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Autore: Sefid    31/07/2015    2 recensioni
E così mi sono ritrovato a terra, rotto e disperato. Sentivo delle sensazioni che non capivo: sapevo solo che faceva male.
Riuscivo a pensare solo a una cosa: e adesso? Adesso che cosa faccio?
Non sapevo rispondermi, così non feci niente.
Aspettai.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una volta mi sono rotto.
In realtà non ricordo come sia successo esattamente. Forse mi ero sporto troppo oltre il bordo del mio espositore, forse un passante mi ha urtato, ignorando il fatto che fossi estremamente fragile. Probabilmente entrambe le cose.
Fatto sta che sono caduto.
Un momento ero bello, perfetto, tirato a lucido; e quello dopo ero a terra, rotto.
Ricordo quanto mi fece male. Iniziò a fare male ancora prima che toccassi il suolo, fu la paura a farmi provare il dolore peggiore. Perché è inevitabile: lo senti. Lo senti il momento in cui perdi l'equilibrio, ti sbilanci in avanti, non hai più contatto con alcuna superficie, e sai che stai cadendo. Il vuoto che ti sta attorno lo senti dentro. E mentre sei lì, a mezz'aria, vorresti riavvolgere il nastro ed evitare quella frazione di secondo che ti ha dato la spinta, ma sai che non puoi, e il panico si fa strada nei tuoi pensieri, e li accelera, e allora lo sai: l'impatto è vicino. E farà male.
Ricordo perfettamente anche il momento in cui mi sono frantumato: per quanto sapevo che sarebbe accaduto, non ero preparato a quello che sentii. Ho sentito il rumore; ho sentito ogni parte di me fracassarsi al suolo, e poi spezzarsi, separarsi, allontanarsi. Non ero più un vaso: ero un insieme di cocci. Non avevo più un disegno, solo colori simili su frammenti lontani. Non mi percepivo più nella mia interezza, ma, paradossalmente, sentivo il dolore provenire da ognuno dei pezzi che una volta mi componevano.
E così mi sono ritrovato a terra, rotto e disperato. Sentivo delle sensazioni che non capivo: sapevo solo che faceva male.
Riuscivo a pensare solo a una cosa: e adesso? Adesso che cosa faccio?
Non sapevo rispondermi, così non feci niente.
Aspettai.
Permisi ai pensieri di correre e andare a colpire i punti in cui faceva più male. I ricordi mi tormentavano, riportandomi al punto in cui tutto era iniziato. Come se la sofferenza non fosse già abbastanza. Come se non fosse già troppa.
Andai avanti aggiungendo dolore al dolore, senza sapere cos'altro fare, per un tempo che non saprei definire. I minuti non passavano più. Provavo a volte ad abbozzare un pensiero positivo, a dirmi che non importava. Ma come poteva non importare? Che senso ha un vaso rotto?
Così continuai a piangere.
E ad aspettare.

Quando ebbi esaurito le lacrime, e anche i ricordi iniziarono a darmi noia, mi accorsi che dal pavimento si vedeva il mondo in modo diverso da come ero abituato. Guardandomi intorno, i pensieri iniziarono a seguire ragionamenti che non capivo, a concentrarsi su cose piccole, lontane da me, che non mi riguardavano.
Per farla breve, iniziai a distrarmi.
Non so bene perché, ma quella situazione mi fece sorridere. Ero a terra, senza forma, senza utilità; mi ero perso; però pensavo a qualcos'altro. Mi parve tutto piuttosto buffo.
Continuai a trastullarmi così per un po'. Ogni tanto mi ricordavo, quasi con stupore, cos'era successo: allora tornavano la tristezza, le sensazioni fastidiose, che non sapevo più definire; versavo una lacrima.
Sempre più velocemente, però, la tristezza mi veniva a noia. Ero stanco di essere triste. Non mi andava di sentirmi così. Era necessario?
No.
Perciò pensavo ad altro.

Quando infine i pensieri tornarono a concentrarsi su di me, non facevano più così male. Non giravano a vuoto, puntavano a una soluzione. Iniziai a cercarmi, e un po' alla volta mi ritrovai.
Non avevo più una forma, ma adesso che ci facevo attenzione, mi rendevo conto che mi ero spaccato piuttosto bene. No, dico sul serio: non mi ero frammentato in pezzi minuscoli, impossibili da riunire. Forse si poteva fare qualcosa. Le figure che mi ornavano, dipinte con tanta attenzione, non si erano cancellate: potevano tornare a formare un disegno sensato.
Potevo tornare a essere io.
Mentre formulavo questi pensieri, mi sono accorto di non essere solo. Mani attente mi hanno sollevato, un pezzo alla volta, delicatamente, con premura. Mi hanno sistemato su una superficie calda, decisamente più confortevole del pavimento. Ho sentito una voce morbida dispiacersi per me, dirsi decisa a ripararmi.
E così è stato. Lentamente, senza fretta, quelle mani hanno rimesso ogni pezzo al posto giusto, mi hanno lucidato. Mi hanno rimesso sul mio piedistallo.

Ricordo quando era il dolore a tenere insieme i miei pezzi, a farci sentire parte di una cosa sola. La colla è decisamente un mezzo più piacevole.
A volte ripenso a quei momenti, e sento ancora un brivido percorrere i punti di frattura. Non scompariranno mai del tutto, ma quasi non si vedono. Non mi fanno più male. E soprattutto, non hanno intaccato le mie decorazioni, anzi: mi danno un'aria vissuta.
Dopo quell'esperienza, all'inizio sono stato molto attento a rimanere al centro del mio espositore. Ero terrorizzato all'idea di cadere di nuovo. Ho fatto di tutto per impedirlo, ma nonostante questo in un paio di occasioni ho rischiato lo stesso: la gente è distratta, spesso non si accorge di quanto noi vasi preziosi possiamo essere delicati. In fondo, non sono loro a rischiare di spezzarsi.
Così ho rinunciato alla mia illusione di sicurezza. Adesso capita che sia io a sporgermi, per vedere meglio quello che c'è intorno a me. Quando ero a terra mi sono reso conto che non avevo mai notato gli altri vasi, i dipinti, le sculture, le opere che riempiono questo mio piccolo mondo. E ho notato che non sono l'unico ad essere sbreccato.
Non fraintendetemi: ho ancora paura. Se penso che potrei cadere ancora, mi prende un capogiro. Ma poi mi dico che preferisco sentirmi parte di qualcosa, piuttosto che rimanere paralizzato dal ricordo del dolore. È vero, potrei cadere; ma potrebbe anche non succedere mai.
E poi, è il sopravvivere al tempo e agli urti che ci rende preziosi.

   
 
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