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Autore: Applepagly    21/07/2015    1 recensioni
Arrivate con un'espressione a dir poco seccata, scaraventate la cartella dell'angolino più remoto del salotto o della cucina e vostra madre, come un mantra, vi chiede cosa sia successo.
Era proprio quello, il problema. Non era ancora successo niente.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'How long must we sing this Song?'
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Buon pomeriggio!
Spero che tu non stia soffrendo il caldo come me; in caso contrario, consolati pensando che non sei solo/a. Comunque, come promesso, ecco il secondo capitolo, il penultimo, quello in cui non compaiono frasi dal testo della canzone; è più un ricordo in cui spiego (più o meno) il perché del titolo e della scelta.
Che altro dire...? Buona lettura e buon'afa!
Ci rivediamo con l'ultimo capitolo martedì prossimo, ottimisticamente parlando.
TheSeventhHeaven
 
 
 
The Scientist
Seconda parte
 
 
  Tutta quella storia aveva avuto inizio diversi mesi prima, ad ottobre.
Anzi, per essere precisi, tre giorni esatti dopo il mio compleanno. E' buffo pensare che si sia trattato solo di un malinteso, sulle prime.
  - Sono buonissimi! - esclamò Sarah, con un sorrisone ad illuminarle il viso. Stava ancora masticando un muffin. - Cosa c'è, dentro? - mi chiese, analizzando la cartina colorata che lo avvolgeva, come avrebbe fatto un dottore con un paziente. - Cioccolato e banana! - affermai.
Avevo trascorso una domenica intera per preparare quei dolci e, siccome quel giorno si sarebbe tenuta la festa di fine anno, avevo deciso di abbondare. Tre cesti pieni delle mie creazioni troneggiavano sul tavolo della nostra sezione, in corridoio. Anche se, a pensarci bene, non passava molta gente da noi, dal momento che la nostra aula era in un'ala della scuola desolata come poche. - Sono i muffins del buonumore! - continuai.
  La mia compagna di classe rispose con un sorriso e poi s'incamminò alla volta di altro cibo. Anche io avrei voluto andarmene in giro per la scuola con la scusa di assaggiare le varie leccornie; ma non potevo allontanarmi di lì. E poi, avrei rischiato di incontrare lui e non mi andava. Da quel giorno infausto erano passate due settimane; io non mi ero fatta più viva, agli intervalli, né lui era venuto a cercarmi. E, dopotutto, perché mai avrebbe dovuto?
  - Com'è andata, la gara di ieri pomeriggio? - mi domandò Gemma. Lei aveva preparato delle piccole brioches ripiene di marmellata. Com'era adorabile. - Oh, bene... cioè, diciamo che dopo aver gareggiato mi sentivo soddisfatta, ma... poi ho realizzato di essere un'incompetente, guardando l'esibizione di altri ragazzi. - scossi la testa. La strada era ancora molto lunga. - Però va bene così.
- Avrei tanto voluto esserci... - sospirò lei. - Ma no; non fa niente! - smentii io. Forse era meglio che non fosse venuta o avrei sicuramente sbagliato tutto, per il panico.
  Certe volte mi domandavo cosa sarebbe successo, se Lino fosse venuto ad una mia gara di Karate. Immagino che mi sarei ritirata, pur di non avere i suoi occhi di nuovo fissi su di me; e sarebbe stato ancor più imbarazzante se si fosse trattato di un combattimento. Ancora mi bruciava, il suo commento di quel giorno...
Però, mi chiedevo... chissà come doveva essere, avercelo per casa... - Oh, eccolo là! - sentii sorridere Gemma; e per un attimo ebbi davvero paura che si riferisse a Lino. Ma poi mi tranquillizzai, ricordandomi che lei non lo conosceva.
  Alzai la testa in direzione dello sguardo della mia amica. - Beh? - chiesi, con la stessa enfasi di un pesce. - E' solo un rappresentante d'istituto.
