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Autore: Mrs Carstairs    22/07/2015    0 recensioni
“non starai di nuovo riguardandoti quella pellicola?!” la voce di Magnus risuonò stranamente profonda, strappando agli occhi di Cathrin la vista di New York trasformata in Alicante. La ragazza girò la testa, appoggiando il mento alle ginocchia e volgendo allo stregone uno sguardo arrabbiato.
“anche fosse?” parlò in tono sommesso, un po’ acidamente, ma nel verde dei suoi occhi, Magnus ci vide più stanchezza e dolore, che presunzione e arroganza. Chairman Miao, che fino a quel momento aveva sonnecchiato sdraiato sulla scrivania di fronte al letto di Cathrin, atterrò sul pavimento freddo con un balzo, dirigendosi fiero e silenzioso sotto al davanzale dov’era seduta, miagolando per richiamare l’attenzione. Gli occhi della ragazza si posarono sul felino dagli occhi gialli. Senza sorridere, diede una pacca alla pietra della rientranza dove stava seduta e il gatto ci saltò sopra, accoccolandosi accanto ai suoi piedi.
Genere: Azione, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Un po' tutti
Note: Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti
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L’armeria dell’istituto era quasi al buio, ormai. A gennaio il sole tramontava presto e nel tardo pomeriggio di quel giorno piovoso, la luce che filtrava dalle finestre alte della sala lasciava che ombre bislunghe si stagliassero sulle pareti, riflettendosi fioche sulle lame lucide delle spade angeliche.
Elisabeth si guardò attorno meravigliata. Sembrava un posto magico sotto quella luce, tutto spigoli ed ombre, tetro e luminoso allo stesso tempo. All’improvviso pensò al viso di Raziel scolpito nel marmo. Tutto un’alternanza di chiari e scuri, spigoli ed angoli, ma bello come solo il viso di un angelo può essere. Eppure, la sala vuota, immersa in quel bagliore grigiastro, le dava un senso di inquietudine non indifferente, che le si traduceva in un brivido lungo tutta la schiena, proprio come quando fissava la statua dell’Angelo: paura, mista ad orgoglio e carica.
Espirando lentamente, tolse l’arco dai supporti sulla parete, mettendosi a tracolla la faretra piena di frecce. Era stato Alec a mostrarglielo. Da quando era arrivata all’istituto, due mesi prima, si era rifugiata nell’addestramento, evitando di parlare troppo con chiunque incontrasse. Poi un giorno, mentre si rigirava un coltello pieno di rune tra le mani, fissando l’arco di legno intagliato appeso alla parete, aveva visto un’ombra fermarsi sulla porta dell’armeria. In realtà Elisabeth non si era mossa, ma l’ombra si tramutò in una persona man mano che le si avvicinava. Quando passò sotto un cerchio di luce proiettato da una finestra, Elisabeth alzò lo sguardo, riconoscendo i tratti di Alec Lightwood. Si era sorpresa di ritrovarsi proprio lui di fronte. Tra tutti i cacciatori che affollavano l’Istituto di New York, lui era sicuramente il più introverso.
“un kindjal… una scelta discreta, direi.”
“forse, ma mi trovo meglio con le spade… il lancio mi è più antipatico.”
“ma davvero?-fece Alec in tono sarcastico- è per questo che passi la maggior parte del tempo qui dentro? O in biblioteca?” Elisabeth lanciò un’occhiata di ghiaccio al ragazzo, che ricambiò lo sguardo con occhi fermi, ma gentili.
