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Autore: SalvamiDaiMostri    14/08/2015    3 recensioni
Johnlock dai toni estremamente drammatici a causa di una particolare condizione di Sherlock: mai avrebbe pensato che le stronzate del suo passato avrebbero inciso così profondamente sulla sua vita adulta e compromesso fino a tal punto la sua felicità. E a pagarne le conseguenze è John. E questo Sherlock sa che è terribilmente ingiusto, oltre che pericoloso.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’arrivo dell’infermiere fu tempestivo.
Così come John aveva detto, egli aveva l’incarico di privare Sherlock del tubo ormai superfluo. Non fu cosa piacevole né a guardarsi né tanto meno a subirsi, ma, una volta che gli fu tolto, il consultive detective provò molta meno fatica nel respirare e,, quantomeno, la sensazione di soffocamento scomparve. Messo da parte quanto gli era servito per disintubare il paziente, l’infermiere controllò i monitor dei vari macchinari ai quali era connesso e registrò i vari dati, controllò la cicatrice sul suo fianco destro e risistemò il bendaggio. Spiegò che non avrebbe tardato molto in cicatrizzarsi esternamente: la fessura aperta dal chirurgo per poter operare il polmone era di meno di cinque pollici.
 
«Piccolo, certo, anche nascosto. Ma è il primo segno visibile e indelebile che questa malattia lascia sulla mia pelle.»
 
Per quanto riguardava le cauterizzazioni interne avrebbero fatto meglio a domandare alla dottoressa Tietjens in base alla sua diagnosi.  Prima di uscire, disse ai due uomini che la dottoressa li avrebbe raggiunti quanto prima possibile.
Sherlock e John restarono dunque nuovamente soli.
“Va meglio?” domandò John accarezzandogli la spalla. Sherlock annuì; avrebbe voluto sorridergli, ora che non aveva più la bocca ostruita, ma davvero non ci riuscì. “Ho promesso alla signora Hudson che l’avrei chiamata appena avrei saputo qualcosa... Ho preferito aspettare che ti svegliassi… Oramai sarà terribilmente preoccupata, perciò ora la chiamo. Cosa vuoi che le dica?” Sherlock si tirò su per sedersi meglio. Fece per rispondergli:
“Dill-” ma si portò la mano alla gola per il fastidio e tirò due colpi di tosse, seguiti da una smorfia di dolore provocato da quelle contrazioni sulle ferite. John gli versò pronto un bicchiere d’acqua e glie lo porse, Sherlock ne bevve un brevissimo sorso.
“Con calma, piano... Il fastidio dovrebbe passare a poco a poco.” John lo guardava malinconico, conoscendo la brutta sensazione che stava provando. Sherlock riprese quindi dopo qualche minuto:
“Dille... Che… Sto bene. Che... Sono cosciente. E..” l’affanno e la fatica lo costringevano a fare fequenti pause più o meno brevi: “Dille che desidero… Parlarle...” John ebbe un sussulto “Andresti a prenderla... Magari domani? Non voglio che… Si preoccupi troppo... E’ meglio chiarire le cose... Almeno con lei.” John gli sorrise e annuì energicamente:
“Ottimo. Fai bene, Sherlock.” gli prese la mano con entrambe le sue e le strinse forte; Sherlock contraccambiò il suo sorriso. John si sentì molto fiero di lui. Sherlock poi domandò:
“Mia... Madre sa che... Sono qui?” John notò con piacere che la fatica nel parlare diminuiva e le pause si facevano più brevi man mano che Sherlock si sforzava i parlare.
“No, Mycroft mi ha proibito di avvertirla.” rispose John alzando le spalle in un sospiro.
“Mycroft è stato qui?” chiese sorpreso.
“Sì. E’ arrivato più o meno un quarto d’ora dopo di noi. E’ rimasto fin poco prima che tu riprendessi conoscenza.” Sherlock fece spallucce in segno di menefreghismo: “Certo che voi due avete davvero uno strano modo di volervi bene...” notò John.
“Io non voglio /bene/ a mio fratello.” rispose stizzito.
“Ma piantala... Comunque immagino che, se vorrai, potrai contattare tua madre poco prima di essere dimesso: se ho ben capito, Mycroft vuole solo evitare che si affligga inutilmente.”
“Mh...”