- No, Ann. Vedi ciò che ha in mano? - lo indicò. Mi stava simpatico, quel ragazzo; era sempre gentile e sorridente. - Li vedi, quelli? - aveva dei foglietti scuri, tra le mani e, la cosa più strana era che una folla di ragazze lo stesse seguendo, smaniando per uno di quei cosi. - Quelli - proseguì - sono i biglietti per il ballo della scuola.
- Il cosa? - andiamo, non era certo una scuola da americanate, la nostra! O forse sì...? - Sì, il ballo. Non è il primo anno, che lo organizzano. - spiegò Gemma. - Davvero non ne sapevi nulla?
  Scossi la testa; ma in quei pochi minuti mi ero già fatta una mezza idea di cosa significasse. Abiti lunghi, tacchi, musica assordante e, soprattutto, cavalieri da trovare. O meglio, introvabili; almeno, per gente come me. - Beh, io vado a prenderne uno. - mi avvisò, frugando nella sua borsetta per prendere dei soldi.
Per un attimo pensai di seguirla. Però... no, non ero il tipo di ragazza che prendeva parte a certi eventi. - Okay. - e poi, non avrei avuto un accompagnatore.
  - Oh, accidenti! - sbuffò, tornando poco dopo. - Non ho abbastanza soldi! - quanto diamine veniva a costare uno di quei cosi, allora?
- Ora controllo, però penso di non avere nemmeno una moneta, con me... - bofonchiai, constatando quanto effettivamente il mio portafogli fosse vuoto. Ci mancava soltanto che una farfalla se ne svolazzasse fuori dalle tasche. Tutta colpa di quella macchinetta infame. - Non fa niente. - agitò le mani. - Domattina i rappresentanti saranno qui a scuola, a vendere biglietti. Così possiamo prenderli.
Io ridacchiai. - Non crederai che io abbia intenzione di venire! - e lei mi guardò come se avessi detto la cosa più stupida del mondo. - No, Gemma. Non ho nemmeno qualcuno con cui andare.
- Guardati attorno, Ann. - scosse la testa, facendomi un cenno in direzione di quella marmaglia di ragazze. - Credi davvero che abbiano tutte un ragazzo con cui andare?
  Effettivamente, su venti potevano averlo al massimo sei o sette. - Beh... - o magari lo avevano tutte ed avevamo preso un granchio. - Te lo dico io: no. La maggior parte ci va per divertirsi con gli amici, per ballare, o fare nuove conoscenze. - spiegò.
- Beh è perfetto, perché di amici con cui divertirmi non ne ho, fare nuove conoscenze non mi interessa e, soprattutto, non so ballare. - risi, ricevendo un'occhiataccia. - Non quella roba che si balla al giorno d'oggi, almeno.
- E cosa, allora? Il minuetto? Il valzer? - lo disse ironicamente, non potendo davvero credere possibile una cosa del genere. Solo quando vide le mie guance imporporarsi, fu costretta a cambiare idea. - Oh, mio Dio! - tuonò, agghiacciata. - Tu balli sul serio il valzer! - scoppiò a ridere. Tutto ciò era solo molto umiliante. - D'accordo, d'accordo. - cercò di contenersi, alla vista della mia occhiataccia. - Accompagnami, almeno.
  Annuii. - In cambio, però, vorrei chiederti di restare qui a badare al tavolo. - dissi. - Ho voglia di sgranchirmi le gambe.
- Sì; tanto tra poco arriverà Adriano con i giornalini della scuola. - sospirò. Povera Gemma: anche lei attanagliata da problemi di cuore. Certo, non era esattamente la stessa cosa; almeno io lo conoscevo, Lino. - Anita! - qualcuno mi chiamava... no, era solo una mia impressione. Beh, forse "conoscere" è una parola troppo grossa.
  Neanche a dirlo, avevo attraversato mezza scuola. Non avevo idea di dove stessi andando, ad essere onesti. - Anita! - ma allora, non me lo ero immaginato!