Era vero. Elisabeth passava un sacco di tempo in biblioteca, tanto che ormai, quasi ogni libro, dagli scaffali di demonologia ai romanzi d’epoca vittoriana, era stampato a caratteri chiari nella sua mente. Nei libri, qualunque fossero, riusciva ad entrare in un mondo tutto suo, a separarsi, per qualche ora, dalla realtà della vita, a volte molto scomoda. Da quando l’Istituto di Firenze era stato smantellato e tutti gli shadowhunters in esso uccisi o trasformati, prima della Guerra Oscura, si era un po’ chiusa in sé stessa, passando la maggior parte del tempo a studiare o ad allenarsi, sotto gli occhi straniti di Maryse Lightwood e dei suoi figli. Ogni tanto capitava che dimenticasse di scendere per la cena, impegnata com’era nello studio o nell’allenamento. Era successo giusto qualche settimana prima, quando Isabelle era entrata in biblioteca di soppiatto, trovando la ragazza con il naso ficcato in una tragedia Shakespeariana. Con un movimento secco del polso, glielo aveva strappato di mano: “ancora Shakespeare? Non ti stufa dopo un po’?-aveva chiesto con una smorfia delle sue. Poi quando aveva visto lo sguardo di Elisabeth farsi freddo e distaccato le aveva restituito il libro- d’accordo, scherzavo. Comunque dovresti venire a cena…. Ti stiamo aspettando tutti” e dopo quelle parole le aveva ammiccato, voltandosi per uscire dalla stanza, bloccandosi solo all’uscita, per assicurarsi che Elisabeth la seguisse.
D’altra parte cosa poteva fare? Dopotutto, anche lei aveva perso degli amici nella Guerra Oscura e il fatto che non le avessero permesso di combattere, chiudendola nella Guardia insieme a tutti gli altri bambini e ragazzi della sua età l’aveva solo fatta sentire impotente. In quel momento, a Idris, quando il Popolo Fatato aveva attaccato la città di Alicante, aveva ringraziato di non aver mai conosciuto i suoi genitori, almeno non avrebbe avuto nessuno di troppo importate da piangere. Naturalmente era dispiaciuta per i suoi tutori italiani, (lontani parenti dell’uomo Newyorkese che aveva dato vita alla sua famiglia di shadowhunters, ai Bloodsteel, ascendendo un secolo e mezzo prima), ma in fondo non si era mai attaccata molto a loro. Voleva viaggiare, scoprire cosa c’era là fuori, sentirsi più libera, mettersi alla prova e adesso, anche se non aveva ancora 18 anni, avrebbe potuto farlo, facendosi assegnare all’Istituto di New York per la conoscenza di Robert Lightwood.
 
“in realtà volevo tentare con l’arco oggi. Credo che mi piacerebbe un’arma da usare sulle lunghe distanze.” In quel momento, con fare protettivo, Alec si era appostato davanti a lei, coprendo con le spalle metà della scocca dell’arco.
“vorresti provare ad usare il MIO arco?” gli occhi socchiusi in due fessure luccicanti di azzurro, scrutandole il viso con fare attento e vigile. “perché?”
Rispondere a questa domanda non era difficile, Elisabeth sapeva la risposta dalla prima volta che aveva visto Alec in azione. Ma sarebbe stato saggio dirgli dell’ammirazione che nutriva nei suoi confronti? O l’avrebbe presa come un’avance da rifiutare? beh, -si disse- il gioco vale la candela. Con un respiro profondo si fissò nel suo sguardo e parlò.
“perché ti ho visto combattere. Ho visto con che precisione e agilità scocchi le frecce. Tutte colpiscono il bersaglio a cui erano mirate, non sbagli un colpo. Come molli la corda dell’arco metti mano alla faretra e incocchi di nuovo. Vorrei…vorrei imparare. Non credo che diventerei mai brava come te ma… spero di avere qualche possibilità.”
“mi sta chiedendo di insegnarti a tirare con l’arco?” la voce di Alec era rimasta ferma e profonda, anche se aveva gli angoli della bocca leggermente incurvati all’in su.
“in realtà…mi piacerebbe che tu fossi il mio istruttore per le sessioni di addestramento. Se Maryse permettesse…”
“sono adulto, Elisabeth. Ormai faccio parte del Conclave a tutti gli effetti… e credo che nessuno avrebbe qualcosa in contrario se io ti insegnassi.- un guizzo attraversò gli occhi della ragazza, che si accesero di trionfo-ma sappi che sono molto geloso del mio arco. È la MIA arma, guai a te se ci trovo un graffio.”
