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Autore: Piperilla    23/08/2015    6 recensioni
[Tratto dal testo]
È curioso come le cose siano tanto complicate appena al di sotto di un’apparente perfezione. Tutto va come dovrebbe andare: Malefica è morta, gli occupanti del mio castello avito sono tornati a vivere e una maestosa cerimonia di nozze ha coronato l’amore mio e di Filippo e le aspettative dei rispettivi padri sull’unificazione dei regni.
Tutto va esattamente come dovrebbe andare.
Tranne la mia testa.
Dopo che il bacio di Filippo mi ha risvegliata dalla maledizione di Malefica, dopo quel momento di superba, irraggiungibile felicità in cui esistevamo solo noi due sul marmo splendente di quella pista da ballo, niente è più stato lo stesso. La prima notte di sonno che ha seguito quell’istante di pura gioia mi ha chiarito quello che tutti avrebbero dovuto sospettare, conoscendo Malefica, e a cui tuttavia nessuno ha pensato.
Come, come abbiamo potuto credere che sarebbe finita così?

[Seconda classificata al contest "L'arte di morire" indetto da Fear sul forum di EFP]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aurora/Rosaspina, Malefica, Serena
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Mostri orribili mi circondano: le loro zanne marcite mi vorticano intorno, i loro artigli s’impigliano nei miei capelli, i loro aliti fetidi mi soffocano. Ali viscide mi sfiorano, code simili a serpenti velenosi si attorcigliano alle mie braccia, alle mie gambe, al mio collo; mani e zampe putride mi toccano, mi afferrano, mi trascinano verso una muraglia di fuoco bruciante, vivo, consapevole. Più avanzo più le fiamme s’impennano, guizzando nell’aria per avvicinarsi e accorciare la distanza che mi separa dalla loro stretta mortale: il calore mi avvolge come un sudario, preannunciando il modo in cui il fuoco divorerà le mie carni. Il supplizio si avvicina. Punto i piedi a terra: la spinta delle disgustose creature che mi sospingono come una vittima sacrificale al cospetto del loro Dio si fa più decisa, vince con facilità la mia resistenza. Mi divincolo; altri arti e altre code mi serrano più strettamente; il patibolo ardente incombe. Una lingua di fiamma colma la breve distanza che ancora ci divide; si attorciglia al mio braccio, e sento la sua forza distruttrice corrodere la mia pelle. Urlo. Ecco, infine! La morte!
   Sollevo le palpebre. La seta del baldacchino sostituisce i mostri e le fiamme nei miei occhi; l’oscurità della notte è una benedizione, dopo il bagliore accecante del fuoco demoniaco che fino a un momento fa invadeva la mia mente.
   Mi metto a sedere lentamente, attenta a non compiere movimenti bruschi, e lancio uno sguardo oltre la spalla alla figura addormentata nell’altra metà del letto. Trattengo un sospiro.
   Filippo…
   È curioso come le cose siano tanto complicate appena al di sotto di un’apparente perfezione. Tutto va come dovrebbe andare: Malefica è morta, gli occupanti del mio castello avito sono tornati a vivere e una maestosa cerimonia di nozze ha coronato l’amore mio e di Filippo e le aspettative dei rispettivi padri sull’unificazione dei regni.
   Tutto va esattamente come dovrebbe andare.
   Tranne la mia testa.
   Dopo che il bacio di Filippo mi ha risvegliata dalla maledizione di Malefica, dopo quel momento di superba, irraggiungibile felicità in cui esistevamo solo noi due sul marmo splendente di quella pista da ballo, niente è più stato lo stesso. La prima notte di sonno che ha seguito quell’istante di pura gioia mi ha chiarito quello che tutti avrebbero dovuto sospettare, conoscendo Malefica, e a cui tuttavia nessuno ha pensato.
   Come, come abbiamo potuto credere che sarebbe finita così?
   Malefica era una fata e una strega di eccezionale potenza, tanto che nessuno fu in grado di annullare la maledizione che scagliò sulla mia testa quando ero ancora in fasce; e allora, come mai non una sola persona ha mai sospettato che avesse previsto anche la disfatta, e che l’incantesimo con cui mi ha colpita si sarebbe tramutato in una seconda e ancor più terribile maledizione, se ne fossi stata risvegliata?