  - E' un sacco che non ti vedo! - esclamò la voce della mia amica Rina, venendomi incontro. Era lei, quella che mi aveva presentato a lui e gli altri. Sorrisi; solo vederla era in grado di mettermi di buon umore. - Come va? - chiese, prendendomi sotto braccio. Era l'ultimo giorno di scuola, non faceva troppo caldo ed avevo appena bevuto un bicchierone di soda; andava bene... no? - Non lo so. - ammisi, più a me stessa che a lei. Rina era l'unica a conoscenza di quel che era successo in infermeria, perciò capì al volo il motivo della mia titubanza; o forse era solo il fatto che fossimo molto simili e lei avesse tre anni in più.
- Oh, tesoro... - mi sorrise, fraterna. - Non fa niente, davvero. - interruppi quello che supponevo stesse per dirmi. Non mi andava di essere commiserata; neppure se fosse stata lei, a farlo. - Va tutto bene. L'estate è lunga e...
  E mentre dicevo così, eccolo sbucare dalla porta di un'aula. Maledizione...
 "II A" recitava la targhetta. Che diamine ci faceva, là? - Lino, - lo chiamò la mia amica. Diedi una rapida occhiata all'ambiente intorno a me. Non c'erano piante, né pilastri, e se fossi entrata in una classe qualsiasi, avrei dovuto dare spiegazioni. No, non avevo alcun posto dove nascondermi. Pregai di diventare invisibile, anche se sapevo che non mi avrebbe degnata della minima attenzione, comunque. Era tutto nella mia testa; capite? - vai al ballo? - gli domandò.
  Non potevo nascondere che la questione incuriosisse anche me. Avrà avuto una schiera di ragazze, al suo seguito, disposte a lucidarsi e lustrarsi solo per lui... giusto? - Ciao, Linnie! - starnazzò una voce, dietro di noi. Ah, ecco cosa era andato a fare, là; avevo dimenticato che quella biondina fosse di quella classe. Che schifo... , pensai quando lei gli si avvicinò. Anche l'espressione di Rina, accanto a me, pareva dire "Andiamo, Lino; puoi cercare di meglio.".
- Rina ha ragione: vai o no? - chiese, civettuola. Di nuovo quel pizzicore alle mani; ma questa volta i miei istinti violenti non erano nei confronti di quello stronzo colossale. La cosa curiosa era che io e quella ochetta avevamo la stessa età; eppure, agli occhi di Lino, solo io apparivo una mocciosa? - Potremmo andarci insieme. - ipotizzò.
  Trattenni il respiro e digrignai i denti, in un riflesso involontario; e doveva essersene accorto anche lui, perché mi diede una rapida occhiata. Non avevo colto nulla, dal suo sguardo. Sapevo solo che Rina avesse avuto ragione, quando mi aveva detto che gli avevo spaccato il labbro. Quasi mi venne da ridere.
  Lino non rispose alla sua proposta. Si limitò a scrollare le spalle - gesto che avevo scoperto essergli d'abitudine - e si allontanò, con la sua solita andatura lenta e disinvolta, e l'espressione scostante che assumeva tutti i giorni. Andava preso per un sì o per un no? Oh, al diavolo...
Non avevo voglia di rovinarmi la giornata e l'estate intera pensando a quell'imbecille. Avevo già perso abbastanza tempo, dietro a quel sogno adolescenziale. - E tu? Vai al ballo, Anita? - mi chiese quella stupida oca, con il suo solito sorriso ebete. Che pena, mi faceva. - Ci sto ancora pensando, ma non credo.
  Sembrò soddisfatta della mia risposta; probabilmente, pensava che le povere plebee come me non potessero partecipare, a quella festa. All'improvviso, provai una voglia matta di andarci solo per sbatterle in faccia la verità. - Non so se lui verrà o meno, Ann, - riprese Rina, quando quell'intrusa se ne andò. - ma vorrei che la tua decisione non dipendesse da questo. Lascialo perdere, Anita. Lui ... - si fece pensierosa. - è un tipo un po' singolare.
