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Autore: Chemical Lady    12/08/2015    2 recensioni
« Tra i piloni addormentati scorre l'Arno dolcemente. Nel veder gli innamorati, acconsente...
Benvenuto Cellini, la sua stizza appena cela, io vi tengo birichini la candela.. »
Sandro Botticelli / OC
Spin off di 'Amor Onni Cosa Vince'.
Prequel.
Genere: Generale, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Nuovo personaggio, Sandro Botticelli, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il ragazzo dell’Oro
 
 
« Tra i piloni addormentati scorre l'Arno dolcemente. Nel veder gli innamorati, acconsente...
Benvenuto Cellini, la sua stizza appena cela, io vi tengo birichini la candela.. »
 
 
Capitolo uno:
Scudo svizzero, azzurro a tre api poste.
 
 
Maggio 1475,
Ponte Vecchio, Firenze.
Un anno prima del matrimonio di Beatrice de’Medici
 
 


Nella Firenze dei de’Medici, v’era molto più che una famiglia a dominare.
Una, in particolare, non era di certo la più conosciuta, poiché per lo più non si curava delle diatribe tra cognomi, come invece facevano i Pitti o i Pazzi; i Cellini erano conosciuti come i mastri orafi più abili che si fossero mai visti in città e, forse, in tutta l’Italia.
Il capostipite era giunto a Firenze dalla lontana Bergamo, portando seco solamente una manciata di monete e un bellissimo rametto di alloro dorato. S’era così fatto conoscere in tutta la cittadinanza, aprendo da prima una piccola bottega sul lung’Arno,  sino ad ottenere poi un negozio assai grande e conosciuto su Ponte Vecchio, al centro delle vie commerciali della città. Ancora lì si potevano trovare, tre generazioni dopo, i suoi discendenti che coltivavano ancora quel talento.
In vita vi era, a quei tempi, il vecchio Aristide Cellini. Le sue mani, nodose e tremolanti a causa delle artriti, riuscivano ancora a lavorare il prezioso metallo con raffinatezza ed eleganza, come se l’età non avesse affatto scalfito le sue conoscenze.
Da ogni dove venivano conti, signori o sovrani per commissionare bellissimi gioielli di ogni tipo e a curarsene erano sempre più spesso i due figli dell’uomo, Giuseppe detto Beppe e Cristiano. A entrambi sarebbe andata la bottega e ai figli di entrambi a venire. Mentre il primo, il maggiore, aveva ricevuto dal signore solamente quattro figlie femmine, il secondo era stato più fortunato e poteva vantare tre figli di cui due maschi. Il maggiore, Giovanni Cellini, seppur appena vent’enne s’era già fatto un nome. Abile sculture e muratore, aveva ottenuto sempre ottime commissioni dai de’Medici e s’occupava personalmente di una parte del cantiere dell’opera del duomo.
L’altro, Donato, era una personalità totalmente a parte.
Era il più giovane della casata, tanto per cominciare. Non aveva un gran senso artistico e la sua inesperienza iniziale l’avevano portato a diventare un po’ il garzone della famiglia. Era sveglio e furbo, sapeva come evitare di menar le mani e come non farsi seguire, se necessario, quindi il nonno o lo zio lo mandavano spesso in giro per potare le consegne. Anche fuori città, se  necessario.
Per ciò che riguardava le commissioni in città, invece, esse avevano portato a Donato molte amicizie assai particolari. Nello specifico, quando riforniva le botteghe d’arte con lamine dorate per ricoprire le opere.  Una in particolare era una meta gradita per il giovane Cellini.
La bottega del Verrocchio era sicuramente la più ricca della città e la più grande. Contava molti artisti dotati che portavano al loro maestro parecchi fiorini, che lui poi spendeva a sua volta per procurarsi i marmi più raffinati e gli oli più pregiati, oltre che il laminato d’oro.
Capitava spesso, quindi, che Donato capitasse in quel cortile di pietra, al centro esatto di un luogo dal quale, ai suoi occhi, aveva inizio la vita; busti di marmo, opere lasciate ad asciugare e l’odore delle tempere ad impregnare l’aria erano all’ordine del giorno fra quelle mura e lui era sempre felice di salutare il maestro Verrocchio e lasciarsi guidare alla scoperta di qualche nuovo talento o dell’opera di qualcuno che andava sempre più ad affermarsi.
