Capitolo
1
“ Ma crede davvero che me la beva?!” penso
trafelata.
Accelero l’andatura e alla prima occasione svolto a destra.
Le vie
si assomigliano un po’ tutte è l’unico
modo per riconoscerle sono i pochi nomi
o insegne di negozi ancora
sopravvissute
che ora pendono con i fili scoperti come resti bionici. Le vecchie case
ormai
crollate si accasciano su loro stesse come animali feriti o ai lati di
quelli
che un tempo erano marciapiedi, mentre macerie, ferro e pezzi edili
giacciono
sparpagliati qui e là per la strada. Alcuni edifici
più fortunati si ritrovano
senza una porzione di muro, con qualche finestra saltata o qualche
portone, ma
sono ancora solidamente in piedi; di altri, invece, non rimane
più nulla se non
qualche piano pericolante, sotto cui sono stati allestiti provvisori
banchetti
di venditori ambulanti che cercano di rivendere cianfrusaglie, oppure
lo spazio
viene utilizzato come riparo momentaneo durante la pioggia. Qui a
Cardia-Y 311,
la città-stato in cui vivo, la pioggia è
micidiale ma, sono più che convinta
che nelle altre parti del pianeta la situazione non sia poi
così diversa. A
causa dell’ inquinamento di centinaia di
anni, l’acqua, se così si può ancora
definire, è diventata talmente acida che
bastano poche gocce per corrodere il cemento e tutto ciò che
tocca; e l’effetto
sulla pelle è altrettanto letale. Inoltre è utile
dire che l’acqua stessa è
inutilizzabile, a meno che, se si riesce ad immagazzinarla come si
deve, non la
si usi come potente corrosivo per lavorare o smaltire piccole
quantità di
rifiuti. Dico piccole, perché lo Stato più di una
volta ha tentato di
sciogliere tonnellate di spazzatura, con l’unico risultato di
creare
avvelenamento da fumi tossici come mai prima nella storia, tanto che
tutt’ora
alcuni distretti, dove si trovavano le centrali di smaltimento, sono
chiusi per
le esalazioni. Non solo, in
alcuni punti
della città l’ingresso è vietato anche
a causa del pericolo di crolli o della
concentrazione di monossido di carbonio, su cui gli scienziati del
Centro
continuano a indagare
per spiegare come
mai ci sia addensamenti solo in alcune zone. Ma non hanno trovato
ancora risposte
soddisfacenti, così si limitano a diffondere delle ipotesi
verosimili, per
calmare la popolazione.
Finalmente sono arrivata alla vecchia cartiera. Ha lo stesso
aspetto di trecento anni fa, almeno così si dice in giro,
con l’unica
differenza che oggi è inattiva e completamente abbandonata,
visto che non
esistono più boschi da cui poter prendere il materiale la
materia prima per
fabbricare la carta. A me è sempre sembrata
un’enorme scheletro di cemento.
Inoltre all’interno vi sono ancora quasi tutti i macchinari e
cianfrusaglie
varie. Tuttavia nessuno, tranne me, ovviamente, osa entrarci siccome
è una
delle zone gialle di livello 5 per il rischio di crollo (quindi una tra
le più
pericolose). Penso che sia stata chiusa anche perché
trattiene monossido di
carbonio o qualche altra sostanza tossica. Una sola volta,
quando ero più
piccola ed ero in giro con mio padre, la curiosità mi ha
spinta ad entrarci. Ho
avuto appena il tempo di fare qualche passo all’interno, che
la testa ha
iniziato a farsi pesante, le braccia e le gambe non mi rispondevano
più, erano
come piombo saldato a terra, pesantissime e rigide, mentre la vista
andava
lentamente annebbiandosi. Per fortuna mio padre mi ha trovato e portato
via in
tempo, altrimenti ci avrei lasciato le penne. Da allora non vado
più in giro
senza la mia fedele mascherina depura-aria, che adesso sistemo
accuratamente
sul naso e sulla bocca prima di procedere oltre. Questa è un
aggeggio simile
alle vecchie mascherine trasparenti per aerosol, usate per curare
bronchiti e
asma tuttavia al centro ha un cilindro spesso tre centimetri, che
contiene
griglie al carbonio trattate con agenti chimici, che scompongono
l’aria
lasciando passare solo ossigeno e, tramite due tubicini ai lati, lunghi
tutta
la larghezza dell’aggeggio di plastica, vengono espulse
anidride carbonica e
altre sostanze.
