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Autore: theaftermath    12/08/2015    1 recensioni
Sono la persona più debole sulla faccia della terra, ma sai cosa? Non mi interessa. Non ho mai avuto certezze nella mia vita, nemmeno lui lo era. Quando se ne andava, non sapevo mai quando sarebbe tornato. Il suo cellulare era la cosa più futile che portava con sé. Aveva ben altro da fare, come diceva sempre. Eppure non ho mai saputo cosa faceva di preciso.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Christopher Wolstenholme, Dominic Howard, Matthew Bellamy
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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I guess that no one ever really made me feel that much higher.

West Coast - Lana Del Rey

 

Non potevo credere che il mio periodo da tirocinante in uno studio psicologico al fianco di una professionista fosse finito, eppure era durato solo due settimane. Non sono sicuro che sia stata la migliore esperienza della mia vita, ma quasi.
Effettivamente, avevo tutto ciò che uno stagista potesse desiderare: il nuovo e lussuoso edificio in cui lo studio che mi avevano assegnato si trovava, era situato nei pressi della City di Londra.
Non era proprio la mia zona preferita della città - tutti quei grattacieli non mi facevano impazzire - ma lo studio della signora Johnson si trovava sull'attico della struttura e avevo la possibilità di studiare ogni minimo particolare del panorama della città attraverso le grandi finestre in vetro che circondavano la stanza.
Il lusso dell'ambiente non era l'unico motivo per cui tutti i miei colleghi universitari ambivano ad essere al mio posto. La psicologa Janice Johnson era molto conosciuta (quanto discussa) nel mio ambiente universitario, non solo per i numerosi libri di cui era autrice, ma anche per il suo atteggiamento distinto ed egocentrico e il suo metodo insolito.
Più volte era stata invitata nelle più grandi sedi universitarie del paese, ma non aveva mai accettato. Quella di dare la possibilità allo studente più meritevole del corso era probabilmente l'ultima cosa che ci si potesse aspettare da Janice Johnson, una donna sulla sessantina inoltrata con anni di esperienza alle spalle, riconoscibile dal suo stile raffinato e dai suoi capelli perfettamente lisci e bianchi lunghi fino alle spalle. Poteva sembrare alquanto contraddittorio, comunque, come una donna così cinica potesse essere la migliore psicologa del Regno Unito.
Standole accanto per due settimane - oltre a portarle un doppio espresso ogni mattina alle 8:30 - ho imparato che una caratteristica del genere, oltre ad essere possibile, dovrebbe essere essenziale per ogni psicologo che si rispetti.
Ciò che salva qualcuno da un imminente crollo mentale è il ritrovarsi faccia a faccia con la realtà, solo in questo modo si può cominciare a pensare a dei modi per affrontarla o semplicemente accettarla.
È questo ciò che Janice Johnson faceva: metteva i suoi pazienti di fronte alla realtà dei fatti, senza troppi giri di parole.
Non sempre era facile, perché una seduta con lei era come un'improvvisa doccia fredda e probabilmente il 90% dei suoi pazienti l'avranno odiata al loro primo incontro, per poi averla ringraziata infinitamente alla fine della terapia.
Dopo un'interminabile ora d'attesa nella piccola saletta antecedente allo studio, finalmente l'assistente della signora Johnson mi aveva fatto accomodare. Erano passati quattro giorni dall'ultimo incontro, ero tornato per ritirare il mio attestato.
La prima cosa che notai facendo il mio primo passo all'interno dell'immenso studio in vetro, fu la scarsa luminosità dell'ambiente dovuta ai nuvoloni grigi che quel pomeriggio stavano vegliando su Londra.
«E così, Bellamy, mi abbandoni a questi pazzi che ogni giorno non vedono l'ora di confidarsi con me.» Il sarcasmo di Janice aveva smesso di stupirmi, ma sogghignai comunque mentre mi avvicinavo alla grande scrivania - anche questa in vetro - su cui la donna era china, impegnata a compilare e firmare dei moduli.
«Sa benissimo che sarei rimasto volentieri ad aiutarla.» Le dissi sincero, facendola ridacchiare.
