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Autore: Piuma_di_cigno    04/08/2015    2 recensioni
Scarlett è una ragazza perfettamente normale, quando tanti piccoli cambiamenti stravolgono il suo mondo: attacchi di rabbia incomprensibili, una forza disumana che improvvisamente le scorre nelle vene, il fatto di non riuscire più a sentire il freddo ... Non capisce cosa le stia succedendo, finché un ragazzo, Will, pronuncia il nome della sua nuova condizione: licantropo.
Da allora, è una corsa senza fine, per cercare di capire quello che è diventata e quello che perderà della sua vita. E, soprattutto, tra queste perdite, ci sarà anche Daniel, il misterioso ragazzo che la salva nelle notti di luna piena? E se proprio lui, il suo salvatore, il suo scoglio nell'oceano, fosse il nemico peggiore?
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella era una mattina normale.

O, almeno, era la definizione che io davo a una mattinata normale: suonò la sveglia, la buttai giù dal comodino, mi alzai, scesi a fare colazione, mia madre mi augurò una buona giornata … Per fortuna, niente a che fare con la scuola, ormai.

Era da meno di una settimana che avevo finito il liceo, fino all'ultimo esame. Cominciava la vita vera, pensai mentre uscivo con la borsa stretta al petto, diretta al lavoro part-time nella libreria poco distante.

Presi la macchina di mia madre per andarci anche se sarebbe stato meglio andarci a piedi, tanto per darmi una svegliata e scacciare la pigrizia sonnolenta che mi intorpidiva le braccia e le gambe.

Era una mattinata grigia, come poche in estate, e, nonostante il freddo, avevo addosso solo una canottiera nera, con un paio di jeans e delle comode scarpe, il più possibile, visto che starsene tutta la mattina alla cassa o a catalogare continuamente libri richiedeva l'assenza di tacchi.

Quando entrai in negozio, la mia collega Katie sgranò gli occhi.

“Scarlett, non hai freddo?”

Katie era … Freddolosa. Molto freddolosa.

Mi vennero i brividi a vedere che indossava una felpa invernale larga, un paio di jeans dall'aria pesante e un paio di stivaletti. Fosse stato un po' di tempo prima, probabilmente l'avrei fissata esterrefatta per un paio di minuti – come avevo effettivamente fatto quando ci eravamo conosciute-, ma in quel momento mi limitai a sbuffare e ad alzare gli occhi al cielo.

“Mi pare che sia tu quella che ha freddo, qui.”

Sorrise e scrollò le spalle.

Era minuta, con la carnagione bianca come la carta e sembrava che al minimo tocco potesse rompersi. Non di rado, doveva starsene a casa con la febbre. Aveva capelli e occhi neri, e la cosa faceva risaltare non poco il suo pallore.

“Com'è andata ieri sera?” chiesi, appoggiando la borsa dietro il bancone e cominciando a catalogare i libri nuovi.

Katie sorrise di nuovo.

“E' stato carino.” rispose, incerta. Ecco, carino era il codice di Katie per dire che era stato davvero terribile. Lei era una di quelle persone talmente buone da far sentire gli altri cattivi, anche se non lo erano.

“Non ne dubito. Quale bambino ha pianto tutto il tempo, allora?”

Katie sospirò. La sera prima era la serata dedicata alla lettura, e lei aveva accettato l'incarico, lasciando a me quello della catalogazione di nuovi volumi. Ogni volta, almeno un bambino strillava per tutto il tempo, o faceva disastri nella libreria, o cercava di arrampicarsi sulla mia collega. Lei lo trovava terribilmente stancante, ovviamente, ma non lo ammetteva, perché continuava a sperare che in fondo tutti i bambini fossero davvero carini.

“Carl.” rispose infine, prendendo qualcosa da dietro la cassa. “Non fraintendermi, io gli voglio bene, ma … Ecco ...”

Per un attimo, pensai di dirle quello che le dicevo sempre, ovvero che potevamo scambiarci i compiti, ogni tanto, ma poi una scintilla di rabbia, imprevedibile, dal nulla, esplose nel mio petto.

“Ma insomma, Katie! Devi smetterla! È ora che tu reagisca! Tu fai così solo … Solo ...”
Sentivo la rabbia arrivarmi a ondate, soffocandomi, impedendomi di parlare e di trovare le parole. Per un attimo, rimasi esterrefatta, tremante, ad occhi sgranati. Poi, la rabbia sparì.

Il mio cuore rallentò e le mie guance tornarono pallide e il mio cervello funzionò abbastanza per capire che avevo fatto piangere Katie.

“Katie, davvero … Io non … Non so ...” cercai di avvicinarmi, ma lei si scostò.