Cerco la solita crepa nel fianco dell’ edificio e mi ci
addentro,
voltando un attimo la testa per
vedere dov’ è il mio inseguitore; ho appena il
tempo di scorgerlo
a pochi metri da me che subito sparisco oltre il muro.
Caspita non molla, anche con tutta quella ciccia! Lesta, sposto
delle scatole subito dopo l’ingresso della crepa per
rallentarlo. All’interno i
passi rimbombano troppo forti, producendo un’eco cupo e
ritmico. Dovrei
rallentare perché ormai sono al limite delle forze, ma le
urla sguaiate del
tizio mi convincono di nuovo a non farlo. Supero cartacce e sporcizia,
trovandomi
a una ventina di metri dall’uscita quando uno schianto mi fa
voltare di colpo,
arrestando la mia fuga.
Il resto accade in un attimo. Il ciccione inciampato nella pila di
scatoloni, si è schiantato contro una colonna malandata che
sorreggeva una
trave di ferro arrugginita. L’impatto fa sì che la
trave si sganci
completamente dal supporto, precipitando dritto su di me. Mentre il
cervello
cerca di mettere insieme i dati, i riflessi, allenati ormai da anni di
vita
spericolata, hanno già dato istruzioni al mio corpo, che
perciò si butta in
scivolata di fianco ad un enorme macchinario, che credo dovesse
tagliare e
sminuzzare materiali vari. L’impatto della trave con il suolo
è indescrivibile:
le vibrazioni, che si propagano sul suolo, sono come scosse di
terremoto che
percepisco benissimo accucciata come sono e squassano tutto il mio
corpo. Spingo
la faccia in giù e proteggo con una mano la borsa e con
l’ altra la testa, nel
momento in cui il sisma scatena una serie di crolli a catena. Aspetto
minuti
interminabili e decido di riprendere a muovermi solo quando non sento
più
nessun rumore. Si è alzato un gran polverone nel frattempo,
che mi fa lacrimare
gli occhi stanchi. Rotolo sulla schiena e, appena la nube si deposita
nuovamente al suolo, noto con terrore che ho scampato per un pelo di
rimanere
spiaccicata: la trave, colpendo in pieno il macchinario, lo ha
trasformato in
un ammasso compresso di lamiere e miracolosamente è riuscito
a sostenere il
peso, salvandomi la vita! A quanto pare in questa dannata fabbrica,
ogni volta
che ci metto piede, rischio di rimanerci secca. Forse è
meglio restarle alla
larga per un po’.
Impiego qualche minuto a smaltire l’adrenalina e ritrovare il
controllo. Di nuovo in me, con la tracolla sulla schiena, striscio
lontano
dalla trave. Il senso di liberazione è magnifico, sebbene
non ne sia uscita
indenne; la stoffa della gamba destra del pantalone è
completamente strappata
ed insanguinata come il gomito e parte del braccio a causa della
scivolata e
sembrano dei pezzi di carne da macello. Siccome sono ferite agli arti
sono lievi,
ritorno ad esaminare il pantalone; di sicuro mia zia mi
ucciderà! Soltanto
settimana scorsa ne ho rotto un altro e non posso permettermi di
buttare via
ancora un paio, con tutto quello che costano. Sbuffo irritata al
pensiero della
ramanzina che mi aspetta, ma solleva il morale sapere che il contenuto
della
borsa e la mascherina sono intatti. Purtroppo non è il
momento di pensarci, tra
non molto una marea di gente e sorveglianti si precipiterà a
vedere cosa è
successo e non possono beccarmi di nuovo. Non qui, in una zona dove, in
teoria,
è vietato l’ingresso. Mi arresterebbero di sicuro,
visto che sono al secondo
ammonimento, e soprattutto non la farei franca se sul posto dovessero
arrivare
i Funzionari! Sono il dipartimento al vertice dei servizi di sicurezza
e della
polizia, perciò hanno molti poteri, oltre ad un piccato
senso del dovere e
delle regole, per non parlare del loro rigore e
dell’inflessibilità che hanno
suscitato la diffidenza della popolazione. Credo però che
sia anche a causa del
reparto di sorveglianza speciale che si occupa delle persone con
“abilità”
particolari.