Dopo averla minacciata altre 50 volte, almeno, Alec le si era avvicinato con l’arco in mano, mostrandole come tenderlo e come diventare tutt’uno con esso, sviluppando l’istinto dello scoccare la freccia. “se perdi tempo a mirare… sei morta” poi, istantaneamente ne scoccò una, colpendo il bersaglio nel suo centro. Poi aveva porto arco e faretra ad Elisabeth, correggendole la postura delle braccia mentre tendeva l’arco. I primi tiri, ovviamente, risultarono o troppo corti o leggermente storti, così che la freccia non si conficcò nel bersaglio o si incastrò nel muro, mancando il cerchio in sughero. Man mano che si esercitava però, man mano che le frecce diminuivano, la tentazione di mirare andava svanendo, e qualche freccia cominciò, per lo meno ad intaccare il sughero. La mano correva veloce alla faretra subito dopo aver tirato, incoccando una nuova freccia con abilità. Alec la guardava, constatando il talento innato che Elisabeth portava dentro di sé, facendo avanti e indietro ogni tanto per recuperare i dardi appuntiti.
Solo pratica, le serve solo molta pratica.
Dopo qualche ora di esercizio, Elisabeth aveva fatto un buon punteggio, avvicinandosi sempre di più al cerchio rosso del centro, fino a che, con i capelli appiccicati al viso dal sudore e le braccia che le bruciavano, era riuscita a piantare una di quelle dannatissime frecce nel centro del bersaglio. Subito, si era voltata verso Alec con il respiro corto e un sorrisetto stanco e orgoglioso stampato in faccia. Il ragazzo aveva annuito in segno di approvazione, porgendo le mani per farsi ridare faretra e arco. La ragazza si levò la faretra da sopra la testa, poggiandola sul palmo aperto di Alec e porgendogli il legno dell’arco con l’altra mano.
 
Ora, dopo due mesi di allenamento, completamente sola, in armeria, mirava allo stesso bersaglio, convinta del successo del suo primo tiro. Si scostò i capelli scuri dagli occhi con un movimento brusco della testa, poi inspirò, tendendo l’arco. Socchiuse gli occhi e lasciando uscire l’aria dai polmoni, mollò la presa delle dita sulla coda della freccia. Proprio in quel momento, qualcos’altro fischiò accanto all’orecchio di Elisabeth con un sibilo metallico, facendola abbassare con un gemito di sorpresa. Una risatina echeggiò nella stanza, facendola voltare.
“bel lancio, eh?” la voce era indubbiamente femminile. Il sarcasmo nel tono di voce non poteva non essere notato. Guardando verso la porta dell’armeria, dietro di sé, Elisabeth scorse una figura nella penombra. Di chiaro vedeva solo i piedi e parte dei polpacci, stretti in un paio di stivali di pelle dalle fibbie metalliche.
“per l’Angelo! Avresti potuto uccidermi!” rimproverò Elisabeth, gridando all’ombra. Allora la figura emerse dalla parte buia della stanza, fermandosi in uno dei cerchi luminosi creati dalle stregaluci alle pareti.
