Devi spiegarmi un po’ di cose, allora. Questi, innanzi tutto» accennava sicuramente agli occhi, era qualcosa a cui era talmente abituata da coglierlo al volo «E poi il resto. Devo capire. Aggiornami».
Hazel tentennò.
«Non vuoi farmi del male, quindi? Propormi patti strani? Impossessarti del mio corpo?», gli chiese con la voce ora un po’ più salda.
«Non credo», sghignazzò lo spirito «Magari dopo».
«Allora dimmi cosa sei», disse Hazel. Sperò di non suonare troppo imperativa «O chi. Come ti chiami? Io sono-».
Esitò. Dare il proprio nome a creature magiche nelle leggende non portava mai cose buone, ma quello più mistico era il secondo nome, no? Sperò di ricordare bene.
«Hazel Bornholm», continuò «Figlia di Mathias Bornholm».
Lo spirito la guardò corrucciato. Roteò su se stesso un paio di volte, sbuffò e poi tornò a fluttuare a gambe incrociate, incrociando anche le braccia e drizzando la schiena con un certo orgoglio.
«Vassago», disse.
Hazel sbatté gli occhi. Non era sicura di aver sentito bene.
«Luce dell’est, rivelo cose passate e future, trovo la roba persa e bla bla bla».
«No», borbottò Hazel, e lo spirito sbuffò di nuovo.
«Ma sentila. Invece di inchinarsi dice “no”. Prima che tu lo chieda, perché so che vuoi chiederlo, sì, sono davvero io, sono davvero Vassago e sto passando un momento sgradevole. Anzi, lo stiamo passando tutti, gradirei quindi non sprecare questo tempo prezioso e l’ancor più rara occasione che mi hai dato e combinare qualcosa di utile».
«Tu non- Voi non potete essere qui», balbettò Hazel. Voleva aggiungere un appellativo degno, ma “vostra luminosità” le suonava ridicolo.
Era una Luce? Era davvero una Luce? Come diamine ci si rivolgeva alle Luci?
Riuscì a rompere la rigidità che le aveva preso il corpo e si mise su un ginocchio, battendosi il petto con la mano di taglio.
«Perdonatemi. Perdonate la mia mancanza di rispetto, io non-».
«Sì, dai, lascia stare», sbuffò Vassago. Si distese su un fianco e poggiò il viso su una mano «Ora come ora trovo le formalità ridicole e vagamente imbarazzanti. Fai quello che ti ho chiesto e aggiornami su come va il mondo, rapida e concisa. Non sopporto chi parla troppo».
Per quanto le sembrasse una richiesta assurda – se davvero era Vassago doveva essere in grado di avere quelle informazioni da solo, l’aveva detto lui per primo – Hazel si fece forza e tornò a sedersi in una posizione più comoda.
«Allora, dunque… avete detto di non sapere cosa sono i Tre Giorni di Luce», disse, e Vassago la fissò con una vaga compassione dipinta in faccia «E’ successo tutto cinquecento anni fa, appunto. Cioè, io non c’ero, ovvio-».
«Ma non mi dire», borbottò Vassago.
«Ma stando agli storici dell’epoca, ci furono tre giorni in cui, nonostante il sole sorgesse e tramontasse normalmente, il cielo rimase avvolto da un bagliore biancastro. Il primo Nido sembra essere comparso durante uno di quei giorni, e i primi Sentieri sono germogliati dal Nido nei mesi successivi».
Vassago emise un verso seccato e le fece segno di andare avanti con una mano.
«E… quindi…» cos’altro c’era da dire? «Da allora di tanto in tanto compaiono Sentieri nuovi, e con una frequenza che non conosco si aprono anche nuovi Nidi».
Rifletté qualche istante, poi aggiunse: «E sui Sentieri si muovono i Moloch».
Le pareva stupido precisarlo, ma Vassago reagì inarcando un sopracciglio.
«E i tuoi occhi?», le chiese, la voce ancora più seccata.
«Io ho la luz. Posso vedere cose che gli umani non vedono. Vedo i Sentieri, sento quando arrivano i Moloch… ho sentito voi…?».
«La luz», ripeté Vassago, prolungando la z. Si sporse e di nuovo portò il viso a pochi centimetri dal suo «Come l’hai ottenuta? Rubata da qualche parte?».
