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Autore: Alexander Bane    11/08/2015    0 recensioni
*PREMESSA* Il rating arancione sarà in futuro sostituito da uno rosso, una volta che, in capitoli molto più avanti, tematiche rosse verranno trattate. Thanks ;)
"Alexander, non avrai paura dei fantasmi?"
Il Limbo è il mondo di mezzo, il mondo delle ombre, ma anche un mondo lasciato a sè stesso in un universo in guerra. Ma anche alcuni umani, i Principali, possono accedervi. Il destino del Limbo e del suo folle sovrano sono appesi ad un filo, nelle mani di un' improbabile eroina e la sua guida. E' nei momenti più bui che la luce affiora. Benvenuti nel mondo delle Ombre.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Guardai le parole sullo schermo, davanti ai miei occhi, e presi fiato.

Nicole Shane era un tipo molto particolare, un maschiaccio.

Di corporatura neanche tanto esile, a differenza della maggior parte delle altre ragazze dell'Istituto, nel suo volto erano incastonati due occhi verdi, quasi grigi, di cui quello destro era coperto da un ciuffo fino alla punta del naso. I capelli erano, infatti, l'unica cosa di femminile che possedeva, battute squallide dei suoi compagni a parte. Lunghi fino a poco sotto il seno non molto pronunciato, erano di un colore marrone castano, senza alcun tipo di riflesso. La pelle morbida ed il naso sottile erano spesso coperti dai suoi capelli o vestiti, dalla tendenza sempre sportiva.

Il suo guardaroba non comprendeva gonne.

Altruista e fragile, spesso la si poteva trovare appollaiata su una rampa di scale a guardare qualcosa di non precisato, col viso appoggiato ad una mano ed i capelli cadenti di lato. Sfortunatamente per lei, spesso era sola nel farlo. Non era contemplato l'altruismo nel gruppo di persone che conosceva, fatta eccezione per Alyssa Bergman e Darevonn Beneath.

Nonostante con la prima le conversazioni fossero relativamente rare e brevi, la gracile ragazza dal tono pacato ed occhi tristi, qualsiasi fosse l'espressione, portava con sé un bagaglio culturale notevole, raccimolato da sola nella solitudine simile a quella di Nicole. D'altra parte, Darevonn ci sarebbe stato tutto il tempo necessario, finché la scorta di merende di Shane avesse retto. Sonnolento ma allegro, il ragazzo era richiesto da intere classi se si trattava di riportare un po' d'allegria fra le masse. Un trio curioso di individui. “

 

 

Sospirai lasciando cadere la testa fra le mani, poco dopo aver letto l'ultima riga del testo. Non andava ancora bene, tutto pareva con troppa enfasi... Ogni descrizione sembrava troppo...sì, troppo, ecco. Sembrava troppo, per tre semplici giovani come noi. Ero lì seduta da ore, eppure nulla di tutto ciò che avevo scritto mi soddisfaceva. Lasciai la testa e spinsi sula scrivania con le mani, dandomi la spinta per rialzarmi, quasi però inciampando nelle ruote della sedia.

Shane, va' a casa. E' tardi ormai, ci vediamo domani” mi disse il bidello, una delle poche persone che non pensava due volte prima di parlarmi. Sospirai ed annuii, afferrando lo zaino appoggiato sotto la sedia e schivando quelle posizionate ai tavoli dell'aula informatica. Passai lasciando che la mano strisciasse su di essi, su quel legno liscio e chiaro, fino a staccarsi sul bordo metallizzato e ruvido.

A domani, Garret, e grazie per avermi fatto rimanere un po' di più” dissi, rivolgendo lo sguardo verso di lui. Egli però era già intento a pulire la moquette, e rispose con un lieve cenno del capo. Uscii dall'aula e percorsi il labirinto di corridoi, fino a raggiungere l'atrio di marmo e granito, disposti a creare decorazioni quasi di un altro mondo sul pavimento. I ghirigori iniziavano dai tre corridoi che convogliavano il flusso di persone delle ore di punta, ma ora tutto ciò che convogliavano era la mia immaginazione. Dal lato dell'uscita non ci sono, perciò spesso i nuovi alunni scherzando lo interpretano come un 'Non uscirai più da qui'. Ridacchiai ricordando la faccia di Darevonn quando lo disse per la prima volta.

 

 

Ascoltai il rumore della pioggia infrangersi e scorrere sulle lastre di vetro di cui era ricoperto il soffitto e, dopo interminabili secondi, riportai i miei pensieri sull'uscita.

Quando misi piede fuori, sospirai sollevata. Immaginavo che ci sarebbe stato molto più freddo. Mi strinsi nella felpa grigiastra, già nera per via dell'acqua, e mi incamminai lungo il viale d'ingresso. Fra un lampo e l'altro guardavo le forme che la loro luce proiettava per terra, mischiata alle ombre dei pini marittimi e le siepi fiorite ai lati della strada. Mi persi qualche secondo a fissare le entrate al giardino, un arco di metallo bianco a segnare il distacco fra le siepi, poi ripresi il mio passo e raggiunsi il cancello d'uscita, sempre di metallo bianco, fra due muri di mattoni con sopra un recinto di, indovina un po', metallo bianco, dalle forme irregolari eppure piacevoli. Per qualche secondo udii il rumore della ghiaia sotto i miei piedi, poi esso venne sostituito da quello della pioggia. Questo mi diceva che ora stavo camminando sull'asfalto. Percorsi il grande viale principale guardando le insegne al neon illuminate ai lati della strada e sui palazzi, notando che quella sera nessuno girava in auto. Solo un qualche povero disgraziato con un ombrello e dei barboni, sotto le loro misere capanne di cartone. Passando accanto ad una di esse, non resistetti: mi fermai sotto le mille punture d'aghi della pioggia, estrassi il portafoglio dalla tasca e posai dentro la sua capanna improvvisata cinque euro, poi, immaginando la sua faccia al risveglio, ripresi la strada per casa. Non era niente di che, un appartamento in un palazzo generico, con una piccola balconata che dava sul viale. Estrassi le chiavi dalla tasca della felpa, aprii la porta e mi fiondai nel calore familiare di quel posto. “Mamma, sono a casa...” dissi fra me e me, quando l'unico suono che uscì dalla mia bocca fu quello di uno starnuto. “Anna, sono tornata” dissi invece, appoggiando l'impermeabile all'appendiabiti. L'unica cosa che mi sentii rispondere fu, come al solito, un debole “Mh-Hm” dal salotto, ma mi bastava. Mi scrollai un po' dell'acqua di dosso e salii la scala a chiocciola che portava alle stanze di sopra, aprii la porta della mia e mi lanciai sul letto. Prima di affondare la testa nel cuscino, guardai l'orologio da muro sulla parete opposta al letto. Solo le 19:54, eppure mi sentivo già crollare. Mi tolsi solo le scarpe e la felpa, lanciandole da qualche parte nell'ignoto della stanza, prima che i miei occhi si serrassero e che io sprofondassi in un profondo sonno rigenerante. Prima di un altro giorno generico, in quella generica classe del generico istituto.

 

O almeno, così pensavo secondi prima di crollare addormentata in un sonno profondo.

   
 
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