Risi. - Questo lo avevo intuito. - lo avevo intuito sin dalla prima volta che lo avevo visto. Un malinteso, ho detto. - Ma penso che non andrei comunque. - scossi la testa.
  Lo ricordo ancora perfettamente, sapete? Un freddo mercoledì pomeriggio. Il sole era ancora troppo stanco, per riscaldare qualcosa; ma almeno dava l'illusione di essere là a confortarci. Io stavo solo andando ad allenarmi, in fin dei conti. Non avrei mai immaginato di ridurmi così.
  - Me lo auguro. - mi sorrise, salutandomi. Non potevo far a meno di sentirmi in debito, verso di lei. Rina, che aveva sempre fatto tanto, per me... ed io? Cos'avevo fatto, per lei? Che ingrata, ero. Mi aveva raccolto con la stessa amorevolezza con cui si raccoglierebbe un pulcino bagnato per strada.
  Decisi che avrei pensato dopo, al da farsi. Ovviamente finii per rimandare tutto alle mie giornaliere sei ore di sonno. Come recitava, il detto? Ah, sì; "la notte porta consiglio". Beh, non nel mio caso, evidentemente.
 Mentre mi rigiravo sul letto, scervellandomi, non riuscii a prendere una decisione concreta. Era tutto un "Ma, forse posso provare." e "Non ho soldi né tempo da perdere, là". Il mio lettore mp3 doveva aver riprodotto lo stesso brano almeno cinque volte; ma dato che non avevo prestato la minima attenzione alle parole che Chris Martin stava sussurrando, non avevo idea di quale canzone si trattasse. "The Scientist" mi rese noto il display, nell'oscurità della mia stanza. Un brano breve e triste, ma bello nella sua semplicità.
  A volte, sulla strada per andare a scuola, immaginavo quella canzone a farmi da sottofondo e mi perdevo ad osservare le foglie mentre svolazzavano leggiadre per aria, o la silenziosa pioggia che cadeva sulle nostre teste, talvolta anche in piena primavera. A volte era come se sentissi l'eco di alcune strofe, strofe che non seguivano l'ordine in cui erano disposte nel testo, ma volavano libere in base alla circostanza. E quando questo mi succedeva, non potevo fare a meno di domandarmi se lui si soffermasse mai su questi dettagli, se smettesse mai di vivere la sua vita frenetica e spericolata per un attimo, se spendesse un minuto a pensare.
Ma poi mi davo della sciocca; era ovvio che no. Lino era una persona enigmatica, non solo per me; ma ciò che saltava subito all'occhio, era la sua passionalità, la sua impulsività, in tutto. Anzi, mi sorprendeva che si fosse fermato anche un solo istante per riflettere su... me.
Insomma, aveva detto che quello non era il mio mondo; e lo sapevo. Avevo sempre accantonato l'idea di impegnarmi sul serio, non perché non mi ritenessi capace di farlo. Ero piuttosto perseverante e determinata, in ciò in cui credevo davvero; anzi, direi quasi cocciuta. Forse era proprio quello, il problema: non ci credevo davvero.
  Compresi che non sarei riuscita a dormire, non in quelle condizioni, almeno; perciò mi alzai.
Sì; io non ci avevo mai creduto per davvero, perché sin dall'inizio mi ero accorta che fossimo troppo... diversi. Non ero mai stata dell'idea che due persone dovessero essere uguali, per stare bene insieme, tutt'altro; ero convinta che sarebbe stato noioso, e che la diversità fosse la carta vincente per l'affinità. Ma così... forse eravamo davvero troppo incompatibili.
  Scesa in cucina aprii il frigorifero; una bottiglia di tè fresco al limone brillava come non mai. Ai miei occhi, perlomeno. Ringraziai mentalmente mia madre per averlo preparato perché senza dubbio non giovava alla conciliazione del sonno, ma era buono. Incredibile come quell'unico motivo fosse abbastanza valido da farmi dimenticare dei risvolti negativi che trincare come un beone avrebbe avuto.