La dottoressa Tietjens irruppe nella stanza in quel momento, con una cartella in mano.
Come sempre, fu cordiale e professionale. Comunicò ufficialmente a Sherlock la contrazione della malattia e spiegò loro la nuova terapia che sarebbe stata finalizzata ad una quanto più pacifica convivenza con l’AIDS. Confermò poi che si era  trattato di una polmonite particolarmente fulminante dovuto alla sua nuova condizione, ma che, nonostante tutto, assicurò di poter debellare piuttosto facilmente.
“Entro la fine della settimana potrà tornare a casa e proseguire lì la terapia con l’aiuto del dottor Watson.” fece una breve pausa e sospirò “Desidero che sappia che sono molto dispiaciuta per lei signor Holmes, non avevo davvero previsto una discesa così rapida dei CD4... Il suo deve essere un caso davvero particolare. Purtroppo, ci sono troppe icognite da svelare sull’HIV e i misteri legati ad esso ci impediscono ancora di avere un quadro completo della situazione e nonostante la mia equipe abbia fatto tutto il possibile-”
“La prego, dottoressa.” la interruppe Sherlock: “Non c’è bisogno alcuno di scusarsi.” la dottoressa rimase attonita.
“Sappiamo che ha fatto tutto ciò che era in suo potere.” continuò John. “Non le attribuiamo nessuna colpa.”
Entrambi le sorridevano fiduciosi e cordiali. I due uomini le sorridevano nonostante avessero passato la prima delle notti peggiori della loro vita, nonostante fossero reduci da un’oprazione e dall’aver appena ricevuto la peggiore delle notizie. In effetti, una persona che si affida al sistema medico convenzionale non le avrebbe mai attribuito una colpa, ma chi nella stessa situazione le avrebbe mostrato un sorriso? La dottoressa sapeva di essere molto coinvolta in quel caso, ormai si era affezionata al suo paziente e al suo compagno, li seguiva ormai da anni e quella per lei non era stata solamente una sconfitta professionale, ma anche una brutta notizia. Nei loro volti la Tietjens trovò la forza di proseguire:
“Affronteremo questa cosa, signor Holmes: come lei, anch’io non mi arrendo facilmente di fronte a un caso complicato.” fece loro un occhiolino; Sherlock rise piano.
Era giunto però il momento di chiarire con cura ciò a cui Sherlock sarebbe andato incontro da allora in poi.
La dottoressa prese una sedia e prese posto vicino ai due uomini per parlare loro faccia a faccia. Parlò quindi loro dei nuovi sintomi che avrebbero potuto presentarsi: la parola dolore fu ripetuta molte volte. Decisamente troppe. Sherlock era ora minacciato da tumori di ogni genere, infezioni, anoressia... Le febbri, le nausee, la diarrea, la dispnea e l’ipotensione sarebbero state sue abituali compagne di viaggio e si sarebbero andate intesificando con l’avanzare delle fasi della malattia. In molti casi l’AIDS causava anche demenza e disfunzioni motorie. Mentre il medico avanzava nel suo discorso, i due si tenevano stretti per mano facendosi forza l’un l’altro nell’udire quel terribile elenco di sofferenze.
La Tietjens prese poi a spiegare loro la terapia che avrebbe cominciato a somministrare a Sherlock: si trattava di un cocktail di una serie di farmaci finalizzato a rallentare il degrado del sistema immunitario, a limitare quanto più possibile i sintomi e prevenire l’insorgere delle malattie più frequenti o più pericolose. Ormai, dopo il 2010, nella maggiorparte dei casi, questo genere di terapia consentiva ai malati di AIDS di vivere una vita piuttosto normale e lunga praticamente quanto quella di una persona sana: invitò pertanto la coppia a non arrendersi e a combattere la malattia ogni giorno, l’uno per l’altro.
Prima di andarsene, somministrò i medicinali che Sherlock avrebbe dovuto assumere per qualche tempo per debellare da polmonite. Si congedò augurando loro una buona notte e assicurando loro che si sarebbero visti l’indomani di prima mattina; quindi se ne andò.
John colse dunque l’occasione per telefonare alla signora Hudson per rassicurarla e riferirle ciò che Sherlock le aveva chiesto.