Scaccio dalla mente questi pensieri, fascio alla meglio la gamba
ed il braccio con degli stracci, e mi allontano senza guardare indietro.
Lo scantinato,
illuminato da quattro finestre orizzontali e
rettangolari, è tappezzato da monitor di computer obsoleti,
alcune scrivanie,
viti, cacciaviti, attrezzi elettrici, circuiti, fili di rame,
saldatrici,
chiavi inglesi ed un enorme generatore elettrico in un angolo.
È il paradiso
per uno con la passione per PC e qualsiasi cosa funzioni ad
elettricità e non
solo.
<< Ehi
Kid!>> urlo, mentre mi siedo sul
corrimano in
ferro, lasciando dondolare a penzoloni le gambe. Una figura china sotto
una
delle scrivanie sobbalza e picchia la testa contro una cassetta di
ferro.
<< Auch!
… grazie mille,
April!>> mugugna il ragazzo
che si mette in piedi massaggiandosi un punto della testa coperto dal
suo
cappellino senza visiera preferito. Kid è il mio migliore
amico, ha un anno più
di me, capelli biondo cenere e occhi grigi. È alto e magro
da fare schifo, ma
questo lo penalizza in fatto di muscoli: a nulla serve la canotta
bianca che porta
per mettere in evidenza un filo, appena accennato, di addominali.
Adesso cerca
di fissarmi seriamente, con lo sguardo di rimprovero che,
però, non gli riesce.
Cerco comunque di restare al gioco.
<< Mi
dispiace tanto>> dico nel tono
più dispiaciuto
che riesco a fare.
<< Lo
sai? Non sei brava a mentire>> mi
schernisce.
Mi sa che non ci
è cascato, peccato.
<<
Qualcuno deve avermelo già detto, ma sono
convinta di
poter migliorare>> scherzo.
<< Spero
di no! Altrimenti siamo tutti
fregati>>
risponde lui finalmente divertito. Purtroppo per lui, anche quando era
piccolo,
non riesce a restare arrabbiato per più di cinque minuti di
fila.
<<
Indovina cosa ti ho portato?!>> cambio
volutamente
argomento per non tirarla per le lunghe, perché sono una che
si stufa
facilmente.
<< Hai
rubato ancora?!>> adesso
è seriamente
indignato.
<< Non
direi rubato. Piuttosto ho soddisfatto dei bisogni
primari>> ribatto decisa.
<<
Quale? Quello della cleptomania? >>
<< No,
scemo! E poi non sai neanche che significa
“cleptomania”>>
Ride. <<
E cosa mi avresti portato,
sentiamo…>>
Estraggo dalla borsa
tre mele rosse come il fuoco. Kid ha
un’espressione stupefatta, mentre si avvicina estasiato, cosa
che mi rende orgogliosa
del mio operato, anche se ho rischiato la vita per portagliele.
<< Se
fossi stato in te avrei preso qualcosa di
più
prezioso! Hai idea di quanto costano?>>
<< E dai
Kid, non fare il moralista! È da mesi
che non se ne
vedono in giro. Le ho adocchiate su una bancarella e le ho prese.