 Ed eccomi là, appoggiata all'angolo cottura, a sorseggiare il mio tè con la stessa enfasi con cui mi sarei messa a cominciare i compiti delle vacanze. Prima li finisco, prima avrò del tempo per crogiolarmi nella mia disperazione, mi dissi. Tanto li avrei iniziati e poi lasciati sulla scrivania, a marcire; fino a metà agosto, quando sarei stata assalita dal panico per aver oziato. Andava sempre così.

 
Anita... ah, è così, che ti chiami. Ho capito.
 
Ecco, ci mancavano solo il classico profluvio di ricordi a farmi sentire uno di quegli ubriaconi da due del mattino in un bar.
  Quella frase era ormai indelebile. Dovete sapere che non ho mentito, quando ho affermato di essere diventata ossessionata da Lino per un malinteso. Un puro e semplice malinteso.
  Quel mercoledì pomeriggio, l'allenamento era stato posticipato di un'ora, perciò non avevo preso il bus al solito orario, con la gente che incontravo di solito.
No, quel dannato giorno il pullman era mezzo vuoto; fatta eccezione per qualche vecchietta ed un ragazzo. So cosa starete pensando, ma non era lui. Anzi, ora che ci penso mi domando proprio come avessi fatto a scambiarlo per Lino.
Beh, poco importa; ciò che conta è che quel giovincello aveva gli occhi più luminescenti che avessi mai visto, azzurri e limpidi, come il mare di mattina. Certo, presto scoprii che quelli di Lino fossero completamenti diversi per tono di celeste e, soprattutto, per quel che ci avrei visto; ma questo mi bastò per prendere un granchio la mattina successiva quando, andando a scuola, vidi quello stronzo e lo scambiai per il ragazzo del giorno precedente.
  E fu così, che arrivarono i problemi. Sì perché, sebbene avessi subito capito che i suoi occhi fossero indice di un alto - se non eccessivo - tasso di stronzaggine e strafottenza, me ne invaghii e brancolai in un limbo di adorazione e odio per mesi e mesi, fino a che non feci la conoscenza di Rina.
  Mi versai un altro bicchiere. Non che dopo essere diventata amica della mia "sosia" le cose fossero cambiate molto, comunque.
Bagnai un po' le labbra nel tè; aveva un sapore acidulo, ma dal retrogusto inevitabilmente dolciastro. Era così anche Lino?
Avevo sempre pensato che fosse un tipo freddo, diffidente e aggressivo, menefreghista ed irrispettoso; un ribelle, ecco. Eppure... eppure...
Eppure ero convinta che non fosse tutta lì, la sua personalità. Perché lo vedevo, lo avevo visto la prima volta, attraverso il suo sguardo: c'era una parte di lui completamente diversa, più... dolce. Non mi era ben chiaro quando, come e con chi ne desse sfoggio, ma ero certa che ci fosse. Era un po' come il tè, dunque? Che casino...

 
Sono Lino. Piacere.
 
  Per non parlare di quel dannato giorno in cui io e Rina stavamo tornando a casa sul bus e lui capitò a fagiolo. Forse l'ho già detto, ma quando la mia amica mi avrebbe dovuta presentare, o non c'era lui, o non c'era lei. E quel giorno, beh... non credo che non si fosse mai accorto che la mia attenzione fosse perennemente rivolta a lui. Quel "è così che ti chiami" mi aveva sempre fatto pensare che se lo fosse chiesto, una o due volte. Comunque, forse è proprio vero che le cose succedono quando meno te l'aspetti.
 
In effetti vi somigliate molto.