Non che facessi un gran che di concreto, ma era evidente che avesse bisogno di compagnia, anche solo di qualcuno con cui scambiare occhiate esasperate conseguenti ad affermazioni senza senso dei pazienti. Inoltre, la sua snob e anonima assistente non era per niente d'aiuto in questo, era come se non ci fosse e si limitava a svolgere l'essenziale che il suo lavoro richiedeva.
«Allora, che piani hai per il futuro?» Mi chiese, rimanendo concentrata nello sfogliare quella dozzina di fogli che si ritrovava davanti.
«Glie l'ho già detto, vorrei lavorare nel campo della psi-»
«Pensavo avessi cambiato idea, dopo la tua esperienza qui.» Mi interruppe, posizionando ordinatamente i documenti per poi spillarli. Non sapevo esattamente come cogliere quell'affermazione.
«Be', in realtà è tutto il contrario.»
«Cioè?» Questa volta alzò lo sguardo verso di me, avendo ultimato l'attestato che avrebbe dovuto consegnarmi.
«Osservandola, ho capito che la psicologia va al di là dello studio e dalla compassione verso il paziente.»
Alle mie parole, Janice poggiò i gomiti sulla scrivania e giunse la mani sotto il proprio mento inarcando le sopracciglia.
«Cosa vi insegnano in quel dannatissimo corso?» Mi chiese, quasi compassionevole.
«Nella pratica, ci insegnano a riconoscere le emozioni delle persone e...»
Fui interrotto dalla risata della donna, che sembrava quasi non riuscire a trattenersi, così scambiai un'occhiata incerta con la segretaria, che si trovava al lato della scrivania.
«Scusa ragazzo... Mi si rivolse ricomponendosi e aggiustandosi la giacca nera in gessato che indossava.
«Non rido affatto di te, ma di questi pseudo-esperti che credono di essere i padroni delle emozioni umane soltanto perché sono capaci di capire se stai dicendo una bugia o meno.» Fece un sorriso beffardo scuotendo la testa, per poi continuare aprendo le braccia con fare esasperato.
«Pretendono addirittura di poter insegnare a qualcun altro come si gioca a fare lo psicologo, ma sul serio? Non hanno la minima idea di come si faccia questo mestiere, che se ne vadano al diavolo!»
Scambiai un'altra occhiata con la segretaria, che sembrava irrigidirsi sempre di più.
«Poi sarei io "la psicologa più disturbata dei suoi pazienti stessi", ma per favore...» Disse più a se stessa che a me.
«È una cosa che io personalmente non ho mai pensato...» Le dissi con sincerità, facendole riportare lo sguardo su di me.
«Tutti i miei colleghi sarebbero voluti essere al mio posto, quindi non penso di essere l'un-»
«Perché non hai mai pensato che io sia una pazza?» Aveva questo vizio di interrompermi, a cui mi ero abituato.Mi stava guardando, come se fosse pronta a giudicare la mia risposta.
«Ho letto i suoi libri, conosco la sua storia. So che quello che ha imparato, lo ha imparato con l'esperienza diretta sulla propria pelle. So che ha sempre risolto i suoi problemi da sola, senza l'aiuto di nessuno, e che vorrebbe insegnare ciò che ha imparato a gli altri... Cosa che non le hanno mai permesso perché lei non è laureata in psicologia, ma in architettura, e non ha intenzione di laurearsi su qualcosa che già conosce. Viene invitata nelle più importanti università del Regno Unito, eppure non le danno il diritto di insegnare. In effetti, che senso avrebbe parlare per un'ora di come tutto quello che stanno imparando lì dentro è tutto sbagliato?»
Stava annuendo impercettibilmente ad ogni mia parola e, quando finii, mi guardò per dei lunghi secondi.
Ammiravo davvero Janice Johnson, eppure non pensavo di averglielo dimostrato prima d'ora. Non mi si era mai presentata un'occasione opportuna.
«Matthew, caro...» Sospirò pesantemente, per poi riprendere la parola. «Sei in gamba, considerando soprattutto che vieni da un ordinario corso di psicologia...»
«Grazie?» Non ero sicuro che si trattasse di un vero e proprio complimento, poi lei andò avanti non facendo caso a ciò che avevo detto.
«Ciò che mi auguro, è che tu un giorno possa affermare di aver vissuto così tanto da poterti permettere di aiutare gli altri, a vivere. Perché sai, se non si va fuori di testa almeno una volta nella vita, non si può pretendere di aiutare qualcuno che lo è.»