 
La notte, tutto sommato, fu clemente con Sherlock. Sopraffatto da antidolorifici e antibiotici, dormì tutta la notte, ma si trattò di un sonno indotto e leggero, di quelli che, infondo, non riposano. Si lamentò e si mosse nel lettino per tutta la notte e a pagarne le conseguenze fu John: egli rimase a vegliarlo come la notte prima, seduto su quella vecchia sedia, addormentandosi per qualche minuto solo quando, stravolto, veniva sopraffatto dalla stanchezza. Ma poi Sherlock si contorceva o si lamentava e allora John si ridestava e gli prendeva la mano o lo accarezzava, lui si calmava e avanti così in un ciclo continuo.
Per tutta quella notte, John non fece altro che pensare che quella sarebbe stata la prima di molte, moltissime notti e che quella, con ogni probabilità, sarebbe stata la più facile che avrebbero mai avuto: era stravolto e terribilmente affranto, stanco e frustrato... Come avrebbe potuto fare questo per il resto della sua vita, ogni volta che ne avesse avuto bisogno? John davvero non riusciva a rispondersi.

 

“Oh, mio caro...” la signora Hudson si avvicinò con voce tremante a Sherlock, messo a sedere sul lettino d’ospedale. Sherlock tese le mani verso la signora, lei le prese e le strinse nelle sue con in viso un’spressione afflitta e preoccupata: “Cosa ti è successo?” domandò “Perchè non vuoi che John me lo dica?” Sherlock le sorrise, poi si diresse a John:
“Avvicinale la sedia, sii gentile.” e così fece, in modo tale che la signora potesse sedersi accanto a Sherlock. Lei non accennava a tranquillizzarsi. Sherlock sospirò: “Prima che io le risponda, voglio che lei sappia che probabilmente lei ha una concezione della mia condizione decisamente molto discostata dalla realtà e che io sono in queste condizioni da molto prima che ci incontrassimo... Ciò che mi sta accadendo in questo momento è solo un progressivo ed inesorabile, anche se nel mio caso particolarmente precipitoso, aggravarsi della mia malattia...”
“Oh, Sherlock... Sei malato? Oh caro...” la donna si portò una mano davanti alla bocca.
“Si, signora Hudson.” Sherlock prese un bel respiro: “Mi è stato comunicato ieri che ho contratto l’AIDS.” la signora Hudson avvertì il suo cuore fermarsi per un istante. Ad occhi sgranati, scosse la testa come per negare a se stessa ciò che aveva appena sentito.
“No...” fu l’unica parola che riuscì a pronunciare con la voce rotta dal pianto che le sgorgava dalla gola “No...” ripetè portandosi ambe due le mani alla bocca. Sherlock prese quelle mani e le strinse forte e, guardandola negli occhi, annuì dicendo:
“Si, Martha, è così.”
John, che assisteva alla scena, per un istante si domandò se avesse mai saputo il nome di battesimo della propria padrona di casa. Se lo sapeva, di certo non lo ricordava affatto.
“No...” le lacrime presero a sgorgare dagli occhi “Non come il mio Thomas...” John fu colpito da quel nome che non aveva mai sentito nominare alla donna e si domandò chi fosse e cosa centrasse.
“No, signora Hudson, è proprio questo che cercavo di dirle prima: non come Thomas. Ora è diverso.” John era confuso, ma non disse nulla. In ogni caso la signora Hudson non riusciva a smettere di piangere. Sherlock fece per abbracciarla,  ma il fianco gli tirò una fitta dolorosissima e si arrestò per un momento in una smorfia di sofferenza. Poi strinse i denti e si tirò comunque verso di lei per abbracciarla: “Si faccia forza, si faccia forza... Le prometto che non si libererà di me così facilmente...” 
In buona risposta la signora gli tirò uno scappellotto:
“Non dire queste cose!” disse arrabbiata. Sherlock sorrise.
John si fece quindi trascinare dalla curiosità e, porgendo un fazzoletto piegato alla donna, le domandò:
“Chi è Thomas, mrs Hudson? Se posso chiedere...”
La signora prese il fazzoletto e si asciugò gli occhi con fatica, poi vi si soffiò delicatamente il naso.
"Oh, e'... Una vecchia e triste storia, John... Non e' il caso di raccontarla adesso..."
