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Autore: Kuruccha    31/07/2015    3 recensioni
È diventato bravo a saltare.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Revy, Rock
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prima di cominciare.
Questa storia ha preso vita da un prompt assegnatomi durante l’iniziativa Drabble Midweek organizzata dalla community We are out for prompt: Black Lagoon, Rock/Revy: Vivere ogni volta come se quella fosse l'ultima notte al mondo è facile con Revy. (Non sarebbe male una Teen!AU).
Non avevo mai scritto una Teen!AU prima d’ora, ma l’idea mi ha davvero conquistata, perciò ho finito per allungare tantissimo questa storia, inizialmente partita come drabble e poi diventata la one-shot più lunga che io abbia scritto quest’anno. XD
Contestualizzando, basta immaginarsi una realtà alternativa che parte dall’adolescenza di Rock e Revy - con conseguente crescita dei personaggi fino all'età che hanno nella serie, più o meno - in cui questi due si sono conosciuti quando lui è finito decisamente fuori strada negli anni del liceo, in buona parte per colpa di lei, ma è poi riuscito in qualche maniera a rimettersi in carreggiata.
 

 
Stop Motion
 

 
«Dai, fatti più in là.»
«Ti ho già detto che non puoi dormire qui.»
«E che ti costa. Tanto ormai sono dentro casa, no?»
Rock mugugna inutilmente il proprio disappunto; Revy, la testa già affondata sul suo cuscino, lo ignora spintonandolo verso il muro.
«Mia madre lo capirà subito. Domattina entrerà e...»
«… E scoprirà che il suo bimbo è diventato un ometto. Oh, poverina.»
Rock inspira piano; non perché abbia bisogno d’aria, o per placare i nervi, ma solo per concedersi qualche secondo in più per pensare a come rispondere, a come convincerla. Ha già imparato che con lei non c’è mai modo di ragionare.
«Puoi restare, ma solo fino alle cinque» le concede. «Papà si alza alle cinque e mezza, e se esci dalla finestra magari non...»
«Merda, Rock, ma è prestissimo. Sono appena tre ore di sonno.»
“Sì, dillo a me che domattina ho la scuola”, vorrebbe dirle, e se si morde la lingua è solo perché deve ancora abituarsi all’idea che no, una scuola non ce l’ha più, visto che l’hanno espulso con una nota di biasimo a fare da contorno.
«Cinque e un quarto. Non più tardi» concede infine.
«È ancora troppo poco» replica lei, e poi si mette a sedere. «Senti, andiamocene da qualche parte a far casino, piuttosto.»
«Non c’è nessuno in giro a quest’ora della notte. Sono tutti a casa a dormire. E anche tu dovresti essere a casa tua, nel tuo letto.»
Lo sguardo di Revy si fa gelido. «Tu non sai niente di casa mia» gli dice, e poi d’improvviso cambia tono. «E chi se ne frega se non c’è nessuno in giro, chi se ne frega di tutti gli altri. In giro ci saremo io e te. Non ti basta?»
Rock prende fiato un’altra volta. Allungando le braccia riconquista lo spazio che Revy ha lasciato libero nel letto, sotto la trapunta con le astronavi che sua mamma si ostina ad usare anche se lui non è più bambino da un pezzo. L’aria nella stanza è fredda, ma sotto le coperte è rimasto intrappolato il calore familiare del corpo di Revy.
Lei è lì che aspetta. E lui lo sa.
Quando si volta, con l’altra guancia ancora posata al cuscino, Rock incrocia lo sguardo di sfida di Revy. La osserva mentre recupera lo zaino dal pavimento e ne tira fuori il pacchetto di sigarette.
Con un unico movimento, per quanto lento, si tira su dal letto.
«La sai che non puoi fumare qui dentro» le dice. «Dai, usciamo.»
Ha vinto anche questa volta. A Rock piace pensare di averla lasciata vincere, ecco tutto.
Si allaccia le scarpe al suono dei click dell’accendino. La sigaretta è accesa e la finestra è già spalancata, e Rock si scorda della sua stanza da adolescente, dei suoi genitori che dormono nella camera accanto, della sua eccellente carriera scolastica ormai rovinata e si perde nell’odore morbido della giacca di Revy contro il suo naso, mentre si aiutano a vicenda per calarsi dal terrazzino.
È diventato bravo a saltare.
 