 
  Era vero, io e lei sembravamo due sorelle, per quanto fossimo simili. Ma questo significava forse che, se a lui lei non piaceva, io avrei avuto anche meno possibilità. Perché io, a differenza di Rina, ero ingenua, una sprovveduta, come lui stesso aveva sottinteso. "Pura". Tsk... Ma lui non ne sapeva niente, di me. Poteva solo rifarsi a quelle poche cose che si era preso la briga di conoscere, sul mio conto. E se mi veniva in mente che quasi mi aveva rubato un bacio, il mio primo bacio...
Per mesi e mesi avevo fantasticato proprio su questo. Cioè, avevo sempre fantasticato su come sarebbe stato riceverne uno, ma... un bacio da Lino...
  No, basta; avevo questioni più importanti, che affogarmi nei ricordi e nelle considerazioni su una persona con cui non volevo più avere nulla a che fare.
Il problema più urgente era decidere se partecipare a quel maledetto ballo o meno.
Più e più volte avevo elencato e preso in considerazione gli aspetti positivi e negativi che avrebbe comportato presenziare; ma ancora non riuscivo a venirne a galla. E se lui ci fosse andato? La cosa mi avrebbe messo in una soggezione tremenda, anche perché temevo che sarei parsa ancor più ridicola, imbellettata. Anche perché, che diamine mi sarei dovuta mettere, addosso? Uno di quei sacchi neri che Gemma mi aveva raccontato andasse in voga per i balli? Per non parlare poi del trucco... non avrei avuto la minima intenzione di scarabocchiarmi la faccia neanche fosse quella di un clown!
... D'altra parte, mi conoscevo: sapevo che se non fosse venuto, ci sarei rimasta male. Era sempre andata così, nei miei rapporti amore-odio. La smetti di pensare a quel balordo o no?
  Scossi violentemente la testa; cos'avrei dovuto fare? La notte non mi stava portando null'altro se non ulteriori dubbi. Forse la cosa più saggia da fare era chiedere l'opinione di qualcuno.
  - Ti ho già detto come la penso, Anita. - affermò Gemma, la mattina seguente. E' inutile dirvi che avessi subito interrogato lei.
Arrivata a scuola, scoprii anche che ancora metà della mia classe doveva comprare i biglietti; perciò non fummo solo noi due, ad andare dai rappresentanti, come delle ritardatarie. - Però se non sei convinta, non devi venirci per forza. Dico solo che devi darti una mossa, a scegliere. - mi sorrise, mentre entravamo nell'aula in cui avveniva la vendita. Diamine; aveva perfettamente ragione. Non poteva risolvermi lei, i problemi.
  - Ah, guarda che abbiamo qui, Nils! - rise sornione il ragazzo che stava al banco dei biglietti. Un altro ci lanciò una rapida occhiata. - Sembra che un'intera comitiva non abbia ancora le prevendite! - ghignò, squadrandoci tutti. - Dunque, ragazzi, - tornò quasi serio. - ritenetevi fortunati. Ce n'è ancora qualcuno, ma cercate di non ridurvi all'ultimo, il prossimo anno; okay?.
  I primi biglietti di quella scatola volavano. I miei compagni si allontanavano soddisfatti. La scatola si faceva sempre più vuota. Il tempo stringeva.
La questione era tutta lì: andare, o non andare?
  Mentre mi accorgevo che un certo tizio avesse fatto una domanda simile, qualche centinaio di anni prima, arrivò il mio turno.
Eravamo io e la scatola, io e uno di quei tre foglietti scuri ancora rimasti. Uno scontro frontale, un faccia a faccia e... ma non avevo detto una cosa del genere, quel giorno, in infermeria? - Beh? - chiese il rappresentante d'istituto, impaziente. Dovevo davvero avere un'espressione stralunata o assente e... beh, credo sia quel che succede quando ti trovi davanti due sentieri e non sai quale seguire. Ma perché poi mi stavo facendo tanti problemi? Gli risposi, quasi tremando. Forse stavo sbagliando tutto, non avrei dovuto farlo. Sì, avevo decisamente sbagliato.
  Sospirai, assorta, rigirandomi la carta nera e plastificata tra le dita.
  
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