Chissà quando
ci ricapiterà ancora>> cerco di avvalorare la
mia tesi, ma mi sa di non
averlo ancora convinto, perché non le ha neanche toccate.
<< Oh!
Se non la vuoi, la mangio io!>>
sbotto stufata.
Faccio per addentarne una, quando lui me la toglie prontamente di mano.
<< No!
No! La mangio>> strilla lui di
rimando.
Non posso fare a meno
di sorridere.
Lo conosco fin troppo
bene per capire che ha una fame allucinante
che solo i ragazzi posso avere, ma non lo mostra mai, perché
sa che altrimenti
ruberei qualcosa di più sostanzioso per sfamarlo.
Così, per assecondarlo,
faccio finta di non essermene accorta. Nei sobborghi il cibo
è scarso e per lo
più mangiamo scatolame o prodotti non deperibili,
cioè quelli che si possono
conservare più a lungo, anche per mesi. Inoltre sono gli
unici che possiamo
permetterci perché a basso costo, oltre alle uova e pochi
formaggi prodotti dai
limitati allevamenti arrangiati. La frutta e verdura
“fresca”, in verità frutto
di manipolazioni genetiche provenienti dal Centro, hanno dei prezzi
assurdamente alti e pochissimi, grazie a risparmi di settimane forse
mesi di
lavoro, riescono a comprarli. Comunque è sempre un piacere
vedere Kid che
mangia con gusto, non importa quanto debba rischiare. Ha
un’espressione
contenta, serena e meno afflitta dai problemi quotidiani, ritornando
quasi un
bambino, come J. J.
A proposito di lui!
<<
Dov’è J. J ?>>
chiedo preoccupata a Kid. Di solito,
quando vengo qui, mi salta sempre in braccio, come il piccolo koala del
libro
illustrato che abbiamo trovato in un vicolo abbandonato, proprio come
lui.
J. J è un
orfano. Tre anni fa, io è Kid lo
abbiamo visto
vagabondare per le strade, tremante di freddo, mentre un gruppo di cani
randagi, con le costole evidenti sotto il pelo, lo seguiva a poca
distanza,
sperando che si accasciasse al suolo per attaccarlo. Ad un certo punto
le sue
esili gambe non hanno più retto per gli stenti e la fame, ed
è caduto in ginocchio.
Mentre passavamo lì accanto, avevo colto un leggero
movimento di quello che
poteva essere il capobranco dei randagi, e non ho saputo trattenermi,
correndo in
suo aiuto. Sapevo che non potevamo aiutarlo, perché a stento
in inverno
riuscivamo a sfamare noi stessi e le nostre famiglie, ma non me lo
sarei mai
perdonata se fosse morto in quel vicolo, davanti ai miei occhi. Con
l’aiuto di
Kid ho scacciato i cani a suon di bastonate, per avvicinarmi al bambino
e
rimetterlo in piedi. Era avvolto solo in una mantella slabbrata e da
sotto gli
stracci si vedevano le ossa. Fu il viso a colpirmi maggiormente. Le
guance erano
scavate dalla fame, i capelli castani erano arruffati e sporchi, gli
occhi di
un grigio spento dalle atrocità viste, ma determinati a non
soccombere. Non
pensavo che un bambino di poco più di sei anni potesse avere
uno sguardo così
intenso.
Cosa dovevo fare
adesso che l’avevo aiuto? Che speranze
potevamo
dargli se nemmeno noi né avevamo? Quegli occhi
così espressivi mi stavano
incastrando lentamente e non sapevo cosa dirli. Allora gli chiesi il
nome, ma
l’unico suono che emise in risposta fu una flebile j e per
questo lo chiamammo
J. J. Quando poi menzionai i suoi genitori e dove fossero, mi strinse
il
braccio con tutta la forza che aveva e, fissandomi intensamente, il suo
sguardo
disse più cose di quante si possano esprimere con le parole,
colpendomi dritto
all’anima. Potevo immaginare solo lontanamente cosa avesse
subito per trovarsi
in quel vicolo, da solo e sperduto e mi chiesi come mai non fosse
scoppiato
ancora a piangere per comunicarmi il suo disagio. Forse si tratteneva
dal farlo
o forse non aveva più lacrime da piangere. Semplicemente
rimase lì, fermo a
trattenermi. Quella stretta, così forte per le sue fragili
dita, mi fece capire
che anche lui era una vittima, ma voleva sopravvivere a tutti i costi.