«No!», esclamò Hazel «E’ di famiglia. Me l’ha passata mio nonno e si è solo… svegliata».
Le attraversarono la mente vaghi ricordi di quel giorno, soprattutto il dolore atroce e la sensazione degli occhi che scoppiavano.
Vassago emise un altro versetto stizzito.
«Pensavo peggio», disse poi «I Moloch sono molto accurati nel loro lavoro, mi stupisce trovare ancora qualcuno in vita. A quanto pare sono troppo accurati».
«Lavoro?», borbottò Hazel, ma Vassago non sembrava intenzionato a degnarla di risposta. Rotolò a pancia in su, accavallò le gambe e si mise a fissare il cielo in silenzio.
No, in realtà stava parlottando con se stesso, ma a voce così bassa che Hazel non coglieva una parola. Non era nemmeno certa che quella fosse ancora la sua lingua.
«Sommo Vassago», disse piano, chinando il capo in una posizione che sperava sembrasse sufficientemente umile «Sommo Vassago, che cosa succede?».
Non ottenne risposta. Si mordicchiò un labbro e tentennando aggiunse: «C’è qualcosa che posso fare?».
«Boh».
La risposta di Vassago la prese in contropiede. Un po’ perché si aspettava altro silenzio o al massimo un qualcosa di stizzito, un po’ perché sentire una divinità rispondere “boh” le sapeva di contro natura.
«Devo pensarci su», disse ancora «Torna domani».
«Sommo Va-».
Vassago implose in una spirale bianca e scomparve. Hazel rimase sola sotto la luce di Albia senza neanche una risposta, ma da qualche parte dentro di sé sentiva brillare una flebile speranza. Non era ancora convinta che Vassago fosse chi diceva di essere, ma più passavano i minuti più cominciava irrazionalmente a crederci.

Quando ricomparve, il giorno dopo, Vassago vibrava d’eccitazione. Hazel si inchinò e fece per aprir bocca e salutarlo in modo ossequioso (ci aveva pensato un sacco e aveva deciso che un “vostra eccellenza” poteva essere appropriato), ma lui la liquidò con un frettoloso gesto della mano.
«C’è una cosa che tu puoi fare e farai per me, ragazzina», disse, sfarfallando al di sopra dello specchio d’acqua. Le si portò davanti e rimase a fluttuare ad un passo da lei.
«Sarebbe un-», disse Hazel, ma Vassago la interruppe di nuovo agitando una mano.
«Ho riflettuto parecchio in questi lunghissimi anni, mentre indebolivo i sigilli, perché la soluzione più efficace sarebbe mettermi in contatto col Pellegrino e da qua non posso farlo».
Al nome del Pellegrino Hazel sussultò. Non capiva bene neanche lei perché le facesse quest’effetto, ma ora aveva i brividi. Forse il suo corpo cominciava – in ritardo – a capire con chi stesse parlando.
«Perché non potete contattarlo?», si azzardò a chiedere, e Vassago arricciò il naso in una smorfia infastidita.
«Perché il mio corpo e il mio nucleo sono di là-».
«Nell’Altrove?», lo interruppe Hazel. Vassago sbuffò.
«Come ti pare. E la mia testa invece è qui» indicò con il pollice lo specchio d’acqua sotto di lui «Non so quanto mi ci è voluto per indebolire i sigilli quel tanto che mi basta per manifestarmi qui, dovessi fare da solo ci metterei millenni. Tu puoi abbreviare le cose».
«E come?», borbottò Hazel. Una morsa gelida le strinse lo stomaco, perché sapeva benissimo in che situazioni il Pellegrino si faceva vivo e non erano situazioni belle.
«Muori!», esclamò Vassago, diretto come una stilettata «Affogati qui dentro, così quando quello là viene a prendersi la tua anima può fermarsi a parlare con me».
Hazel si sentì mancare il fiato, e riuscì ad emettere solo un misero “eh?” a cui Vassago rispose con un gemito esasperato.
«Cosa non ti è chiaro? Da solo non posso contattare quel ca- il Pellegrino. La sua esistenza è limitata a questo piano, e con il mio nucleo dall’altra parte non ho le energie per richiamarlo. Non so con che criterio si muova di persona, ma sono certo che non deleghi quando muore qualcuno con occhi come i tuoi. Quindi tu ti uccidi, lui viene qui, ritocchiamo il mio contratto e puff! Sarò libero, potrò liberare anche quegli altri incompetenti dei miei colleghi e sistemeremo questo macello».