*
 
Ci sono mattine in cui se la ritrova lì, distesa sulla moquette all’ingresso del suo minuscolo monolocale da salary man, coi capelli sporchi a fare da contorno ai graffi e ai lividi e al sangue rappreso, e si chiede come abbia fatto a riuscire ad entrare anche quella volta (come quella prima, e come quella prima ancora, si risponde da solo). Negli anni ha imparato a non mettere più in dubbio le sue capacità di scassinatrice, così come ha smesso di chiedersi dove abbia imparato cose come quelle, o per quale mestiere le utilizzi.
Si inginocchia sul pavimento, si china quel tanto che basta per controllare che Revy ancora respiri (, si risponde di nuovo, osservando il profilo del seno che si alza e si abbassa a ritmo regolare, sta respirando, è viva), poi con sforzo considerevole la trascina fino al letto. Alcune mattine riesce a sollevarla e caricarcela sopra; alcune altre Revy è un peso morto, così si limita a recuperare cuscino e coperte e la lascia lì, tra il tavolo e il comodino, a dormire come se non lo facesse da giorni e giorni.
Rock la osserva mentre mangia il riso bianco della colazione, mentre si allaccia la cravatta del completo, mentre recupera dal frigo il bento preparato la sera prima, ma Revy non si sveglia, né si muove. Esce per andare al lavoro e sa che non avrà spiegazioni.
 
Negli anni il suo odore non è cambiato affatto; sotto l’onnipresente puzzo di fumo c’è sempre quella nota di olio di canfora e poi qualcos’altro, qualcosa che non si sa spiegare ma che riconoscerebbe ovunque, mischiato al vago odore della gomma bruciata. (Revy non ha mai perso quella cattiva abitudine di spegnere le sigarette sotto la suola quando non ha un posacenere a portata di mano. Non sa nemmeno da quanti anni glielo vede fare.)
Rientra dal suo snervante turno di lavoro - dodici ore e mezza filate, tutto per colpa di quell’inetto nullafacente del suo capo - e la ritrova ancora lì, stesa sul letto, a leggere fumetti mentre mangia del ramen istantaneo che ricorda di aver comprato almeno un secolo fa, forse quando si era appena trasferito fuori casa o la settimana appena successiva.
«Questa roba è una merda» è la prima cosa che gli dice. «Bentornato» la seconda.
«Non ti sei tolta gli anfibi.»
«Non ci riesco» risponde lei, e gli mostra le mani. Almeno sei dita su dieci sono ricoperte di cerotti. Il pollice destro sembra così malandato che quasi si stupisce che stia ancora attaccato al suo posto.
Rock si allenta la cravatta, posa la cartelletta sul tavolo e si avvicina al letto. Si lascia cadere di peso accanto ai suoi piedi, poi slaccia una ad una le fibbie che tengono legati gli anfibi e li lancia dall’altro lato del monolocale. (Quel puzzo è una delle cose che avrebbe preferito dimenticare.)
«Aaah, è il paradiso» commenta lei, agitando i piedi per muovere le caviglie.
«C’è altro?» le domanda, e poi si sente stupido, perché è sicuro che lei gli chiederà del cibo decente. È già pronto ad alzarsi in piedi quando sente le sue braccia attorno al collo, e le mani allacciarsi dietro la nuca, e il secondo successivo è immerso nelle lenzuola e nel suo calore, e si sente di nuovo come quella volta nella sua cameretta con la trapunta con le astronavi stampate, quando erano scivolati giù dal terrazzo di nascosto dai suoi genitori dopo essere rientrati a notte fonda.
E anche questa volta è lei a tirarselo addosso, e poi lo bacia con quella foga che è sempre stata solo sua, sua e di nessun’altra; e come ogni volta Rock non sa bene dove dovrebbe mettere le mani e come dovrebbe muoversi, e così finisce per rimanere immobile e sospeso a mezz’aria, incapace di spegnere il cervello fino a quando non è lei - sempre lei - a mormorargli qualcosa tra i denti. «Vieni,» gli dice questa volta, «di spazio ce n’è.»
I cerotti gli graffiano la pelle della schiena mentre le mani di Revy percorrono lo spazio sotto la sua camicia. Nei suoi gesti c’è sempre la stessa urgenza, ma lui si prende il tempo per baciarle il viso e dirle cose inutili come «Mi sei mancata».
Poi affonda nella sua pelle liscia, e non c’è spazio per altri pensieri.
 