Per un istante si fermò a contemplare Sherlock, il suo dolce Sherlock. Voleva talmente tanto bene a quel ragazzo così particolare, così diverso, a volte scontroso, troppo disordinato, lunatico, ma così speciale. La addolorava profondamente saperlo in quelle condizioni. Il suo dolce Sherlock... Così simile a quel mascalzone di Tom. Ora anche troppo.
“Se lo dice per me, non si preoccupi signora Hudson.” le disse Sherlock prenderndole la mano per un attimo “Soddisfi la sete di curiosità di John: è rinchiuso in quest’ospedale a prendersi cura di me da sin troppe ore.”
“E’... Tanto che non parlo di lui.” sospirò: “Tom era un mio caro, carissimo amico, John...” disse la donna asciugandosi le lacrime, interrotta da qualche singhiozzo “Ci conoscevamo dagli anni della Guerra: eravamo stati evacuati nella stessa casa di campagna, da nonna Meg: così ci siamo conosciuti. Avevamo la stessa età. Siamo cresciuti insieme... Abbiamo affrontato tutto insieme, dalla Guerra in poi. Quando eravamo ragazzi, mi presentò al suo gruppo di amici... Erano così simpatici! Oh, all’epoca non era per nulla facile per quelli come loro... Ogni giorno era una battaglia e noi eravamo uniti per quella buona causa..” nel parlare la bocca gli si allargò in uno splendido sorriso nostalgico “E io ero così felice di unirmi a loro nella loro lotta! Uh, a mio padre non piaceva per niente che io frequentassi quei ragazzi... Sapeste quanto mi urlava addosso ogni volta che scopriva che ero stata a una parata o anche solo al pub con loro. Ma io ero talmente legata a Tom... Eravamo convinti che n’è mio padre nè nient’altro avrebbe mai potuto separarci. Ma evidentemente mi sbagliavo.” la donna guardò in basso e si perse nei propri pensieri per qualche secondo. Poi riprese a voce bassa: “Eravamo così felici il giorno che dichiararono legare essere ciò che erano... Io e Tom avevamo appena trent’anni.” sospirò. Sherlock le prese la mano. Lei lo guardò e gli sorrise: “Si ammalò nell’83. Fu uno dei primissimi... Cadevano come mosche, eppure sembrava non importare a nessuno.  Dovettero cominciare ad ammalarsi gli eterosessuali e le donne prima che qualcuno ai piani alti si occupasse di studiare la malattia, di dire loro cosa fare! Li lasciavano morire come animali... Morti nascoste, si diceva. A volte nemmeno li accettavano negli ospedali! I medici si rifiutavano di avvicinarsi a loro. Persino i cimiteri si rifiutavano di seppellirli... Punizione di Dio, dicevano. Ebbene, Dio se la prenderà con loro quando verrà il loro momento!” parlava con la rabbia tra i denti e alzava i pugni stretti. Poi improvvisamente tornò immobile: “Tom morì in meno di un mese. Neanche un mese... Così poco... E fu un’agonia atroce. C’ero solo io con lui. Avevamo trovato un ospedale che li accettava, ma comunque non potevano fare nulla per loro. Morì senza sapere il perchè. Morì piangendo dal male... E dopo di lui, i suoi amici. Uno dopo l’altro. Chi durò di più, chi di meno. Siamo rimaste in due, sapete? Io e mrs Turner.” rimase in silenzio. “L’AIDS mi ha portato via i più cari amici della mia giovinezza... Io non mi aspettavo che potesse ancora strapparmi via un figlio-” pianse ancora. John allora comprese e si sentì un idiota ad aver insistito tanto. Sherlock si avvicinò a lei, le accarezzò le spalle e le parlò piano, dolcemente:
“Come le ho detto, io sono molto più fortunato di Thomas. Io non mi sono ammalato fino adesso e so di essere infetto dal quasi dieci anni... E, anche se sono malato, posso contare su terapie specifiche e su medici più che preparati... Inoltre, Tom non aveva modo di prevedere o prevenire la sua malattia. Mentre io sapevo perfettamente ciò a cui andavo incontro: sono stato un incosciente ed ero troppo frustrato ed incazzato con il mondo per preoccuparmi di cosa ne sarebbe stato di me. Non merito di essere paragonato al suo amico. Devo a lui e a quelli come lui la libertà di cui godiamo io e mio marito...” John avvertì una fitta al cuore. “Anche se ora mi vede qui, in vestaglia, attaccato a tutti questi monitor, io starò bene: la dottoressa dice che torno a casa tra una settimana... E’ solo polmonite. Vedrà che starò bene.” la signora Hudson annuì:
“Ok.. Ok..” poi rivolse il suo sguardo verso John: “Tu stai bene, mio caro?” John le sorrise:
“Sto bene Mrs Hudson, non si preoccupi.”