Fissò Hazel per qualche istante ed aggiunse, incoraggiante: «Salverai il mondo!».
In tutta risposta Hazel si limitò a scuotere il capo, mordicchiandosi un labbro. Sperava di aver sentito male, ma in realtà aveva capito cosa Vassago volesse da lei non appena aveva nominato il Pellegrino.
«No», borbottò. Una vocetta dello schifo si aprì un varco sul fondo della testa e le urlò che faceva pena, ma il panico che le aveva preso il resto del corpo la ricacciò nell’oblio.
Sentiva le ginocchia molli.
«“No” è una risposta che non contemplo», sbottò Vassago fissandola con astio, poi il suo sguardo si addolcì appena e con esso si ammorbidì anche il suo tono di voce «E’ un sacrificio che qualcuno deve fare. Tanto voi umani avete una vita breve, no? Quanti anni ti rimangono, venti, trenta? Dieci? Ne vale davvero la pena? Non preferiresti morire per, che ne so, qualcosa di più alto?».
«Ma io non voglio morire», pigolò Hazel, e le fece schifo sentire la propria voce così piagnucolante.
«Fa morire qualcun altro, che vuoi che mi freghi. Preferirei qualcuno con gli occhi come i tuoi, ma possiamo anche provare con gente comune».
Le balenò in mente l’immagine del nonno e le venne da vomitare solo per averci pensato.
Fai proprio schifo, ragazza mia, le strillarono le vocette in fondo alla testa.
«Senti, ragazzina», sibilò Vassago, stringendo i dentini appuntiti «Mi serve qui il Pellegrino e non riusciresti ad attirarlo nemmeno piangendo tutte le tue lacrime, l’unica possibilità è vedere se un’anima contaminata come dev’essere la tua lo spinge ad alzare il culo. Altrimenti, beh, se non hai fretta puoi metterti comoda e aspettare quei due, tremila anni che mi serviranno per togliermi quei sigilli del cazzo e venirmi a riprendere la testa. Mi chiedo cosa sarà rimasto per allora, magari quando sarete tutti crepati il Pellegrino si renderà conto che qualcosa non va e si metterà a cercarci».
Hazel boccheggiò. Io non voglio morire, voleva ripetere, ma non le uscivano le parole dalla gola.
Vassago la fissò a lungo, l’espressione sempre più infastidita ogni secondo che passava. Alla fine sbuffò ed incrociò le braccia.
«Pensaci su e ti renderai conto che è quello che devi fare. Puoi tornare quando avrai trovato un po’ di fegato. O anche quando sarai vecchia e malata, io di certo non ho fretta. Qualche decina d’anni passerà in un lampo».
Si spostò al centro dello specchio d’acqua e con uno sfrigolio si accartocciò su se stesso e scomparve.
Hazel fu felice di essere rimasta sola, sia perché ora poteva piangere, sia perché voleva scappare via già da un po’ ma era sicura che al buio si sarebbe spaccata il naso inciampando da qualche parte.

Quella notte non riuscì a dormire neanche un minuto. Rimase tutto il tempo seduta a fissare l’acqua, mentre nella testa le parole di Vassago la schiaffeggiavano e le vocette dello schifo le sputavano addosso.
Era certa, lo sentiva nel profondo, che Vassago non le stesse mentendo. Sapeva pure benissimo che, benché nemmeno lui sembrasse del tutto convinto, farlo parlare con il Pellegrino era la cosa giusta da fare, a qualsiasi risultato dovesse portare.
Però la sola idea di uccidersi le faceva venire la nausea. Aveva pensato tante volte a come sarebbe morta, se presa da un Moloch, di malattia o assassinata da qualcuno a cui faceva paura, ma suicidarsi non l’aveva mai nemmeno considerato, neanche nei momenti più bassi della sua vita.
Aveva vent’anni, sapeva che sarebbe stato giusto sacrificarsi ma non voleva farlo.
Che codarda che sei, le gridarono le vocette dello schifo.
Hazel non poté che dar loro ragione e scoppiò a piangere di nuovo.
   
 
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