   Non posso fare a meno di pensare che sapesse, che avesse previsto tutto. Altrimenti perché agire prima che Serena mi concedesse il suo dono? Era certa che la mia buona fata l’avrebbe speso per mitigare la sua maledizione; che avrebbe mutato quella condanna a morte in una di sonno eterno; e ha fatto sì che fosse proprio l’atto di bontà di Serena a porre sulla mia testa quella seconda maledizione che ancor oggi mi perseguita.
   Da quella prima notte a seguito della disfatta di Malefica, il sonno pacifico di cui sempre avevo goduto non è diventato che un lontano ricordo.
   All’inizio c’erano gli incubi, che mi turbavano mentre il sonno mi teneva avvinta nelle sue spire; poi il peso di quelle immagini di puro terrore divenne così grande da spezzare persino quel profondo oblio in cui sprofondavo nelle ore notturne. Ora non ci sono più neanche quei pochi minuti di requie tra il momento dell’addormentarsi e quello in cui iniziano gli incubi.
   Non posso più dormire.
   Ho paura.
   Col passare dei giorni prima e delle settimane poi ho imparato cos’è davvero la paura. Io, che avevo vissuto per sedici in anni in pericolo senza saperlo; io, che mi ero ritrovata vittima di una maledizione senza neanche rendermene conto; io, che a differenza del mio caro Filippo non avevo patito neppure per un istante, sprofondata in quel sonno simile alla morte e privo di ogni cosa; io, ora, so cosa significa avere il terrore nel cuore.
   È la condizione più spaventosa, la più miserevole, aver paura di se stessi. Se ciò che mi minaccia e turba la mia esistenza fosse qualcosa di esterno – com’erano Malefica e la sua maledizione – almeno potrei combattere, difendermi, tentare qualcosa. Invece il mostro è nella mia mente: è sempre con me. Mi divora ora dopo ora, privandomi di ogni speranza di fuga e di salvezza. È annidata nel mio petto, quella creatura maligna, e lì resterà.
   Il marmo freddo sotto i piedi mi riporta alla realtà: rimuginare sulla mia condizione non cambierà le cose. Vado verso il grande balcone con passo leggero, evitando ogni rumore che possa svegliare Filippo: lui crede che io dorma come chiunque altro, che nulla mi abbia tolto la serenità delle ore di riposo. Potrei dirgli la verità: ma a cosa servirebbe? Si dispererebbe; si consumerebbe; e non troverebbe soluzione. Perché il seme piantato da Malefica è ben peggiore di lei stessa, e del suo spaventoso sembiante di drago: è qualcosa che soltanto io potrei sconfiggere, se non ne fossi già così fiaccata. Se non fossi ciò che lo alimenta. Si sviluppa come un rampicante venefico, che mi soffoca poco a poco. Un rapido passaggio davanti allo specchio me lo conferma. Dov’è, Aurora, dov’è l’incarnato luminoso e roseo che ti valeva il soprannome attribuitoti dalle tue care fate madrine? Dov’è la brillantezza dell’occhio, e la sua vivacità? Dov’è l’oro dei capelli, ormai opachi e simili a paglia secca? Non ci sono più. Hai diciassette anni e sei morta dentro.
   L’aria tiepida della notte mi fa sentire ancora più cari i giorni della perduta innocenza: su questo balcone tutto è semplice. Somiglia a una terra di confine: basterebbe un passo oltre il suo limite estremo per liberarmi del mostro. Che poi per ucciderlo debba sacrificarmi io stessa, che importa?
   Un frullo d’ali dolce e lieve mi allontana da questa tentazione. La mia buona fata, la cara Serena, vigila sulla mia veglia forzata come sempre. Lei è l’unica che sappia; è l’unica a cercare una soluzione; è l’unica a rammaricarsi di non trovarla. Rammento ancora il giorno in cui mi confidai con lei, raccontandole cosa mi succedeva.
   Rammento ancora quel giorno di quattro mesi fa, quando per la prima volta dissi ad alta voce: io ho paura di dormire.