“Meno male, meno male...” tirò su col naso.
La padrona di casa restò con loro ancora una mezz’oretta: John le andò a prendere un té caldo alla macchinetta e i tre chiacchierarono insieme finchè lei non si calmò. Poi l’ora delle visite si concluse e John accompagnò la Hudson fino al taxy.
Giunta in casa, andò dritta in camera e da un cassetto estrasse una vecchia scatola di latta celeste rettangolare; la aprì. Dentro vi erano i suoi ricordi di quando frequentava Tom e i suoi amici: le foto del gaypride, qualcuna di loro due insieme al mare, una con lo sfondo del big bang dove si abbracciavano. Ce n’era una che doveva essere stata scattata in una delle sue ultime settimane: sul suo viso si potevano contare almeno nove macchie nere. Era terribilmente magro e pallido... Gli occhi ingialliti coronavano due profonde borse violacee ed erano contornati di occhiaie incopribili. Gli avevano rasato la testa e lui nella foto portava un cappellino di lana grigio e verde... Era inverno, ricordò. Era così giovane, eppure sembrava un vecchio. Quasi come lo sarebbe stato adesso, se non si fosse ammalato. Se non fosse morto. Se non l’avesse abbandonata. Gli si leggeva il dolore negli occhi, ma lui sorrideva. Sorrideva come quando erano bambini e nonna Meg dava loro pane e cioccolata. Dannato mascalzone, quanto gli voleva bene... Nel vedere quella vecchia foto ingiallita, il suo cuore si spezzò ancora una volta e non poté resistere alla malinconia di quei tremendi ricordi.
Quella notte si addormentò sul suo letto ancora vestita, con il cuscino umido di lacrime e la foto di Tom stretta sul cuore.
 
 
“Dormi qui anche questa notte?” 
“Certo, Sherlock.” rispose John sfogliando una revista.
“Su quella sedia?”
“Non è una clinica privata, non posso pretendere chissà cosa. Non mi daranno un letto.”
“Non finchè non sarò terminale” John lo sgridò:
“Perchè dici certe cose?”
“Torna a casa John, dormi in un letto vero. Sto bene... Mentre tu sei chiaramente a pezzi.”
“Non riuscirai a convincermi.”
“Allora coricati con me...” effettivamente il pensiero era già balenato nella mente di John diverse volte in tutte quelle ore.
“Dici che ci stiamo?” chiese chiudendo la revista e appoggiandola sul comodino.
“Sono dimagrito parecchio: non romperemo il lettino. Non sarà il massimo della comodità, ma di certo sarà molto meglio di quella vecchia sedia.” Sherlock non aveva tutti i torti, ma John era piuttosto convinto che una cosa del genere non si potesse fare. Certo era dannatamente stanco e la schiena non smetteva di dolergli da quando erano arrivati l’altra notte. Perciò si convinse: si sfilò le scarpe e la camicia. Sherlock intanto si fece quanto più a drestra possibile, in modo tale che John si coricasse dal lato dove non aveva nè flebo nè cicatrici in via di guarigione. John spense la luce e si coricò accanto a suo marito.
“E’ per questo che non volevi dirglielo?”
“Mh?”
“Per la storia di Thomas... Tu sapevi che lei aveva già tanto sofferto per la stessa cosa...” Sherlock annuì.
“Quando me l’ha raccontato avrei addirittura potuto traferirimi, sapendo ciò in cui andavo incontro. Ma l’appartamento è tutto sommato vivibile e, infondo, un po’ a lei mi sono comuque dovuto affezionare.” John gli dirò una leggera spallata e Sherlock rivelò il suo sarcasmo in un’altrettanto leggera risata.
“Hai fatto bene. Che triste storia...” Passò qualche minuto, poi scoppiò a ridere da solo.
“Che c’è?” domandò Sherlock stranito.