 ***
Cathrin sedeva appollaiata sul davanzale della finestra nella sua stanza a casa di Magnus. Con le ginocchia al petto, cinte dalle braccia, guardava dalla finestra, perdendosi con lo sguardo nelle strade di New York, osservando taxi gialli e grattacieli, vicoli pieni di persone, che piano piano si trasformavano nelle strette viuzze di Alicante, con le torri antidemoni che brillavano del solito bagliore argenteo, simbolo di protezione e stabilità. Voltò lo sguardo, come se potesse davvero guardare in direzione della Guardia, fermandosi con lo sguardo proprio sul portone. Tutti i bambini e gli shadowhunters al di sotto della maggiore età erano stati rinchiusi in quella grande sala, il giorno dell’attacco degli ottenebrati. La città era stata armata e ricoperta di oggetti di ferro acuminato, per rallentare il Popolo Fatato, alleato di Sebastian, il figlio di Valentine Morgenstern. Tutti i cacciatori avevano combattuto fino all’ultimo respiro, molti ritrovandosi a dover uccidere i propri famigliari e amici, vederli trasformati in ottenebrati, senza nemmeno aver il tempo di piangerne la morte come si deve. Gli attacchi erano continui, le difese non erano servite a tenere lontani le fate e i seguaci di Sebastian e per le strade si udiva il clamore della battaglia, lo stridere dell’Adamas delle spade angeliche contro quelle infernali, gli urli intimidatori e quelli strazianti dei feriti. Ricordava tutto perfettamente. Anche ora, se chiudeva gli occhi, poteva tornare là, a Idris e rivivere tutto da capo, di nuovo. Ormai lo faceva spesso. Ricostruiva tutte le scene dell’attacco, tutto quello che aveva fatto, visto e sentito, così, di seguito, come un film, sperando di arrivare a non provare più nulla, dopo averlo rivisto centinaia di volte.
 
Dalla Guardia si era sentito tutto benissimo, come se le pareti non assorbissero niente di quel rumore di guerra, lasciando i più piccoli a stringersi in gruppetti, nel timore di perdere chi amavano. Cathrin aveva protestato quando l’avevano mandata alla Guardia. Finché era rimasta con i suoi genitori aveva fatto un ottimo lavoro. Brandendo una spada angelica a due mani, aveva trafitto in pieno petto uno dei cavalieri delle fate, impegnato ad osservare un paio di forbici ferrose che gli avevano bruciato il palmo di una mano. Facendo coppia con sua madre, avevano battuto un’ottenebrata agile come un gatto, spianandosi la strada per raggiungere l’edificio.
“tesoro, va! Tra poco chiuderanno il portone e nessuno potrà più entrare!” le aveva urlato la madre con la schiena appoggiata alla sua mentre affrontavano due fate dalle armature scarlatte.
“nessuno? Bene, allora io resterò con te” Cathrin non voleva davvero saperne di levarsi dalla battaglia, l’adrenalina le attraversava le vene come fosse fuoco e non le sembrava giusto non poter partecipare a quel massacro infernale. Dopotutto, non aveva che un anno di differenza dai maggiorenni e, se doveva morire, di certo sarebbe caduta combattendo, come ogni shadowhunter che si rispetti.
Con un calcio spinse via il cavaliere dagli occhi completamente verdi, mentre raccoglieva da terra una manciata di chiodi ferrosi e glieli tirava addosso. Quello emise un verso strozzato, cadendo all’indietro, mentre Cathrin gli piantava la lama angelica nel petto. Mentre ritraeva l’arma dalla tenuta della fata, il fischio di una lama la fece scostare di scatto. Un ottenebrato correva verso di lei, lanciando kindjal a destra e a manca. Si scostò dal corpo inerme della fata lanciandosi in una corsa fulminea, andando a sbattere contro suo padre, che la prese per le spalle.
“Cathrin stammi a sentire-disse con voce ferma-devi entrare alla Guardia. Non puoi stare qui. È troppo pericoloso, è una guerra!” la ragazza scalpitò infastidita.
“ma davvero? Nessuno me lo aveva detto… ah dai, papà! Mettimi giù! Gli ottenebrati sono in troppi, dobbiamo..” senza nemmeno aspettare che finisse la frase, le braccia del padre si chiusero come una morsa attorno ai suoi fianchi, portandola di peso fino ai gradoni che precedevano il portone della Guardia.
“va lì dentro e restaci! È per il tuo bene! Io e tua madre ti amiamo.- disse stringendola in un frettoloso abbraccio- ricordalo sempre.”
“ma papà…”
“a presto, Cat..” e allungando una mano, come per trattenerlo, Cathrin vide suo padre confondersi nella mischia, urlare il nome di un angelo mentre la spada lunga che teneva in mano divampava del potere celeste.