*
 
Revy se ne va al sorgere del sole; sono le cinque e un quarto precise, come ogni volta, quasi si ricordasse ancora di quella discussione di mille anni prima.
Rock finge di dormire - anche questa è un’altra di quelle cose che ha imparato a fare bene, perché gli evita minuti interi di discussioni vuote dalle quali già sa che non caverà la minima informazione - ma la guarda di sottecchi mentre recupera gli anfibi e se li infila ai piedi, e la ascolta imprecare sottovoce quando non riesce ad allacciare bene le stringhe. La sente sbattere contro il tavolino - ginocchio o gomito, non gli è dato saperlo - e poi camminare a passi pesanti verso la porta d’ingresso al ritmo dei bip dei tasti del cellulare.
Rilassa i muscoli quando lei è abbastanza lontana, già rassegnato nel saperla fuori di lì, incerto su quando tornerà. (Lui non gliel’ha mai chiesto, lei non gliel’ha mai detto; è così che funziona.)
Ricade in un sonno leggero ancor prima che lei sia uscita, così quasi non sente il tocco della sua mano che percorre lo spazio dal collo all’attaccatura dei capelli, e poi ancora più su; le dita coperte dai cerotti scorrono tra i ciuffi corti e ispidi fino alla tempia e poi sulla fronte. È quasi convinto che sia un sogno, ma il peso del corpo di Revy sul bordo del letto è troppo concreto perché lui se lo stia solo immaginando. Solleva la testa verso la sua mano calda prima ancora di aprire gli occhi.
«Cerca di non rimetterci altri pezzi» le mormora, la voce ancora impastata dal sonno. Revy non è certo una persona capace di perdersi in gesti come quello; Rock intuisce - o meglio, ne è assolutamente sicuro - che il motivo dietro quelle carezze sia tutt’altro che trascurabile.
«Con chi credi di avere a che fare?» gli risponde lei.
Rock posa il naso contro il suo palmo, poi si preme addosso quella mano, intrecciando le dita sopra le sue.
Taglia la corda se le cose si fanno troppo brutte, vorrebbe dirle. «La prossima volta andiamo fuori a cena,» è quello che gli esce invece.
Revy sorride, poi si alza in piedi. Lo bacia prima d’andar via.
Non la rivede per due anni interi.
 
*
 
Sente bussare alla porta quando ha già la giacca addosso e la borsa stretta sottobraccio, e non può fare a meno di domandarsi chi sia il pazzo che va in giro per le case a quell’ora del mattino. Una circolare di quartiere, forse? O magari uno di quegli agenti delle riviste?
Posa la mano sul pomello, preparando già un no, grazie sulla punta della lingua, quando l’eco dei colpi sul legno si trasforma in un rumore metallico all’altezza della serratura e no, non è possibile, pensa, spalancando la porta.
Se la ritrova davanti e Revy è esattamente come la ricorda – i capelli ancora raccolti in una coda bassa, lo stesso puzzo di fumo; perfino gli anfibi sono rimasti quelli di due anni prima.
La borsa dell’ufficio gli scivola di dosso e atterra sul pavimento sporco del pianerottolo, insudiciandosi in una pozza di liquido che Rock non riesce nemmeno a definire – forse è sangue, sì, c’è senz’altro del sangue, ma non è solo quello. D’improvviso, la cravatta gli stringe troppo sulla gola.
Revy lo guarda negli occhi, poi solleva la mano. Cerca di salutarlo, ma alcune dita rimangono piegate.
«Ehilà» dice, e dopo aver parlato si china un po’ in avanti, come se rimanere dritta le costasse uno sforzo troppo grande, portandosi il braccio allo stomaco. «Quanto tempo.»
Rock non dice nulla; indossa la sua migliore espressione seria, la stessa che usa negli incontri coi clienti più inflessibili. Si scosta lasciando libero il passaggio e la fa entrare.
 