 

Le parole di Janice stavano riecheggiando nella mia mente dal momento in cui le aveva pronunciate.
Ero appena uscito dallo studio con il mio attestato in mano e mi stavo dirigendo verso il lungo corridoio che portava all'ascensore.
"Perché sai, se non si va fuori di testa almeno una volta nella vita, non si può pretendere di aiutare qualcuno che lo è."
Premetti il pulsante, osservando i numeri sulle grandi porte d'acciaio che man mano passavano dal 6 al 20.
Lei aveva ragione e, pur avendolo sempre pensato anche io, non avevo mai considerato il fatto che prima o poi dovesse toccare anche a me.
L'ascensore arrivò al ventesimo ed ultimo piano, dove io mi trovavo. Mi guardai attorno un'ultima volta, poi entrai in quella stanza specchiata fin troppo grande per essere un ascensore. Premetti il tasto "0" e aspettai, osservando i numeri sopra di me che decrescevano.
Aiutare ed ascoltare la gente in modo concreto era ciò che volevo fare. Sarei voluto andare oltre il modo fittizio di "fare lo psicologo" che mi stavano insegnando, era anche per questo che avevo deciso che avrei ottenuto quello stage con Janice Johnson a tutti i costi. Non dico che per essere un bravo psicologo bisogna essere necessariamente fuori dal comune, ma quanto meno essere all'altezza di affrontare determinate situazioni.
"Ciò che mi auguro, è che tu un giorno possa affermare di aver vissuto così tanto da poterti permettere di aiutare gli altri, a vivere."
Si potrebbero studiare tutte le pagine di sociologia applicata del mondo, ma tutto sta nell'esperienza. Il problema, era che io non avevo esperienza, esperienza che non dipende dal numero di pazienti a cui avevo strizzato il cervello. Una come Janice, mi avrebbe definito come uno che non ha mai vissuto, probabilmente.
Non avevo mai fatto tutte quelle pazzie che si fanno al liceo, o preso parte a qualche festa del college senza annoiarmi a morte. Non mi ero mai innamorato, avuto disgrazie in famiglia o infranto la legge, niente del genere.
L'ascensore si fermò al decimo piano.
Non mi ero mai preoccupato del fatto che la mia vita fosse assolutamente ordinaria, anche perché ciò non mi aveva mai disturbato. Non che in quel momento lo stesse facendo, piuttosto un po' mi faceva riflettere.
Il turbine di pensieri in cui mi ero immerso mi fece notare solo dopo che, a bordo dell'ascensore, era salito qualcun altro. Più che altro, ciò che me lo fece notare fu il fatto che mi sentissi terribilmente osservato.
Alla mia destra c'era un ragazzo. La prima cosa di cui mi accorsi fu la camicia leopardata che indossava e i suoi occhi così azzurri da riuscire a notarli anche con la coda dell'occhio. Erano di un colore diverso dai miei che, anche se azzurri, erano molto più chiari. I suoi erano erano così saturi di azzurro da sembrare quasi finti.
Teneva le spalle poggiate alla grande parete specchiata alla mia destra e, con la testa leggermente all'indietro, continuava a fissarmi da quando aveva messo piede in quell'ascensore. Cominciai a pensare che magari fossi io ad avere qualcosa che non andava, magari nel mio abbigliamento. Indossavo il mio solito "completo" da lavoro: una camicia bianca, una cravatta nera e dei pantaloni scuri.
Mi accorsi che non si trattava di una mia impressione quando voltai definitivamente la testa verso di lui, provocandogli un sorriso beffardo.
Aveva i capelli biondo cenere abbastanza lunghi da coprirgli la fronte e le orecchie e - oltre alla camicia leopardata - indossava una giacca di pelle nera, degli skinny dello stesso colore e una collana con una riproduzione in plastica di un dente di qualche felino, credo. Gli rivolsi un impercettibile cenno della testa per assecondarlo, poi tornai con la testa dritta di fronte a me.
Lui non sembrava intenzionato a togliermi gli occhi di dosso. Ciò cominciava a mettermi alquanto a disagio, insieme al fatto che facessi fatica a tenere il mio sguardo fisso sulle porte dell'ascensore pur di combattere l'istinto di voltarmi un'altra volta verso quello strano tipo dagli occhi magnetici.