   È così. Il lavoro di Malefica è completo: il mio terrore di addormentarmi è tale che la mia mente produce immagini spaventose ben prima che il sonno mi colga. La mia vita si è tramutata in un unico, lunghissimo, interminabile giorno, in cui il momento di coricarsi non arriva mai. Mi sono procurata pozioni e distillati che mi tengano sveglia, e che rallentino il declino a cui il mio corpo sta andando naturalmente incontro, ma non servirà: so che non servirà. Come potrei trascorrere anni, e decenni, in questo modo? Forse il mio corpo potrebbe reggere ancora; ma la mia mente, il mio cuore, no.
   Stavolta non posso trattenere un sospiro; ma Filippo non è accanto a me, non rischio di svegliarlo, dunque posso concedermi il lusso di manifestare, anche se solo per un breve istante, la disperazione e il senso di oppressione che provo.
   Lancio uno sguardo di soppiatto a Serena, appollaiata su un angolo della balaustra nella forma piccina e discreta che assume quando vuol volare. Ci sono momenti in cui, con il mio desiderio di morire – con la mia rassegnazione – mi sembra di mancare di rispetto al suo dono.
   La speranza.
   Certo, Serena non avrebbe mai potuto immaginare quanta me ne sarebbe servita: sembra che ormai la mia vita non si fondi su null’altro che la speranza. Quella di cui non ho abbisognato durante la maledizione – quel sonno breve, tanto breve da non aver lasciato spazio a cambiamenti di sorta – l’ho consumata fino all’ultima goccia dopo il risveglio, quando tutti erano allegri e festosi per il prezzo irrisorio con cui era stato pagato l’affronto fatto a Malefica tanti anni prima. Prezzo irrisorio, certo, ma per gli altri: non per me. Io sto pagando un prezzo altissimo.
   Oh! Meglio sarebbe stato morire pungendomi con quel fuso! Mille volte meglio sarebbe stato quel sonno in tutto uguale all’oblio più profondo! Meglio sarebbe stata persino una morte dolorosa, purché rapida. Invece sono stata condannata a consumarmi con lentezza, a sentire la vita abbandonare il mio corpo una briciola alla volta, come un fiore spogliato dei suoi petali da una fanciulla sognante e bizzosa che pensi al suo amore.
   Ma questo è il mio destino; ormai l’ho capito. Per nulla al mondo potrei più sfidare il Fato impostomi da Malefica; per nulla al mondo – neanche per il mio caro Filippo, neanche per il bambino che mi cresce in grembo e di cui nessuno ancora sa nulla – potrei coricarmi di nuovo in quel letto, chiudere gli occhi, cercare il sonno. La sola idea di addormentarmi copre la mia fronte di un viscido sudore gelido; il semplice, minimo segno di stanchezza che spinge il mio corpo a voler dormire mi riempie di un terrore inesprimibile a parole. Mi fa sentire una condannata condotta al patibolo: il fiato manca, le ginocchia tremano, gli arti tentano una disperata resistenza, ma niente ferma il carnefice dal trascinare la vittima incontro al proprio destino.
   Mi accorgo solo ora che Serena svolazza accanto alla mia testa.
   «Va’ a dormire, mia piccola Aurora» sussurra.
   Sento il poco sangue che ancora anima il mio volto defluire all’istante. I mostri ricompaiono, invadono la notte: li sento strisciare intorno a me, su di me, stringermi e togliermi il fiato. La stanchezza mi crolla addosso come una montagna di detriti. Mi schiaccia, mi spinge verso il sonno, verso quel bene così innocente per me divenuto una tortura.
   Potrei tentare; e se andasse bene? Se finalmente il mio sonno fosse privo di orrori, se le dolci parole di Serena – il suo affetto, la sua sollecitudine, la sua partecipazione alla mia sofferenza – fossero esse stesse un nuovo, benevolo incantesimo, in grado di annullare quello crudele di Malefica?
   Annuisco prima di avere il tempo di ripensarci, prima che la paura mi assalga di nuovo.
   Vedo Serena sorridere soddisfatta e allontanarsi nella notte a mano a mano che mi riavvicino al mio letto nuziale: per il momento in cui mi ridistendo tra le coltri di seta, è sparita.
