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Autore: Mannu    30/01/2009    5 recensioni
Distacco, equilibrio, neutralità, giustizia. Quante cose vengono chieste a un poliziotto durante l'adempimento del suo dovere. Spesso ci si dimentica che è una persona come noi. E se lo dimentica anche lui stesso.
Ringrazio Cassiana per avermi dato lo stimolo per scrivere questa storiella.Ringrazio moltissimo Golem1954 per l'editing.Questo racconto opportunamente riveduto e corretto è stato selezionato per apparire come racconto del mese all'interno del sito www.colonnedercole.org
Genere: Azione, Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era mia sorella

A Cassiana, per l'incoraggiamento


Questa volta quella scema di mia sorella le prende. Se la becco a mettere le mani nelle mie cose... ah, eccolo! Sapevo di averlo. Non sarà un po' di rossetto lucido a migliorare questo orrore... sono mesi che devo sistemarmi i capelli. Jonas mi starà sicuramente aspettando. Sarà stufo di aspettarmi, anzi. Ma gli servirà per calarsi nella parte. Devo fare la fidanzatina, no? O.K., basta restaurare... passiamo all'artiglieria. La maledetta pistola è troppo grande, mi toccherà mettere la giacca di similpelle che mi fa stare troppo al caldo. Ma è comoda ed è grande abbastanza da nascondere la fondina. Va bene, sembro quasi una persona normale: è il momento di uscire di casa.
Chiudo la porta alle mie spalle e la consueta sensazione di aver dimenticato qualcosa mi assale, come sempre. Ormai ho imparato a non badarci più, sono incorreggibile. Toccando il ciondolo a forma di cuore che porto appeso al collo proietto le cifre dell'orologio sulla porta: un giocattolo da ragazzine ma che ci devo fare se ci sono affezionata? Cazzo com'è tardi.
L'ascensore si fa attendere ma alla fine riesco a raggiungere l'uscita del complesso abitativo dove ho il monolocale che divido con quella sbullonata di mia sorella. Chissà dov'è adesso: sicuramente a friggersi la testa con quella merda di musica che ascolta con gli auricolari da cui non è capace di separarsi. Oppure a farsi un elettroshock a base di cyberspazio. Mi ha pure chiesto di regalarle per il compleanno l'impianto da avvitarsi dentro il cranio, la scema. Ma possibile che i giovani devono avere tutte queste idee sballate?
Saltare sui nastri pedonali non è mai stato il mio sport preferito: finisco addosso a un tipo con una valigetta rigida e il mio stinco destro ne fa le spese. Mi guarda male, ha ragione lui. Gli sono letteralmente saltata addosso e gli sembro di sicuro una pazza. Ho raccolto i capelli per togliermeli dalla faccia ma per fare tutto in fretta non sono stata a fare le cose troppo precise. Sento la coda dietro la nuca che si è già allentata. Stessa cosa per il trucco: è difficile per una trentaduenne passare per una ragazzina truccandosi da sola e credo di aver ottenuto un risultato pietoso. Quello di sembrare una trentaduenne truccata come una ragazzina, appunto.
Ecco Jonas. Non sembra particolarmente incazzato. Rispondo al suo cenno di saluto e mi concentro per scendere dal nastro pedonale più veloce senza fare del male a me stessa e agli altri. Credo che sul mio povero stinco verrà un livido grande come un pugno. Meno male che metto sempre i pantaloni.
- Era ora!
- Scusa, Jonas.
- Che hai fatto alla faccia?
Lo guardo male abbastanza da costringerlo a ripararsi dietro un sorriso stupido.
- Heeey, stavo scherzando! - ecco, bravo: meglio per te.
- Muoviti...
Mi porta sul Tubo affollato come sempre, tre faticose fermate prima di giungere finalmente a destinazione. Lui è alto, non ha certo i problemi di respirazione che ho io lì dentro. Sto sudando, sto scoppiando dal caldo. Una volta fuori dalla sottostazione la vista del Parco di Amaterasu mi fa quasi stare meglio. Vorrei togliermi la giacca e restare in maniche corte, ma non posso. Anche Jonas ha la giacca: cazzo, non ci ho pensato. Sembriamo fatti con lo stampino. Puzziamo di finzione da cento metri di distanza. Ma ormai è fatta. Entriamo nel parco.