Poi una cacciatrice dai capelli scuri e un tatuaggio sullo zigomo le aveva toccato una spalla, invitandola ad entrare, chiudendo la porta dietro di sé. Quando si era voltata verso la sala, si era trovata di fronte ad una moltitudine di bambini e ragazzi più o meno della sua età, tutti intenti a guardarsi le unghie o a parlottare tra loro. Alcuni dei piccoli piangevano, invocando in silenzio il nome dei genitori, i più grandi che li consolavano, o camminavano su e giù per la sala, visibilmente tesi.
“Ma vi rendete conto di cosa ci chiedete?” protestò a gran voce una giovane cacciatrice, forse della sua età. La sua voce riecheggiò nel silenzio inquieto della sala. La donna col tatuaggio sul viso stava cercando di calmarla, con le mani alzate le aveva risposto:
“senti, non ci puoi fare nulla, la legge è la legge, per quanto dura possa essere”
“ma c’è bisogno di noi là fuori! Almeno dei più grandi! Siamo nettamente in minoranza.. se non succede un miracolo ci distruggeranno!”
“senti, lo so che ti senti inutile qui dentro, ma se succede qualcosa dovremo essere noi a difendere la Guardia, perciò combatterete tutti, se sarà necessario.”
“se sarà necessario?-prima che potesse frenare la lingua, Cathrin sentì le parole uscirle di bocca- c’è gente che muore là fuori! Tutto il popolo fatato si riversa per le strade di Alicante, accompagnato da centinaia di ottenebrati e noi che facciamo? Ci chiudiamo nella Guardia aspettando che tutto finisca! È patetico!” ma i pochi cacciatori adulti che erano rimasti alla Guardia erano irremovibili. Esasperata, Cathrin si era appoggiata alla parete, lasciandosi scivolare fino a terra, sedendosi sul marmo freddo del pavimento. La giovane Nephilim che aveva cercato di convincere gli adulti a farle combattere le si era avvicinata, sedendole accanto.
Quando la guardò, le sorrise, socchiudendo un po’ gli occhi. Cathrin le fece un cenno con la testa, rispettoso.
“grazie. Per avermi sostenuta prima.. Emma Carstairs aveva già cercato di opporsi, ma ha fatto un buco nell’acqua..” disse la ragazza con voce pacata, ma chiaramente infastidita.
“come noi, del resto…” fece in risposta Cathrin, guardando in direzione dei giovani shadowhunters che le aveva indicato la compagna. C’erano una ragazzina bionda schiena a schiena con un ragazzo più o meno della sua età, che parlavano guardando il tetto della sala pensierosi, mentre altri bambini gli sedevano vicino e uno, dormiva sulle gambe della ragazzina. Emma. L’ultima dei Carstairs… Deve essere un tipo in gamba… pensò Cathrin, guardando ancora dalla sua parte.
Poi il portone della sala esplose in una pioggia di schegge di legno e vetro, mentre una miriade di ottenebrati dalle tenute scarlatte si riversava dentro, seguiti dagli shadowhunters in nero, determinati a difendere i propri figli a costo della vita. La ragazza vicino a Cathrin era balzata in piedi, brandendo una spada luminosa di fuoco angelico. Anche lei fece lo stesso, urlando il nome della lunga spada che teneva a due mani. “Ithuriel!” e l’arma divampò della solita luce biancastra, fredda tra le sue dita.
Ma degli shadowhunters nella lucida tenuta nera stavano già correndo nella loro direzione, ponendosi di fronte a loro.
“papà!” gridò Cathrin alla figura che la spingeva dietro di sé.
“Cathrin, sta indietro… va con gli altri bambini.. non siete in molti a poter combattere, proteggi gli altri!”