Revy dorme come fosse morta e Rock telefona al lavoro per prendersi la giornata libera. Non passerà troppi guai; è un impiegato troppo diligente perché il capo e i colleghi possano dubitare della scusa che ha trovato per la sua assenza. Revy dorme e Rock le sfila gli stivali di dosso, immerso di nuovo in quel tanfo che ancora ricorda; lega i lacci tra loro e appende gli anfibi fuori dalla finestra, lontano dal suo naso.
La spoglia della giacca con mano esperta, ricordando i punti in cui la cerniera saltava e prestando attenzione ai buchi sulla fodera in cui incastrava sempre le dita; la lascia vestita del minimo necessario, poi lava e disinfetta tutte le ferite che vede. Solleva la canotta per scoprire un taglio sull’addome, quello da cui cola tutto quel sangue; qualcuno ha già provveduto a ricucirlo e sistemarlo. Le cambia la garza, augurandosi che basti. La ascolta respirare e si chiede cosa le sia successo. Questa volta non si accontenterà delle sue scuse, ma vorrà una spiegazione; il tempo che hanno trascorso divisi gli concede la lontananza necessaria ad imporre le proprie ragioni.
Guarda tutte le smorfie di dolore che le si dipingono in viso durante il sonno. Butta i suoi vestiti in lavatrice. Le prepara da mangiare qualcosa che sia facile da digerire e veloce da riscaldare al microonde. La osserva ancora. Sotto il puzzo di sporco sente ancora quella nota di olio di canfora.
Chiama al lavoro e si prende il resto della settimana.
 
Nelle parentesi in cui Revy è cosciente non parlano molto; lui è troppo arrabbiato, lei troppo stanca.
Revy osserva le dita steccate e agita le mani nel vano tentativo di muoverle; si gira sulla pancia e impreca per il dolore delle ferite. Quando ha di nuovo l’energia sufficiente a poter rimanere in piedi, si fa aiutare per riuscire a farsi una doccia. Rock scopre sulla sua pelle cicatrici che non conosce; segni che due anni prima non c’erano. «E questi cosa sono?» le chiede, passandole la spugna sull’avambraccio, dove sono rimaste le tracce di tre tacche perfettamente parallele.
«Storia vecchia» gli risponde.
«Non vecchia abbastanza perché io possa ricordarla.»
Posa la testa sulla sua spalla, bagnandogli la maglietta coi capelli. Anche Revy sa bene che qualsiasi giustificazione suonerà come una scusa e null’altro.
Così gli racconta tutto, lì nella doccia, a bassa voce. Le parole scorrono più veloci di quanto credesse possibile; non è abituata a parlare così tanto, ma Rock è sempre stato bravo ad ascoltare.
Quando ha finito, le mani che le lavano per la terza volta i capelli le sembrano più gentili di prima. Si chiede se quello equivalga a un perdono, o almeno a una specie di perdono, ma non riesce a darsi una risposta.
 
Impara a fare le cose mentre Rock dorme, o mentre è fuori casa; dopo i primi giorni di fermo forzato riesce ad essere un po’ meno dipendente da lui, così riguadagna quei pochi spazi familiari che non sono mai stati davvero suoi. Il cuscino sul letto è lo stesso di due anni prima; è ancora morbido, e sotto le dita sente ancora quel buco che ha scavato con le unghie nella prima notte che ha passato in quell’appartamento.  In fondo all’armadietto della cucina c’è ancora una confezione di ramen istantaneo. Al contrario di lui, non è mai stata brava a cucinare.
Quando Rock rientra, la trova seduta al tavolo con davanti un piatto di carote bollite, e poi riso bianco, uova sode e germogli di soia saltati. Revy cerca il suo sguardo e sente un nodo formarsi all’altezza dello stomaco. Rimane in attesa fino a quando lui non posa la cartelletta e si china per prendere i bastoncini. Si siede a gambe incrociate di fronte a lei, poi la fissa negli occhi.
«Sei una stupida» le dice.
Revy sorride e il nodo si scioglie. «Sono una stupida.»
«Non lo fare mai più.»
«Non lo farò mai più» risponde.
Mangiano nell’eco di quella promessa.
 