“Se vedi il maestro Leonardo, digli che Betta gli manda i suoi saluti.”
A Donato sfuggì una risatina divertita, mentre con cura appoggiava ogni singola lamina su dei pezzi di garza, separandole e preparandole per il viaggio da Ponte Vecchio alla bottega.
“Dovrei dirgli che una donna maritata gli manda i suoi saluti? Non vorrei che si presentasse qui. Giovanni era stato chiaro circa il fare gli svenevoli.”
Lisabetta storse il naso nell’udire il nome del marito, tornando a tirare la pastella. Da brava donna Emiliana, ogni giorno, preparava le tagliatelle fresche che, se abbondavano, poi andava a vendere al mercato della Novella. “Vero,l’ha detto.” Acconsentì la donna, prima di portar via un boccolo moro dal viso, volgendo quindi gli occhi al giovane cognato “Però vale anche per te. Solo perché io ho preso in sposo tuo fratello innanzi agli occhi del Signore, non significa che tu possa far gli occhi dolci a chi ti garba.”
Donato arrossì sulle gote e sulle orecchie, finendo di sistemare la preziosa merce e legando con un laccetto nero il tutto, prima di infilarlo nella saccoccia che pendeva sul fianco.
Ben intenzionato a non rispondere a quella provocazione, girò attorno alla tavola della piccola cucina e baciò la cognata sulla guancia.
“Farò ritorno in tempo per pranzo, spero.”
“Sempre che non troverai qualcosa che possa trattenerti.”
Donato scosse piano il capo, ormai rassegnato a tutte quelle puntualizzazioni ricolme di malizia. Salì le scale anguste fino al piano superiore, chiedendosi se fosse il caso o meno di salutare Celeste, prima di uscire. Alla fine lasciò stare, sapendo che la sorella aveva passato una brutta nottata e che forse aveva trovato la pace del sonno solo nella prima mattinata. Avevano a dividere le loro stanze solamente un sottile muro, quindi aveva sentito ogni singolo colpo di tosse, sino a che Betta non le aveva portato un infuso di erbe che erano in qualche modo riuscite a calmarla.
Non poteva però mentire a se stesso; ormai era solo questione di tempo.
Giorno dopo giorno, Celeste era sempre più debole e malmessa e Donato non ricordava più l’ultima volta che l’aveva vista alzarsi da quel letto.
Istintivamente, si appoggiò alla porta di legno, sospirando tristemente. La tisi l’aveva consumate come il fuoco consuma una candela e non potevano far nulla. Nessun cerusico o erborista aveva più nulla da consigliare, se non l’attesa e la preghiera.
Donato però non era uno stupido ed era convinto che, per quanto pure fossero, le preghiere fossero solo parole che il Signore avesse ben altro da fare che passare il suo tempo ad ascoltare tutti quei peccatori.
Aspettava, quindi, certo che non sarebbero mai stati pronti.
L’uscire su Ponte Vecchio, all’aperto sotto i raggi del sole di maggio aiutò almeno in parte a distrarre la mente. Strinse la bisaccia con la mano, prima di armarsi sorriso e iniziare a percorrere quelle vie che avevano visto i suoi primi passi.
Donato amava Firenze come le monache amano i Santi.
Amava la gente, amava la città e amava il chiacchiericcio mattutino. Persino le urla dei venditori al mercato lo facevano sorridere felice, rilassato.
Deviò sulla via che portava al duomo, diretto verso la zona più interna rispetto all’Arno e lì, da lontano, intravide il muro che divideva Firenze dal mondo della fantasia.
La bottega del Verrocchio era un luogo fatato, agli occhi di Donato, dove l’ispirazione regnava sovrana. Si sentiva sempre in soggezione nel varcar quelle porte, quasi come se avesse timore di portar via con sé un po’ di quella magia, sotto alla suole degli stivalacci, ogni qualvolta se ne andava.
Avrebbe tanto voluto condividere l’estro e il talento che si poteva respirare appena entrati in quel loco, ma sapeva di esser tutto meno che artistico.
Bussò all’imponente portone e ad aprire fu un giovane dal musino delicato, come quello di un topolino. Donato sorrise, facendo un cenno col capo prima di entrare non appena questi si scansò per farlo passare.
“Buongiorno, Donato. Sempre di buon ora.”