“ma papà-” proprio in quel momento, l’uomo aveva alzato la spada angelica che teneva in mano, sbarrando la strada ad un ottenebrato dalla tenuta scarlatta e i capelli grigi. Nonostante sembrasse più vecchio di suo padre, pensò la ragazza, era molto più agile e forte di lui e questo la spaventava. Quando le due lame stridettero l’una contro l’altra, Cathrin fece un balzo indietro, ma teneva ancora salda la presa su Ithuriel.
“Cat! Vattene!” il padre di Cathrin urlò a gran voce, quasi implorandola di fare come le era stato chiesto. Con le lacrime che le bruciavano dietro agli occhi, la giovane cacciatrice indietreggiò piano, per poi affrettarsi a raggiungere il gruppetto dove stava seduta Emma Carstairs. Non fece parola con nessuno, brandiva la spada angelica aspettando che qualche ottenebrato si avvicinasse, tenendosi lontana dalla mischia, come suo padre le aveva ordinato.
Guardandosi intorno, nella sala, vide la battaglia infuriare come non mai. Tenute nere contro quelle rosse, sangue sul pavimento, sui visi dei combattenti, lo stridore delle lame sulle lame, gli urli strazianti di qualcuno che veniva ucciso. Guardando, passava in rassegna tutti gli shadowhunters in nero, cercando suo padre, sua madre o un volto famigliare. Dopo poco vide sua madre staccarsi dalla presa di un ottenebrato e piantargli una daga nel petto, lasciandolo ad accasciarsi a terra. Con un sorrisetto mal celato sul viso, si permise di esultare per un momento, pensando che forse ce l’avrebbero fatta a respingere l’attacco, a vincere la Guerra. Poi, però, si rese conto della strana posizione in cui sua madre si stava piegando. Perché, perché non ha più Samandriel in mano?  E d’improvviso aveva messo a fuoco l’ombra dell’ottenebrata che l’aveva colpita, ficcandole una spada ornata di rune oscure nella schiena. L’aveva colpita alle spalle, mentre ancora era piegata per recuperare la daga dal petto dello Shadowhunter oscuro. Samandriel gli era caduta di mano nel momento stesso in cui la spada l’aveva trafitta, raggiungendo il cuore. Con Ithuriel ancora stretta in mano, Cathrin si era allontanata dalla sua postazione, con l’intenzione di uccidere l’assassino di sua madre, o per lo meno di allontanarlo da lei, quando vide una figura familiare balzare addosso all’ottenebrata e prenderla per la gola. Correndo, senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò inginocchiata sul corpo immobile della madre, appoggiandosi a Ithuriel, conficcata in una fessura del pavimento della Guardia. Dopo qualche secondo si accorse di cosa le stava inzuppando il tessuto dei pantaloni della tenuta. Sangue. Una pozza di liquido scarlatto si allargava da sotto la schiena di Lailah, troppo velocemente per poter essere arrestato. Gli occhi di Cathrin si spalancarono con orrore e stupore. Sua madre aveva gli occhi chiusi e dalla bocca le scendeva un sottile rivolo di sangue. Presa dal panico, Cathrin la scosse dalle spalle, tentando di svegliarla in qualche modo, come se non si rendesse conto che ormai era finita, che non poteva più fare nulla per lei. Si portò al petto il corpo inerme di Lailah, abbracciandola stretta, tingendosi le mani di un rosso cupo.
Con la coda dell’occhio colse un movimento fulmineo dietro le sue spalle e si voltò per metà. Un ottenebrato teneva la spada alta sopra la testa, preparandosi ad infliggere il colpo, a trafiggere anche lei con la spada dei cavalieri dell’inferno. Cathrin non si mosse, limitandosi a guardarlo con gli occhi pieni di lacrime. Vide le spalle dell’uomo abbassarsi, la lama mandare un guizzo e solo allora voltò lo sguardo.   
Il colpo non arrivò. Dopo pochi secondi la ragazza lasciò andare il corpo della madre, cercando di capire perché la spada dell’ottenebrato non l’avesse colpita, quando accanto a lei, sorridente, vide suo padre. La spada angelica impregnata del sangue nerastro di molti ottenebrati, il viso sicuro velato di dolore.