Mi aveva
conquistata mostrandomi la sua determinazione. Perciò capii
che non sarebbe
stato difficile aiutarlo e che da allora non l’avrei
abbandonato. Lo portammo
subito al rifugio dove, datigli dei vecchi vestiti del mio amico, gli
offrimmo
tutto il cibo che avevamo portato con noi. Vederlo mordicchiare il
pane, con
quegli indumenti troppo larghi, tanto da farlo sembrare più
minuto di quanto
fosse, mi fece provare subito una certa simpatia ed affetto nei suoi
confronti.
Da quel giorno in avanti gli portammo avanzi, rimasugli e tutto quello
che
riuscivamo a trovare e dopo tre mesi, finalmente iniziò a
parlare, a muoversi
con scioltezza, migliorando di giorno in giorno, fino ad essere lo
spiritoso,
esuberante ed energico moccioso che è adesso.
<<
È anfafo
a fafe
una fommiffione… >> mi risponde, con la bocca
piena della mela che sta
gustando.
<<
Ingoia! Non fi capiffe nienfe>> gli
faccio il
verso.
<<
È andato a fare una commissione, se la
gestisce bene gli
abbiamo trovato un lavoro>>
<< Ma
è fantastico!>> esulto.
Sono davvero contenta
per J. J.. Finalmente potrà guadagnare
un
po’ di soldi per conto suo ed iniziare a provvedere da solo a
se stesso, così
da avere dei pasti decenti e non le solite microscopiche porzioni che
gli
portiamo o possiamo offrirgli di tanto in tanto.
Ripongo con cura una
delle due mele rimaste, mentre l’altra
la
addento senza complimenti con la soddisfazione e la contentezza dipinte
sul
viso. Appena Kid ha finito la sua, pulendosi la bocca sulla manica
corta della
maglietta, torna ad armeggiare con il generatore elettrico.
<<
April, hai preso i pezzi che ti ho
chiesto?>>
Rispondo di
sì, saltando giù dalla mia sedia
improvvisata e, dopo
aver finito con calma la mela, gli piazzo in mano una scatolina con dei
fili
che schizzano fuori da tutte le parti. Kid lo osserva per qualche
secondo
sconcertato, poi posa il suo sguardo infuriato su di me. Il suo lato
oscuro
esce solo quando si tratta di aggeggi di questo tipo.
<<
L’hai strappato via a mani
nude?!?>> mi rimprovera.
Questa volta la faccia
seria gli riesce benissimo e non sta
scherzando.
<<
Sì?>>
<<
SÌ?? Ma sei impazzita?! Potevi
danneggiarlo! E come
avremmo fatto a sistemare il generatore per accendere i computer??
È da mesi
che ci lavoro!!>> sbraita in preda all’ira.
<< Che
altro dovevo fare? Non c’erano forbici o
oggetti
utili a portata di mano. E poi ero di fretta>> sbuffo
seccata.
Kid sbuffa a sua volta
scontento e sistema i fili scoperti,
borbottando come una pentola di fagioli messa a bollire. Purtroppo mi
tocca
assisterlo e perciò mi siedo pazientemente accanto a lui a
gambe incrociate,
passandogli gli attrezzi che mi chiede ed aspettando che la rabbia gli
sbollisca un po’, prima di riprendere a chiacchierare.
<< Cosa
speri di trovare nei PC?>> chiedo
dopo un buon
minuto di silenzio.
<< Non
saprei. Spero che essendo del Centro ci siano dei
dati interessanti>> commento ad alta voce.