“Buongiorno a te, Lorenzo. Sai che mi piace esser preciso e non rubare tempo a voi che qui lavorate così duramente.”
Lorenzo di Credi era una delle persone preferite di Donato. Era così dolce da parere un gattino indifeso. Era però uno dei migliori della bottega, nonostante la giovane età, il talento fioriva dentro al suo petto come rami di edera silvana. Si erano trovati diverse volte, fuori dalla bottega, per bere insieme una birra al Can che Abbaia e parlare del maestro Leonardo. Lorenzo adorava parlare di lui, forse non avrebbe fatto altro se Donato gli avesse dato spago, ma quanto meno poteva capirlo.
Leonardo da Vinci era forse l’uomo più bello di Firenze. I de’Medici non potevano di certo competere con il suo modo di fare ribelle e il suo animo geniale, anche se sia Donato che Lorenzo convenivano che Giuliano era un uomo davvero affascinante.
Di sovente si ritrovavano a far di questi discorsi, un po’ come le donne che lavano i panni in Arno e parlano della beltà dei di loro mariti. O di quelli delle altre…
“Il maestro ha lasciato a me l’incarico di prendere la merce, se per te non è un problema.”
Donato sorrise, arrivando al primo dei tanti tavoli di pietra dell’enorme cortile interno della bottega. Lì prese fuori dalla saccoccia il rotolo di stoffe dove teneva la preziosa mercanzia “A me m’importa solo di venir pagato, mio caro amico. Mio zio non mi perdonerebbe mai, ne mi lascerebbe entrare in casa, se non portassi fino all’ultimo fiorino.”
“Mi pare un compromesso.” Ammise l’artista ridacchiando, mentre si appoggiava contro al tavolo per guardare l’operato dell’altro, che aveva preso a sciogliere gli spaghi e a srotolare la stoffa, iniziando a rivelare le prime scaglie d’oro. Ne mise una in mano al giovane Lorenzo, che la osservò attentamente, attento a non rovinarla o non far sovrapporre i lati opposti. “Se ricordo bene, questo spessore è quello che il maestro voleva.”
“L’ho fatto ricontrollare stamane prima di venire qui, posso assicurarti che è lui. Abbiamo fatto le prove con Andrea il mese scorso, ti ricordi? Su legno, su tela e su pietra.”
“Me lo ricordo assai bene, il busto del Perugino fatto dal Bigordi non  è mai parso così brillante. Peccato che poi io l’abbia fatto cadere e l’abbia distrutto.”
Una scena assolutamente tragicomica, così come poi la notte passata a cercar di recuperare più oro possibile dal busto distrutto.
“Mi pare fossero dodici fiorini d’argento, vero?” chiese l’artista, toccandosi la cintura come a cercare qualcosa che però non trovò. Quando Donato confermò la cifra, risistemando quella sottile lamella aurea e ritornando a legare il saccoccio, Lorenzo si avviò dentro alla bottega “Attendimi qui! Prendo i soldi che il maestro m’ha lasciato e te li porto.”
“Fai pur con calma, non sto male ogni tanto fuori dalla bottega di mio zio!”
Di Credi sparì alla vista e con la sua figura anche il rumore dei suoi passi. A quel punto, rimasto solo, Donato si guardò attorno. Lasciò la sacca sul tavolo insieme alla merce, iniziando a girovagare per il cortiletto, del tutto assorto nella sua mente. Salì anche sul piccolo palchetto di legno, dove solevano posare le modelle e si immaginò come sarebbero potuto essere divenire la musa per qualcuno.
Rise da solo di se stesso, abbassando gli occhi sui pantaloni di pelle conciata e ritrovandosi a pensare che sarebbero bastate due linee diritte per le sue scheletriche gambette. Non si vedeva bello e armonioso come invece poteva essere una donna, con le sue curve.
Scese con un saltello, tenendo gli occhi bassi sul pavimento sporco di tinte e della polvere dei marmi. Era quello il genere di ambiente che gli sarebbe piaciuto frequentare, se non fosse stato assolutamente inabile all’arte. Un luogo di pace, dove esternare il proprio animo in tumulto e vivere così, abbracciati dalla Dea dell’ispirazione ogni singolo giorno.
Così preso da quei desideri di libertà, che ben cozzavano con la rigida politica della bottega di oreficeria di famiglia, non si rese conto d’esser spiato.