*
 
 
Finiscono di nuovo a letto insieme, con poca sorpresa di entrambi.
Succede in una sera meno fredda delle altre, il mese successivo alla ricomparsa di Revy. Rientrano nel monolocale dopo quella cena rimandata per quasi due anni e si ritrovano bocca contro bocca ancor prima di chiudersi la porta alle spalle. È Rock a dare il via; per la prima volta Revy non è riuscita a trovare il coraggio sufficiente a prendere l’iniziativa, ma è lei portare tutto più avanti di quanto lui si sarebbe immaginato.
Arriva fino al letto tirandoselo dietro, senza nemmeno avere il bisogno di guardare dove mette i piedi; oramai conosce quel pavimento come fosse un prolungamento delle sue gambe, e lo spazio è così ristretto che non c’è il rischio di sbagliare. Si libera dei pantaloni ancor prima di toccare il materasso, rendendo ben più che evidenti le proprie intenzioni, nel caso non fossero state chiare abbastanza. Digrigna i denti quando i jeans le sfregano contro le ginocchia sbucciate; coi piedi tenta di liberarsi dalla stoffa attorcigliata attorno alle caviglie e nel frattempo lotta con il nodo della cravatta di Rock.
Sono già pelle contro pelle, pancia contro pancia, quando si ferma per un attimo e lo guarda – ed è così insolito e così bello vederlo lì, sopra di lei, e d’improvviso le stringe lo stomaco una strana nostalgia per quei tempi in cui tutto era più facile; quando ancora nessuno voleva sul serio spararle addosso o spezzarle le dita, e ancora poteva osservare Rock da vicino e sperare che prima o poi sarebbe stata una persona come lui, una persona migliore – e così glielo dice, d’istinto, sorridendo. «Mi sei mancato.»
Non aggiunge altro, e Rock non risponde, ma per un secondo lui trattiene il fiato e la guarda negli occhi. Le bacia il viso e le sue labbra sono calde e morbide, e calda è anche la mano che le percorre la schiena, attenta a non sfiorare le zone ancora coperte dalle garze. Non credeva di averne conservato il ricordo, ma Rock ha lo stesso profumo familiare di quando erano ragazzi; e familiari sono il modo in cui le sue dita si soffermano nel cingerle i fianchi, senza mai stringere troppo, e il percorso delle sue labbra dal collo alla clavicola, lungo il tatuaggio fino alla spalla. Si preme contro di lui e se lo stringe addosso cingendogli la vita con le gambe, il ventre caldo contro il suo. Affonda la bocca nella piega del suo collo. Quello delle ferite è un dolore lontano.
 
*
 
«Credevo che sarei morta.»
Il respiro di Rock vicino al suo orecchio rimane regolare; la sua mano non si sposta dallo spazio tra i seni e l’ombelico. «Sarebbe stato meglio andare in un ospedale» le mormora.
«È proprio lì che l’ho pensato» gli risponde. «Sono passata per cose ben peggiori. Buchi più profondi. E i mignoli non sono poi questo grande affare. Però,» continua, e si volta per guardarlo, «Ero lì distesa e ho pensato: morirò qui. Morirò da sola e tu non lo verrai mai a sapere. È una cosa complicata da spiegare.»
Rock annuisce. «Immagino lo sia.»
«Così l’ho fatto e basta. Me ne sono fregata di quello che avresti pensato e sono venuta fin qui. Ma non credevo che ti avrei visto ancora. Ero convinta che sarei morta prima, e mi sarei accontentata anche solo della tua moquette.» Ride piano, ma non è una risata allegra. «Anche questo è complicato da spiegare.»
Non le risponde; si tira addosso il lenzuolo e copre anche lei. «Ce ne sarà il tempo.»
Revy non sa quanto vero sia, ma si culla in quelle parole. «Posso restare?»
Rock annuisce. «Resta.»
 
 


31.07.2015
Grazie a Kuma Cla per il betaggio, l’amore, gli sbrodolamenti e tutto il resto. Questa storia è per te – nel senso che è tua, prendila e fanne quel che vuoi. <3
Grazie mille anche a chiunque si fosse fermato a leggere fino a qui.
Buona giornata!
Kuruccha
   
 
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