Una forte scossa attraverso l'intero ambiente, facendo sussultare entrambi.
«Che diavolo succede?» Dissi più a me stesso che al ragazzo accanto a me, mentre la luce si spegneva gradualmente e l'ascensore sembrava essersi fermato del tutto. Una piccola luce d'emergenza blu illuminò la stanza, quando cominciai a premere a casaccio i pulsanti alla mia destra, quasi con fare esasperato.
«Mi sa che ti conviene rilassarti, siamo costretti a dover trovare un modo per passare il tempo in attesa che qualcuno ci tiri fuori.» Mi disse divertito, facendomi sentire per la prima volta la sua voce.
Con fare rilassato e tranquillo - come se non fossimo appena rimasti bloccati in un ascensore - si sedette per terra distendendo una gamba e tenendo le braccia sul ginocchio dell'altra. Lo fulminai con lo sguardo: non c'era niente di divertente, inoltre avevo appena scoperto di odiare la sensazione di essere intrappolato in una stanza e sentivo di stare per cominciare a sudare freddo.
«Almeno puoi sederti? Mi metti ansia.»
«La stessa ansia che mette uno sconosciuto che di punto in bianco ti fissa insistentemente dentro un ascensore?» Probabilmente in una situazione diversa non avrei mai detto una cosa del genere, ma il nervosismo era più forte di me. Mi stavo passando le mani tra i capelli ed ero intento ad allargare il nodo della mia cravatta, quando cominciò a ridere.
«Perché devo sempre farmi scambiare per un maniaco?» Domandò, come se fosse la cosa più assurda del mondo.
«Mai pensato di cambiare metodo di approccio?» Sbottai, nonostante non ce ne fosse motivo, continuando a muovermi avanti e indietro.
Lui alzò le spalle con una smorfia cominciando a giocare con il ciondolo della sua collana, come se fosse la cosa più interessante del mondo.
«Tu dici?» Mi chiese alzando la testa verso di me, sembrando addirittura serio.
Gli risposi annuendo nervosamente, poi poggiai la schiena sulla parete opposta a quella su cui era poggiato lui e presi un lungo sospiro con gli occhi chiusi.
Stava continuando a giocare con il suo ciondolo con fare distratto, producendo un fastidiosissimo tintinnio che mi stava facendo andare ancora più fuori di testa di quanto la situazione lo stesse già facendo.
«La smetti?» Cercai di sembrare il più calmo possibile.
«Di fare cosa?» Inarcò le sopracciglia, senza guardarmi e continuando a fare quello che stava facendo.
«Quel rumore mi innervosisce.»
«Quale rumore?» Sembrava che stesse soffocando una risata, eppure non mi parve che ci fosse qualcosa di divertente.
«Ammiro il tuo modo di affrontare situazioni del genere, quasi ti invidio.» Dissi sarcastico, arrotolando le maniche della mia camicia. Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, distendendosi quasi completamente con la testa sulla parete.
«Cerca di rilassarti, non stiamo andando a morire o... Che cazzo ne so!» Mi disse con una smorfia allargando le braccia. Aveva ragione, dovevo calmarmi.
Presi un altro sospiro, poi feci scivolare la mia schiena lungo la parete e mi misi lentamente a sedere davanti a lui con le gambe incrociate. Tenetti la testa all'indietro con gli occhi chiusi per dei lunghi secondi, cercando di regolarizzare il respiro e la confusione che si stava creando nella mia testa. Quasi stavo cominciando a dimenticarmi di non essere da solo in quell'ascensore.
Quando riaprii gli occhi, il ragazzo davanti a me stava guardando un punto vuoto del grande specchio su cui ero poggiato. La luce era fioca e insolitamente blu, forse questo - rispetto a prima - mi permetteva di non avere paura di osservarlo.
Il suo fisico era un po' come il mio, a parte per le spalle. Le sue erano larghe, anche se con quella giacca che indossava non potevo dirlo con certezza. La luce scarsa non mi permetteva di vedere bene il colore dei suoi occhi rispetto a poco prima. Erano grandi e definiti, evidenziati anche dal fatto che le sue sopracciglia fossero chiare e poco folte. Il suo labbro superiore era leggermente più sottile di quello inferiore e chiunque avrebbe definito il suo naso come sproporzionato, ma lui lo portava estremamente bene.