<< Non
credo che abbiano lasciato file importanti in un
computer da buttare>>
<<
Infatti ho scoperto alcuni metodi per ripristinare
file
cancellati o criptati. Ci sono diversi sistemi e ognuno ha bisogno di
passaggi
ben definiti…>> ma il discorso diventa troppo
specifico e complesso per
me, così mi limito ad annuire e far finta di ascoltare,
perdendomi nei miei
pensieri. Quando Kid attacca a parlare con la passione per queste cose,
non lo
ferma più nessuno. Infatti, non so per quanto va avanti, ma
nel momento in cui
si zittisce ha finito di montare la scatolina. Soddisfatto, attacca gli
ultimo
due fili ad una ciabatta a più prese, collegandovi le spine
necessarie e si
ferma ad ammirare il suo capolavoro.
<< Sei
pronta?!>> esulta posandosi i pugni
sui
fianchi.
<<
Mah!>> bofonchio. Sono ancora scettica a
riguardo.
<< Sbrigati ad accendere quei dannati
affari!>> lo incito ormai
stufa. Felice come una pasqua, Kid spinge verso il basso una leva
laterale,
azionando con un ronzio il vecchio catorcio che dovrebbe fungere da
generatore.
Appena la corrente inizia a passare nei fili, il mio amico preme uno ad
uno i
pulsanti dei PC che lentamente prendono vita e i loro monitor, da
grigi,
assumono un azzurro brillante, mentre una barra verdognola inizia a
caricarsi.
<<
Funzionano>> rimango senza parole,
mentre Kid è
fuori di se dalla gioia. << Funziona
davvero Kid. Ce
l’ hai fatta!!!>> adesso sono
io quella
fuori di sé e gli assesto una gran pacca sulla spalla.
<< Cosa
ha fatto? Vi si sente da fuori …
>> dice
qualcuno alle mie spalle, avvinghiandosi a me.
<< J. J
!! sei tu >> dico, sobbalzando. Il
piccolo
koala si stringe ancora di più, anche con le gambe, mentre
ridacchia divertito
di avermi spaventata.
<< Come
è andata la
commissione?>> gli chiede Kid,
mentre gli faccio il solletico.
Si stacca con il
sorriso stampato in faccia << He he! Mi
hanno assunto!>> saltella dalla gioia.
<<
Bravissimo J>> lo abbraccio fortissimo.
<< dove
andrai a lavorare?>> chiedo rendendomi conto di non aver
indagato prima
sull’argomento.
<<
Sarò l’aiutante del fabbro a due
isolati più giù di dove
lavora Kid >> racconta J. con il petto gonfio di trionfo
e del suo
orgoglio di bambino.
<<
Sembra grandioso! E quando inizi? >>
chiedo
curiosa.
<<
Dopodomani mattina, però
presto>> puntualizza.
<< Mi
raccomando, vedi di scottarti!>> lo
punzecchia
Kid, mentre gli arruffa i capelli ed iniziano ad azzuffarsi per gioco.
Sono proprio due
bambini! Kid, grande e grosso, si diverte ancora
a fare la lotta con chi è più piccolo di lui.
Alzo gli occhi al cielo, ma lascio
lo stesso la borsa in disparte e mi butto nella mischia. Non mi lascio
mai
sfuggire una piccola zuffa contro Kid, soprattutto perché
vinciamo sempre J. J
ed io. Il gioco finisce quando riesco ad atterrare di schiena il mio
amico,
mentre J. J gli tiene ferme le gambe.
<<
Abbiamo vinto!!>> strilla J.
<< Non
vale, avete fatto di nuovo
squadra!>> scoppiamo
tutti a ridere.
All’improvviso
un bip dei computer interrompe il nostro
momento di
svago. Kid ci scrolla subito di dosso, mandandoci a finire con i sederi
per
terra, e si avvicina alla postazione. Prima di raggiungerlo do la mela
al
bimbo, che la divora in un nanosecondo con le guanciotte arrossate per
lo
stupore.