- Occhi aperti – bisbiglia lui. Io gli infilo una mano nella tasca posteriore dei pantaloni. Dobbiamo o no fare i fidanzatini? Sento la sua arma corta infilata nella fondina dietro la schiena esattamente come la porto io. Che chiappe sode ha: le sento tendersi a ogni passo sotto le mie dita prigioniere nella tasca stretta. Mi cinge con un braccio e mi sfiora un seno. Gli assesto un colpo sulla pancia col palmo della mano. Sono un po' scomoda, la mano migliore è nella sua tasca e non ho voglia di sfilarla. Incontro addominali molli, l'ho colto di sorpresa.
- Hey! - protesta lui.
- Non te ne approfittare, imbecille!
Sposta la mano sulla spalla, un posto che mi pare più adeguato. È calda e pesante e la sento stringere un po'. Mi piace. Camminiamo così nella nostra parte del parco. Mi piace molto qui: viviamo in un mondo chiuso fatto di metallo e di plastica, rumoroso, sporco, affollato, puzzolente. Sembra che queste creature straordinarie, gli alberi del parco, possano tenere tutto quanto fuori. L'aria è più fresca, qui. Si sentono odori ignoti ma non spiacevoli. Perfino i rumori giungono attenuati, quasi trasformati in qualcosa d'altro. Un bambino che fa i capricci con la mamma, i passi faticosi di un pancione che corre per dimagrire, ragazzine sciocche che probabilmente hanno bigiato la scuola per stare sdraiate a ridere e spettegolare tra loro in un piccolo praticello. Quasi non sembra che tre incroci più in là ci sia un ingorgo stradale con decine di persone immobilizzate dentro un caos di metallo surriscaldato.
Chiacchieriamo del più e del meno, io e Jonas. Siamo tutti e due nervosi e cerchiamo disperatamente di nasconderlo. Ma è più forte di noi e scivoliamo piano insieme nelle stesse parole, nello stesso pensiero.
- Spero solo che si faccia vedere.
Ha parlato il maschio guerriero. Forte e coraggioso, risoluto e assetato di sangue.
- Stai calmo. Vedrai che prima o poi lo becchiamo – non ne sono proprio sicura visto che il bastardo ci sfugge da ormai un mese e ci ha abbondantemente preso per il culo lasciandosi dietro anche qualche cadavere. Cosa darei per potermi togliere la giacca.
- Ho sete – cambio discorso, magari così si rilassa. Nemmeno io sono tanto tranquilla. In fondo desidero anche io mettere le mani su quel figlio di puttana e fargliele pagare tutte. Io, la femmina guerriera, ho parlato.
Andiamo al gazebo del parco che in quel settore è gestito dai giapponesi ortodossi. Hanno ottenuto una ristrettissima deroga e possono rivolgersi ai clienti usando quel poco che è sopravvissuto del loro dialetto originale. Riconosco un cortese saluto, ma non so rispondere. Ce ne andiamo con una benedizione e due bibite con la cannuccia. Finalmente, non ne potevo più; ma la soddisfazione dura solo un momento in più della bibita. Poi una vibrazione alla base della mascella: il mio impianto sta ricevendo una chiamata.
- O'Malley – ho già un peso caldo sullo stomaco.
- Centrale a tutte le squadre: codice tre, codice tre. Convergere verso...
Non sto nemmeno ad ascoltare le coordinate: sto già correndo, incito Jonas a starmi dietro. C'è qualcosa di buono nell'avere un fisico un po' mascolino: se c'è da correre, si corre. Jonas riesce a starmi al fianco, è più allenato di me.
Corro a perdifiato, devo raggiungere in fretta la zona indicata. Dovrebbero esserci gli altri lì, ma meglio intervenire prima possibile. Vedo la fontanella, il sentiero stretto che si infila sotto una volta fitta di vegetali in fiore, uno splendido tunnel verde e rosa. Avranno un nome quei fiori? Supero la piccola fontana e mi infilo nell'ombra senza nemmeno pensare che è un buon posto per un agguato. Jonas è dietro di me e mi chiama, ma io non ho il fiato per rispondergli. A una cinquantina di metri di distanza vedo del movimento. Sono in due in mezzo a un grande prato, corrono. Cambio direzione, abbandono il sentiero di ghiaia e mi lancio sull'erba. Comincio a non poterne più di correre. Il tizio davanti non lo riconosco: che sia lui? Viene raggiunto, strattonato, trascinato a terra. Vedo volare dei pugni, mani si alzano aperte vicino alla testa, per difesa. Ai polsi scattano le luccicanti manette di acciaio. Ecco cosa ho dimenticato a casa.