Mi piacevano i suoi lineamenti, specialmente il modo in cui si univano a quelli del suo collo, in cui riuscivo ad intravedere i muscoli e il pomo d'Adamo. Teneva tre bottoni della sua camicia leopardata sbottonati, forse era questo che faceva sembrare il suo collo più lungo del solito. In ogni caso, ciò mi permetteva di scorgere le sue clavicole, sulle quali la sua collana scivolava perfettamente. Anche questo mi piaceva.
Mi accorsi di starlo contemplando così insistentemente quando lui incrociò il mio sguardo con disinvoltura.
«Che facevi di bello prima di essere intrappolato qui dentro?» Mi chiese distrattamente, intento a cercare qualcosa nella tasca della sua giacca.
«Ero appena uscito dallo studio di Janice Johnson, la conosci?»
«Sei un caso così grave da essere finito da lei?» Accennò una risata, tenendo in mano un piccolo pezzo di carta che sembrava essere uno scontrino.
«Hai una penna?» Non mi diede il tempo di rispondergli.
«In realtà, ho appena finito di seguire uno stage.» Gli dissi, mentre aprivo il piccolo zaino che portavo con me per procurargli la penna che mi aveva chiesto.
«Wow, sei un aspirante strizza cervelli... » Disse con teatralità e con le sopracciglia inarcate, ricevendo una mia occhiate incerta mentre gli porgevo la mia penna stilografica nera. Non avevo ben capito cosa volesse fare, poi usò il suo ginocchio non disteso come supporto per scrivere qualcosa su quello scontrino, per poi rimetterselo in tasca.
«Bella penna.» Allungò il braccio per restituirmela, poi tornò con la testa poggiata svogliatamente al grande specchio dietro di lui. Il fatto che fossimo circondati da specchi era alquanto inquietante e ciò rendeva l'ambiente più grande di quanto probabilmente lo fosse.
«Tu che facevi qui? » Gli dissi, scansando la curiosità di sapere cosa avesse scritto in quello scontrino.
Fece una smorfia divertita e si strinse nelle spalle. «Avevo un appuntamento.»
«Visita medica?» Era un domanda stupida, perché sapevo benissimo che nell'edificio ci fossero soltanto studi medici di ogni tipo. Dalla psichiatria alla cardiologia, ottica, odontoiatria e così via. Lui, infatti, si limitò a sogghignare. Non mi andava di essere invadente chiedendogli che tipo di visita avesse fatto, pur essendo consapevole che lui al posto mio avrebbe fatto questo ed altro. Non so perché, ma era un continuo sopprimere delle mie curiosità per non rischiare di essere indiscreto.
Dopo diversi secondi di silenzio, lui si rimise svogliatamente in piedi. Aveva cominciato a tamburellare i polpastrelli sulla parete specchiata, camminando avanti e indietro lentamente. Quando decisi anche io di alzarmi da terra, si fermò per guardarmi con un'accennata aria interrogativa.
«Vederti in piedi mi mette ansia.» Gli dissi, imitando il suo concetto di qualche minuto fa. Rise alle mie parole tenendo la testa bassa per qualche istante, per poi alzare di nuovo lo sguardo verso di me. Era di nuovo nella stessa posizione in cui si trovava prima che l'ascensore si bloccasse; la spalle alla parete, la testa leggermente all'indietro e gli occhi fissi su di me.  Accennai una risata coprendo la mia bocca con il dorso della mano, cercando di ignorare la soggezione che il suo assiduo fissarmi mi stesse provocando.
Fece un lungo passo in avanti, allontanando la sua schiena dalla parete e avvicinandosi pericolosamente a me.
Pochi centimetri ci separavano e - giuro - di non aver mai sentito il mio cuore precipitarsi così velocemente nella mia gola. Giuro. Ciò che mi stava aiutando a mantenere la calma era il suo buon profumo, di cui cercavo di riempirmi i polmoni.
Essendo poco più alto di me e a quella distanza, doveva tenere lo sguardo leggermente chino per potermi guardare negli occhi. Sembrava troppo occupato a concentrarsi su di me per mantenere quel sorrisetto che aveva fino a poco fa. Le sue labbra erano leggermente schiuse e la sua espressione suscitava serietà, chiare intenzioni. Per qualche motivo, non avevo affatto paura.