“Niente...” rise ancora e Sherlock lo guardò con aria interrogativa: “Niente, niente... Stavo pensando alla Hudson ai gaypride. Dico, te la immagini??” Sherlock sorrise e poi, focalizzando l’immagine della sua padrona di casa vestita di arcobleni e pallettes gridare in un megafono circondata da transgender e dragqueen, prese a ridere anche lui, ma piano, perchè le cicatrici gli dolevano ancora e intonò in un filo di voce:
“Every woman is a lesbian in her heart... Every woman is a lesbian..(*)” allora John non poté più trattenersi e rise di gusto dopo tutte quelle ore di tensione e serietà.
Ci volle diverso tempo prima che si dessero una calmata e si accoccolassero uno all’altro.
John lo baciò sui capelli e gli disse:
“Buonanotte.”
Sopraffatto dalla stanchezza e dai medicinali, Sherlock si addormentò in pochi istanti.
John, invece, nonostante le sue membra fossero esauste e la sua mente supplicasse qualche ora di riposo, rimase qualche momento in ascolto. Ascoltò con attenzione i suoni che lo circondavano nel buio: il bip dei vari macchinari che monitoravano Sherlock che si incatenavano regolarmente, uno dietro l’altro, ognuno seguendo il suo ritmo. Il ticchettio di un orologio appoggiato sul comodino acanto a lui, il non abbastanza lontano russare di un paziente nella stanza adiacente alla loro, il passo di due infermiere stanche nel corridoio, ed infine i loro respiri. Quello di Sherlock lento e profondo, lo conosceva così bene, lo amava così tanto... Era diventata la sua ninnananna. Anche in tutto quel groviglio di suoni a lui estranei, si distingueva quel respiro familiare così amato. Per un istante pensò di essere di nuovo a casa.
Certo, non erano a casa. Che pensiero sciocco era stato il suo.
La sua mente si soffermò nuovamente sul fatto che quelle erano soltanto le prime di molte notti che avrebbero dovuto trascorrere in ospedale e, con ogni probabilità, queste sarebbero state le migliori. Ma ora, realizzava, era molto meno angosciato della notte prima: tutto sommato, quella era stata una giornata buona; se voleva continuare a vivere insieme ad una persona malata doveva imparare in fretta a distinguere una giornata buona da una cattiva e a farne tesoro. Ora si vergognava di essere stato così testo, così angosciato in quelle ore: a parte il fatto che Sherlock sarebbe stato bene, suo marito non aveva bisogno di un medico basso e brontolone, frustrato e furioso con il mondo, nonchè terribilmente abbattuto. No, lui aveva bisogno di sostegno e quotidianità. Perciò non era stato d’aiuto. Un peso per se stesso e per l’uomo che amava.
Se volevano affrontare quella che sarebbe stata la loro vita insieme e ciò che questa avrebbe messo loro d’ostacolo, allora doveva tirare fuori le palle e farsi forza. Perché era l’unico modo per sopravvivere.
Certo, non era una garanzia. Ma quanti giorni e quante notti come quelli prima gli i sarebbero volute prima di fuggire a gambe levate, esasperato? Non osava rispondersi. Vigliacco.
Non, non se lo sarebbe permesso mai.
Si addormentò molto in fretta, a braccia conserte, accanto a lui, promettendo a se stesso che l’indomani sarebbe stato un giorno migliore e che sarebbe stato forte, per Sherlock.

 


[Nota (*): Slogan/canto del gaypride del 1983, almeno secondo il film Pride]

Ciao a tutti e grazie infinite per aver letto fino a qui! Non sapete il regalo che mi fate ^^ Voglio di nuovo precisare che non garantisco l’attendibilità medica degli eventi che vi presento: io mi sto documentando, e molto! Ma non sono un medico e non voglio presumere di esserlo, perciò se ho scritto qualche cavolata vi prego di segnalarmelo ^^” Come potete vedere, sto cercando di accelerare i tempi di aggiornamento in quanto dal prossimo mese in avanti non so quanto tempo avrò per scrivere… Perciò voglio sbrigarmi! Senza compromettere la storia, s’intende –“ E’ sempre un piacere leggere le vostre recensioni e discutere con voi di quello che scrivo, perciò vi invito come sempre a lasciarmi la vostra opinione qua sotto: positiva o negativa che sia, per me è sempre preziosa ;) Con affetto, un saluto. _SalvamiDaiMostri
   
 
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