- Ferma, O'Malley! Ferma!
Senza nemmeno rendermene conto gli sono addosso e lo sto prendendo a calci in testa. Era da un mese che aspettavo questo momento, possibile che non riesco a fare altro che tirargli calci in testa? Jonas arriva come un treno e mi trascina via con forza gridandomi di calmarmi, ma vedo rosso e cerco solo di colpirlo. Sono furiosa, inefficace, scomposta, patetica, accecata dall'ira. Jonas è più freddo e ragionatore, lo è sempre stato. Mi sgambetta e riesco a evitare l'onta di finire bocconi nell'erba atterrando miracolosamente sulle ginocchia. Solo adesso che sento dolore alla gola mi rendo conto di quanto sto gridando. Sì, credo sia giunto il momento di calmarmi: c'è già della gente che si sta avvicinando, i soliti curiosi del cazzo. Arrivano anche i colleghi in divisa, tonfa alla mano fanno quello che possono per tener lontani i civili.
- O'Malley. Rispondimi, O'Malley!
Jonas. E tu lasciami le braccia, cazzo. Ma non ho il fiato per parlare, preferisco ansimare ancora un po', grazie. Smetto di strattonare per liberarmi, magari mi lascia davvero. Lo sento inginocchiarsi al mio fianco. Vai via Jonas, sto piangendo di rabbia. Non voglio che tu mi veda così.
- Ti lascio andare, O'Malley. Ma tu non fare cazzate, eh?
Guardo i fili d'erba sfuocati attraverso le lacrime che non vogliono ancora cadermi dagli occhi. Sento un polso libero, Jonas mi abbraccia mentre mi trattiene per il gomito. È accaldato e sudato per la corsa. Io ho il fuoco sotto la pelle e la maglietta è fradicia, la sento che mi si appiccica addosso dappertutto. Stringimi Jonas. Cazzo, stringimi di più: non me ne frega se puzzi.
- È finita, O'Malley – Jonas parla come negli olofilm. No, non è mai finita. Vedere quel pezzo di merda marcire dietro le sbarre, se mai ci rimarrà abbastanza a lungo, non mi darà mai soddisfazione abbastanza.
- Fammi alzare – sento la mia voce come se fosse una registrazione. Mi aggrappo alle sue spalle e sento il suo braccio solido intorno alle mie. Merda: ho macchiato i pantaloni col verde dell'erba e con la terra umida e scura.
Non posso fare a meno di guardarlo. Uno come tanti. Me lo sono immaginato mostruoso, deforme, anormale. Orrendo. Invece è indistinguibile dagli altri. Perde sangue dal naso, tiene la testa bassa mentre gli altri lo trattengono per le braccia ammanettate strettamente dietro la schiena. Una vampata di calore mi avvolge la testa ma Jonas mi si para davanti.
- Andiamo via – Jonas mi stringe il braccio sopra il gomito, saldamente. Io scatto e mi butto contro di lui, lo abbraccio e me lo stringo forte contro il petto. Mi aggrappo alla sua giacca con le mani, la afferro, la stringo, la tiro e poi la lascio. Lui è impacciato, non se lo aspettava. Eh, no di certo. Finalmente si decide, mi stringe come si deve, mi batte le mani sulla schiena. Non mi serve cercare i singhiozzi: arrivano da soli. Da sopra la sua spalla lo guardo: un mostro, ora ammansito da botte e manette. Otto stupri e tre omicidi in un mese, lì nel verde di Amaterasu. Faccio scendere la sinistra, pensando che Jonas non se lo aspetta di sicuro. Lo sa che non sono mancina, ma forse una cosa del genere non gli passa nemmeno per la testa. Mi stringo ancora di più a lui, col mio ventre cerco il suo, lo voglio distrarre. Finalmente attraverso la giacca sento il calcio della sua arma. È in favore del mio palmo. Guardo quel bastardo, in piedi stretto tra due colleghi in divisa. Aspettano il carrellino dei giardinieri: nessun altro veicolo può entrare nel parco. Non se lo aspetta di certo: è quasi tranquillo nella sua normalità di creatura schifosa. Se Jonas non ha messo la sicura, in tre secondi posso farcela. Nessuno se lo aspetta. Pezzo di merda, non ti vanterai da dietro le sbarre di ciò che hai fatto. Anche se ciò non mi restituirà mia sorella.
   
 
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