Un giorno alto, con i capelli color paglierino, che stava pulendo un pennello nella manica della camicia celeste, apparve sulle scale, studiandolo per qualche istante. Non era mai stato bravo a mantenere il silenzio, però.
“Uno scudo svizzero, azzurro a tre api poste. Uno stemma pretenzioso.”
Donato alzò il capo di colpo, ritrovandosi innanzi a quella persona che, prima di allora, non gli aveva mai rivolto prima la parola.
Il Botticelli se ne stava lì in alto,  in piedi sulle scale esterne che davano sul cortile e l’osservava attentamente, come se stesse cercando qualcosa sul suo viso.
Quando prese a scendere i gradini, con eleganza e lentezza come se non vi fosse nulla di importante da sbrigare, Donato fece un paio di passi indietro, come in una reverenziale timore che fece sorridere compiaciuto Sandro. Smise di battersi il pennello appena umido sul palmo della mano, mentre lo raggiungeva.
“Mastro Cellini, arrivate nel momento più opportuno. Mi servite.”
Donato lo guardò stranito, non registrando il desiderio dell’artista. Semplicemente non trovava un senso in quella richiesta, posta con la naturalezza di un vecchio amico. Solo che loro non erano amici, non erano assolutamente nulla.
Le volte che Donato era passato semplicemente per una visita di cortesia, si era ritrovato a parlare con tutti, eccetto che con Sandro. A dirla tutta, il più delle volte il Botticelli si comportava come se la presenza altrui lo infastidisse.
Andava però detto che quel suo modo di fare aveva lasciato un segno dentro Donato e, come un bambino che si vede allontanato un gioco che desidera ardentemente, non aveva mai smesso di chiedersi cosa avrebbe fatto se mai un giorno fosse incappato in una situazione come quella che stava vivendo.
La risposta era semplice, infondo: doveva rimanere ancorato al terreno con i piedi, evitando di finirci con il sedere.
Aveva bramato la sua attenzione per così tanto che non lo ricordava nemmeno, non poteva perdere quell’occasione.
“Come posso aiutarvi, Botticelli?”
L’artista non spiegò nulla, inizialmente. Prese dalla cintola un filo di lino, tinto con diverse sfumature di blu e azzurro, tenendolo davanti al viso dell’altro. Poi, lentamente, lo avvicinò alla fronte di Cellini, aiutato dal fatto che egli era più basso di lui.
“Non dovete far nulla se non tenere gli occhi ben aperti.”
A quelle parole, Donato eseguì. Sandro era così vicino che il giovane poteva percepire il suo profumo di lavanda fresca, come se avesse dormito tutta la notte dentro di essa.
Quando infine si staccò, legò lo spago attorno ad un dito, con il colore scelto steso su di esso “Come pensavo.” Decretò con la solita supponenza.
Non si dicesse in giro che lui non sapeva ben discernere il dosaggio giusto delle tinte.
“Posso chiedere il motivo di tutto questo?” domandò Cellini ancora frastornato da quella vicinanza, che però si era drasticamente allargata nel momento in cui Botticelli aveva completato la sua indagine esplorativa.
Sandro lo guardò oltre la spalla, prima di riprendere a salire le scale “Il cielo oggi è coperto in parte dalle nuvole e a me serviva il suo esatto colore per una tela. Arrivederci, mastro Cellini.”
Donato rimase imbambolato a fissare il punto da cui Sandro era appena sparito, con una mano sulla ringhiera di pietra e un piede sul primo gradino, quasi desideroso di volerlo seguire.
Implicitamente, gli aveva fatto un gran complimento, comparando i suoi occhi alla limpidezza del cielo. Anzi, ancor di più; aveva sottolineato che essi avessero quasi la stessa natura.
Fortunatamente arrivò Lorenzo con le monete, ad evitargli una pessima figura.
In dieci minuti, il figlio degli orefici si era ritrovato fuori dalla bottega, mentre la sua mente però era ancora racchiusa tra quelle mura.
Ancora frastornato, Donato tornò verso casa, con un piccolo sorriso sulle labbra.
Aveva ben notato il leggero rossore sulle gote di Sandro nel momento in cui, voltandosi di poco per guardarlo, gli aveva rivelato perché gli aveva chiesto di tener gli occhi aperti su di lui.
Forse non se n’era accorto mai, ma non vi era nessun altro che attirasse l’attenzione di Cellini. 
 
  
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