Alzai leggermente la testa poggiandola alla parete e deglutii con gli occhi socchiusi, cercando di fargli capire che doveva farlo, adesso. Mi aveva concesso un'istante per poterlo guardare sorridere, proprio come stava facendo la prima volta che lo colsi a fissarmi, poi non mi accorsi nemmeno della rapidità con cui posò aggressivamente le sue labbra sulle mie.
Sentivo le sue spalle pressare contro le mie, così come a poco a poco tutto il suo corpo. Stringeva gli avambracci attorno alla mia testa, tenendoli poggiati alla parete su cui ero completamente schiacciato dal suo peso. Dall'inizio, non aveva esitato a cercare immediatamente la mia lingua. Gli permisi di farlo.
Tenevo le mie mani sui suoi fianchi, poi le spostai sulla sua schiena per tenerlo ancora più stretto a me - nonostante lo fossimo fin troppo.
Le nostre labbra non si staccarono nemmeno per un'istante, nemmeno quando lui mi fece spostare in avanti prendendomi per la cravatta con una mano, facendo finire entrambi al centro dell'ascensore barcollando.
La fioca luce blu, all'improvviso fu sostituita da una luce a neon bianca.
Rimanemmo entrambi immobili all'udire il suono di una campana d'emergenza. La sua mano stringeva ancora la mia cravatta e io cingevo la sua vita sotto la pesante giacca di pelle, solo le nostre labbra si erano staccate.
L'ambiente fu scosso da un forte strattone, poi i numeri sopra le due porte d'acciaio cominciarono a decrescere dal 4 in poi: l'ascensore era di nuovo in funzione.
Lo lasciai andare lentamente e lui fece lo stesso.
I miei occhi erano sbarrati e mi ci volle un po' per far arrivare i comandi dal mio cervello ai miei muscoli, giusto quelli necessari per farmi recuperare da terra lo zaino e l'attestato, voltarmi verso le porte dell'ascensore e notare che il ragazzo accanto a me si stava dondolando sui piedi in attesa di arrivare al piano terra. Sembrava tranquillissimo, come se non fosse successo niente.
Non ero in grado mentalmente di poter riflettere su ciò che mi era appena successo, ma constatare il solo semplice fatto che non conoscessi nemmeno il nome della persona che mi avevo appena baciato con tanta irruenza di punto in bianco era già abbastanza.
Arrivati al piano terra, scendemmo insieme dall'ascensore per poi guardarci attorno. L'atrio dell'edificio era incupito dal violento temporale che stava incombendo sulla città e i lampi illuminavano in alternanza la grande folla di dipendenti all'interno, tutti indaffarati a correre da una parte all'altra. Molto probabilmente si era verificato un blackout sull'intera struttura e questo caos era una delle conseguenze.
Non ebbi il tempo di pensare a come mi sarei dovuto comportare, adesso che eravamo liberi, che accanto a me non c'era più nessuno. Se n'era andato senza dire nulla.
Dovevo uscire da quell'edificio. Poco importava se fuori ci fosse il diluvio universale, avevo bisogno d'aria.
L'ingresso del palazzo era abbastanza rientrato nonostante fosse all'aperto, perciò decisi di aspettare lì fin che il temporale non fosse finito. Più tardi avrei preso la metropolitana per tornare nel mio appartamento.
Avevo un bisogno incontenibile di liberare il mio cervello da tutta quella confusione, eppure le cose erano talmente semplici. Dovevo dimenticare tutto, perché era giusto così. Non c'era niente da discutere. Assolutamente niente, per tanti motivi.
Dovevo avvisare Chris, il mio coinquilino, che avrei fatto tardi. Dovevano ormai essere le sette del pomeriggio inoltrate.
Infilai una mano nella mia tasca destra dei pantaloni, intento a prendere il cellulare, quando al tatto sentii che dentro c'era qualcosa di cartaceo che non ricordavo avere con me. Lasciai perdere il cellulare ed estrassi solamente quel pezzo di carta, scoprendo che si trattava di uno scontrino di quattro pacchi di sigarette Benson & Hedges Strong.
Quando guardai il retro, riconobbi il tratto della mia penna stilografica nera in quelle undici cifre seguite dalla firma "Dominic Howard".

 

   
 
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