“Cathrin… alzati. Devi lasciarla andare…” la ragazza si lasciò sfuggire un gemito di pianto, arrestandosi quando si ricordò di cosa le diceva suo padre da piccola Non piangere. Le cacciatrici non piangono mai. Aveva avuto l’impressione che gliel’avesse sempre detto per farla smettere di frignare quando cadeva o faceva i capricci, ma quando aveva ricevuto i marchi, brucianti sulla pelle olivastra, le aveva ripetuto una cosa simile Ricordalo sempre, usa il dolore, mettilo nella battaglia, nella caccia, impugna la spada e grida il nome di un angelo, ma non lasciarti schiacciare dal peso del pianto…
Come se ora portasse quel peso sulla schiena, Cathrin si piegò sulle ginocchia e si rimise in piedi, raccogliendo Ithuriel dal pavimento. Per un momento fu come se tutto intorno a loro si fermasse, dandogli il tempo di aggrapparsi l’uno all’altra. Cathrin, ormai alta quasi quanto il padre, guardò Christopher negli occhi, sorprendentemente lucidi e trasparenti nel loro grigio azzurro. Mentre guardava ancora, li vide spalancarsi, le pupille allargarsi, riducendo il grigio ad un sottile anello intorno al nero. Si gettò in avanti, sentendo il corpo del padre accasciarsi su di lei. Fece per stringerlo, rassicurarlo in qualche maniera, quando fu costretta a tenersi a distanza dal petto di Christopher. Aveva sentito una sporgenza che sul torace caldo e liscio del padre non c’era mai stata. Sostenendolo da sotto le ascelle con le braccia guardò il fronte della tenuta. Sangue scarlatto colava dalla lama appuntita di un Kindjial dalle rune oscure, conficcato con tanta forza da trapassare la cassa toracica dell’uomo e far capolino con la punta acuminata da petto.
Con una smorfia di dolore e rabbia sul viso, Cathrin si mosse in avanti, sentendo la punta del pugnale aprirle uno squarcio nella tenuta e graffiarle la pelle sopra lo sterno. Chiuse le braccia attorno alla schiena del padre, afferrando con mano ferma l’impugnatura del Kinjial. Con un movimento secco estrasse la lama zuppa di sangue, lasciandola cadere tintinnante sul pavimento di marmo.
Christopher ebbe un sussulto quando la lama si sfilò dal suo corpo, accasciandosi ancor di più sulla figlia. “papà...” ripeté Cathrin con un fil di voce. Poi tutto si era bloccato, come in un sogno. Tutti gli ottenebrati erano caduti come mosche, stramazzando al suolo, immobili. Grida esultanti si erano levate dagli shadowhunter in nero, miste al pianto per i caduti e alla confusione che seguita una battaglia vinta. Ma lei non si mosse. Rimaneva lì, accanto ai suoi genitori, con suo padre inerme tra le braccia e le lacrime che le scendevano copiose dagli occhi. Non un singhiozzo. Non un urlo. Solo un pianto silenzioso, che non cessò nemmeno quando portarono via i caduti e radunarono i ragazzi rimasti soli. Aveva guardato i corpi dei suoi genitori allontanarsi sulle barelle, portati via dai fratelli silenti per essere bruciati al funerale.
Ave atque vale. –aveva pensato, alzando una mano in saluto-Non avete idea di quanto mi mancherete.
Quello che era successo dopo si era svolto confusamente e non lo ricordava bene. Erano ricordi offuscati quelli che le si presentavano adesso. Lei che veniva portata all’Accademia, dove avrebbe vissuto per un anno, finché non fosse stata assegnata ad un istituto, il suo rifiuto a quella situazione… il messaggio di fuoco scritto a Magnus Bane, in segreto… il viaggio attraverso il portale e… ed eccola lì. +Seduta nell’appartamento del sommo stregone di Brooklyn, sperando di non essere cacciata via, o almeno non troppo presto. 
   
 
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