   Con gli occhi fissi al baldacchino prendo dei respiri profondi e silenziosi, tentando in ogni modo di svuotarmi la mente: è tutto quello che posso fare, se davvero voglio avere una possibilità di dormire tranquilla. Continuo a respirare, soltanto a respirare, lasciando che la stanchezza abbia la meglio poco a poco.
   Neanche mi accorgo del momento in cui le mie palpebre calano del tutto.

Fluttuo in un nulla tiepido e confortevole. Sono immersa in una nebbia opalescente, illuminata da ogni lato da una luce crepuscolare, a metà tra il rosa e l’oro.
   La luce dell’aurora.
   Questo giaciglio quasi impalpabile mi culla, tenendomi sospesa nel mezzo dello spazio, lontana da qualsiasi asperità. È rassicurante; è privo di rischi.
   Non so per quanto tempo resto distesa in questo morbido nulla: non ha importanza, ora, quantificare lo scorrere del tempo. So solo che, all’improvviso, percepisco qualcosa di estraneo in questo angolo tutto mio: una presenza inaspettata che incombe su di me.
   Non so neanch’io come, visto che non esistono pavimenti o pareti in questo luogo, recupero la posizione eretta. Mi volto, e l’istinto mi fa indietreggiare di scatto e inciampare nell’orlo della mia camicia da notte, l’unica cosa solida e tangibile intorno a me. Cado di schiena sulla nebbia, ritrovandomi di nuovo distesa, a guardare da sotto in su la causa del mio spavento: un volto sconosciuto, affilato, verdastro, il capo sormontato da un copricapo da cui si innalzano due lunghe, contorte corna nere. Se non fosse per quest’ultimo dettaglio, questo volto potrebbe apparire bello: ha lineamenti regolari, e gli zigomi alti, insieme agli occhi allungati, gli conferiscono un aspetto regale.
   «Aurora». Il mio nome esce da quelle labbra rosse come una constatazione, come se mi conoscesse già. «Finalmente ci incontriamo».
   Anche la sua voce è regale: perfettamente modulata, non troppo alta, con un bordo tagliente appena accennato che si confonde quasi alla perfezione nel garbo con cui si esprime.
   «Chi… chi siete?» non posso fare a meno di chiedere.
   La sconosciuta raddrizza le spalle, ergendosi in tutta la propria altezza, e mi guarda con superbia: ha un aspetto maestoso, molto più di me, che sono una principessa, e più della regina mia madre.
   «Io sono colei che è perita nel tentativo di realizzare la maledizione che ti avevo scagliato contro quando eri ancora in fasce; io sono colei che ha vinto pur nella sconfitta». I suoi occhi mandano un lampo. «Io sono Malefica!»
   Non riesco a trattenere un gemito strozzato. Mi copro gli occhi con un braccio.
   Un tocco leggero, gentile, mi solletica sotto il mento, forzandomi a scoprirmi gli occhi: le dita della strega mi sollevano il volto, costringendomi a guardarla.
   «Una povera bambina davvero» dice in tono quasi rammaricato. «Nata con tutte le fortune, nata per essere amata e ricordata come una regina gentile e misericordiosa, solo per vederti strappare ogni cosa!». Scuote la testa. «Puoi ringraziare i tuoi genitori e le tue care fate madrine, per il destino che ti è toccato».
   La mia bocca si inaridisce. «Io… perché?».
   Malefica si china ancor più su di me: il suo viso è vicinissimo al mio, sento il suo fiato – fresco, profumato, e non fetido come quello dei mostri che infestano i miei sogni – infrangersi sulle mie gote.
   «Perché in occasione della grande festa data in tuo onore, quando eri ancora in fasce, io fui l’unica a non essere invitata dai tuoi genitori; e perché quando mi presentai ugualmente a corte, pensando a una svista, la piccola, insignificante Serena mi disse con ben poco garbo che se non avevo ricevuto un invito era soltanto perché non ero gradita». Si interrompe per un istante, e i suoi occhi si incatenano ai miei. «Io, signora di ogni Male, ignorata e messa da parte come una sempliciotta qualsiasi! Non potevo tollerarlo. Un affronto simile non si lascia mai impunito quando si è grandi, quando si è potenti. Non l’avrebbe fatto un re; perché avrei dovuto farlo io?». Mi guarda ancora negli occhi; non batte mai le palpebre, e neanch’io, perché il suo sguardo è ipnotico. «Anche se indirettamente, eri tu la causa di un tale oltraggio; ed eri anche la vittima perfetta, perché colpendo te, avrei colpito tutti loro».