<< Cosa
ti sei fatta?>> mi chiede
d’un tratto indicando
le fasciature.
Cavolo! Mi ero
dimenticata di medicarmi per non fargli vedere le
ferite. Quando c’è J. J nei paraggi, evito sempre
di farmi vedere bendata e sanguinante,
per evitare che si preocupi inutilmente.
<< Di
sicuro ha rischiato ancora di farsi ammazzare. Come
sempre!>> brontola Kid.
Lo sa che non deve
dire certe cose davanti a J. J, accidenti a
lui! Perciò gli assesto un cazzotto dritto sul braccio.
<< Che
ho detto?>> si lamenta.
<< Parli
sempre a sproposito!>> lo guardo
furibonda,
poi mi rivolgo al bambino << Non è niente di
grave, sono solo
scivolata>> sorrido per non farlo intristire di
più.
<< Stai
attenta, non voglio che ti fai
male>> ha una
faccina così addolorata mentre lo dice, che mi si stringe il
cuore e,
maledicendo me stessa per la mia disattenzione, gli arruffo i capelli
corti. <<
Starò più attenta, promesso>>.
Ci avviciniamo ai
monitor, dove Kid si è già
messo all’opera,
battendo freneticamente sui tasti neri delle tastiere.
<<
Allora?>> chiedo impaziente, sporgendomi
da dietro
la spalla del mio amico.
<<
È più complicato del previsto!
Devo studiare bene il
sistema operativo prima di procedere al ripristino dei
file>> dice in
tono serio e concentrato << Perciò oggi non
c’è molto che possa
fare>> deluso, si appoggia sullo schienale della sedia di
legno,
reclinando la testa all’indietro, a due centimetri dal mio
viso.
<<
Quanto ci metterai?>> chiede J. J,
appollaiato su
una scrivania. Sembra un piccolo scoiattolo curioso.
<< Non
so. Una, massimo due settimane>>
<<
Caspita, così poco?>> si
stupisce J.
<< Ti
sei dimenticato? Sono il migliore in questo
campo>> afferma orgoglioso.
In effetti Kid
è il migliore che conosco: riesce a fare veri
e
propri miracoli con macchine, ingranaggi e quant’altro. Non a
caso è diventato
il braccio destro del gestore dell’officina principale dei
Sobborghi ed è molto
probabile che un giorno ne diventi il proprietario. Questa sua innata
capacità,
però, allo stesso tempo è fonte di molte
preoccupazioni, perché se i Funzionari
scoprissero il suo talento, lo trasferirebbero senza perdere tempo al
Centro
alle loro dipendenze per sfruttarlo per i loro interessi.
Perciò tutti quelli
che conoscono Kid cercano di essere discreti e di diffondere meno
notizie
possibili sul conto del mio amico… Ma non riesco a fare a
meno di pensare
all’eventualità che possa succedere una cosa del
genere, se uno solo dei suoi
conoscenti o lui stesso, involontariamente si lasciasse sfuggire anche
una
parola di troppo. Come cambierebbe la sua vita? Si troverebbe meglio o
peggio?
Cosa potrebbero fargli? Lo torturerebbero? Cosa lo costringerebbero a
fare?
<< Ehi
April! Yuhuuuu… mi stai
ascoltando?>> dice Kid,
strappandomi dai miei pensieri.
<<
Cosa?!>> mi affretto a chiedere,
sentendomi una
cretina totale ad aver pensato alla possibilità che Kid ci
possa lasciare, dato
che non lo permetterei mai!
<<
Dicevo che si è fatto tardi. Dovremmo
andare a mangiare
qualcosa e tornare a casa prima che suonino le sirene>>
sbuffa guardando
l’orologio di plastica rovinata allacciato al polso.
<<
Sì, sì hai ragione. Che ore
sono?>> chiedo.
<< Quasi
le sette>> mi risponde lui
pazientemente.