“Non ...” disse soltanto, prima di sparire nel retro del negozio, lasciandomi sola. Ancora tremavo. Non sapevo davvero come fosse potuto succedere. Io non ero una persona irascibile. Mi ritrovai a corto di fiato, quando una cliente entrò in negozio.

Feci del mio meglio per sorriderle e per dissipare quella strana nebbia che mi si era formata in testa.

 

Katie non mi parlò per tutta la giornata. Non era arrabbiata con me, ne ero sicura, ma preferiva tenersi a distanza, come per paura di darmi fastidio.

Non cercai nemmeno di avvicinarmi, la gola serrata dal senso di colpa per quello che le avevo detto. Era come se una nebbia mi si fosse insinuata in testa, una nebbia malefica, e mi avesse fatto dire quelle parole. Ne rimasi spaventata per tutto il giorno.

Ero sulle spine, terrorizzata, in attesa che quella sensazione tornasse di nuovo. Era come se avessi centinaia di piccoli aghi che mi pungevano sulla pelle. Ero sensibile a qualunque movimento intorno a me e persino una mosca sulla mano mi faceva saltare dallo spavento.

Quando, infine, la giornata si concluse, ero esausta e fuori diluviava.

Non avevo l'ombrello, ma non mi importava, perché un po' d'acqua fredda mi avrebbe decisamente fatto bene. E poi, non avevo mai preso un raffreddore o un'influenza quell'anno, nemmeno quando ero caduta nel lago dietro la scuola, mesi prima.

Non faceva freddo.

Guardai Katie allontanarsi con l'impermeabile e l'ombrello e mi chiesi se ci fosse qualcosa di sbagliato in me, visto che gironzolavo in canottiera e jeans. Quando passai davanti alla casa dei vicini e notai che il termometro sul muro segnava dieci gradi, cominciai a pensare di avere la febbre.

Rientrai e corsi a farmi una doccia calda, liberandomi dei vestiti fradici e indossando un paio di pantaloncini e una maglietta. Eppure, continuavo a non sentire il freddo.

Alla fine, mi arresi e misurai la febbre, di nascosto, per non far preoccupare mia madre. Ma niente. Non avevo niente.

Riposi il termometro dandomi della sciocca e andai in cucina per la cena.

Eravamo solo io, mamma e mia sorella. Papà e mamma si erano lasciati molti anni prima, poco dopo la mia nascita, e da allora eravamo cresciute solo con mamma.

Era una persona forte, ma una delle sue peggiori paure erano le malattie, perciò evitavamo accuratamente di parlarne, per non finire all'ospedale. Ostentai indifferenza persino quando mi accorsi che il bicchier d'acqua, gelato, che presi in mano risultò solo vagamente freddo, come se lo stessi toccando coi guanti.

Mia sorella era più grande di me di cinque anni. Si chiamava Ellie; rimaneva con noi ancora una settimana, prima di tornare al college in cui studiava. Da piccole ci detestavamo, ma con gli anni le cose erano migliorate e, anche se non eravamo esattamente amiche, stavamo bene insieme e avevamo tanti ricordi ed esperienze da condividere. Lei era il tipo di persona che non mi avrebbe mai giudicata, che non avrebbe mai giudicato nessuno, nonostante sapesse essere aggressiva con chi la trattava male.

Con una stretta al cuore, mi impedii di ripensare a Katie.

“Tesoro, mi passi il sale?” mamma mi tese la mano, dall'altro lato della tavola. Presi il barattolino del sale, ma si frantumò tra le mie dita prima che potessi dire anche una sola parola.

Senza fiato, sentii la rabbia arrivarmi di nuovo addosso, a ondate e sentii la mia mano, come non fosse mia, stringersi a pugno, fino a conficcarsi i vetri del contenitore nei palmi. Ero furiosa.

Mi alzai da tavola, con il desiderio cocente di urlare, di piangere, di rompere tutto quello che era in cucina.

Ellie si alzò, studiandomi.

“Sky, cos'hai?” ma io non ci vedevo più.

Era tutto rosso di rabbia, quello che vedevo, non riuscivo a controllarmi. E, prima che potessi impedirmelo, vidi la mia mano stretta a pugno saettare verso il muro, lasciandone l'impronta, e facendone crollare dei frammenti sul pavimento.

Mia madre e mia sorella si immobilizzarono, in piedi accanto al tavolo, mentre l'onda di rabbia passava e crollavo in ginocchio, la testa fra le mani, travolta dai tremiti.

Spazio autrice: ciao a tutti! Questa storia è dedicata a tutti coloro che amano il lato più dolce dei licantropi; i licantropi che si trasformano di loro volontà e che non sono succubi della luna piena. Detto questo, il racconto è dedicato ovviamente alla mia amica Lisa, che mi ha chiesto di scriverlo.
Spero lascerete molte recensioni!
Baci,
Piuma_di_cigno.

   
 
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