   «Io non ho fatto nulla» sussurro quasi contro la mia volontà mentre gli occhi mi si riempiono di lacrime. «Non merito tutto questo».
   «Oh, no, è vero» conviene Malefica. «Non lo meriti. Tuttavia, mia cara, quasi mai abbiamo ciò che ci meritiamo: se la vita è ingiusta e crudele è solo perché le persone sono ingiuste e crudeli, e non il contrario». Tace. Mi guarda con un misto di orgoglio e pietà. «Sei stata il mio capolavoro più grande. La maledizione che ho ordito contro di te – la sua trama, i suoi meccanismi nascosti, i suoi sistemi di sicurezza in caso qualcuno avesse cercato di renderla meno spietata o fosse riuscito a disfarla – è stata la più grande delle mie opere. Non c’è modo di liberartene. Sei condannata». Posa lo sguardo sul mio ventre. «Anche tuo figlio avrà lo stesso destino: il mio sortilegio è così forte da estendersi anche alla tua discendenza».
   Stavolta è un singhiozzo vero e proprio a uscire dalle mie labbra. D’istinto mi copro il grembo con le mani, quasi che questo bastasse a proteggere il mio bambino. «Sei un mostro!»
   «Lo sono» conferma la strega: per un attimo, il suo senso di trionfo la illumina per intero. «Chi, se non un mostro, riuscirebbe a estendere il proprio potere anche dopo la morte?»
   Sono inorridita da tanta cattiveria. Fortunatamente, interviene un pensiero a darmi un briciolo di speranza. «Come posso sapere che stai dicendo la verità? Forse menti. Anzi, sicuramente è così!» dico con forza.
   Ma Malefica scuote la testa, come impietosita. «Povera, ingenua bambina» risponde. «Io non ho mai mentito; non ne ho bisogno, poiché mai ho avuto la necessità di tenere celati i miei piani e i miei intenti, pur di portarli a termine. Se ci pensi bene, sono stati gli altri a mentirti: i tuoi genitori, le tre fate…». Scuote ancora la testa, lentamente, prima di fissarmi di nuovo negli occhi. «Coloro che sono considerati buoni spesso mentono quanto, se non più, dei malvagi».
   Il respiro mi si strozza in gola. Ha ragione; ovviamente ce l’ha. I miei genitori non si sono separati da me, abbandonandomi, seppure a fin di bene, e privandomi della mia identità? Non ho forse vissuto una vita intera nella menzogna, per poi vedere il mio mondo – quello che credevo essere il mio mondo – essere stravolto con poche, semplici frasi da Fauna, quel pomeriggio di un anno fa, alla capanna del taglialegna che avevo sempre creduto essere la mia casa?
   Non ho nessuna speranza di salvezza. Peggio ancora: sto condannando una creatura innocente a subire il mio stesso destino!
   Il solito sudore freddo mi copre, facendomi rabbrividire. Malefica si raddrizza.
   «Non sfuggirai alla mia maledizione. Sei condannata» ripete. Indietreggia, sparendo nella foschia. «Sei condannata».
   La nebbia si fa pesante, quasi mi soffoca; la luce calda si spegne quasi di colpo, assumendo toni grigiastri, cupi, angoscianti. Versi striduli riempiono l’aria. Attraverso la foschia intravedo forme spaventosamente familiari – code viscide, ali squamose, artigli protesi – che mi si avvicinano. Scatto in piedi. Corro. Salto. Evito i loro assalti, schivo i loro colpi, ma l’aria sta diventando irrespirabile – è come inspirare sabbia e rocce – il mio petto si fa pesante – i detriti lo colmano per intero – i miei passi diventano lenti – la zavorra è troppo grande perché io possa continuare a muovermi.
   Crollo. Come un masso, come se tutto il peso del cielo gravasse sulle mie spalle. I mostri mi raggiungono, mi circondano, si gettano su di me come bestie selvagge su una carogna – il loro peso si aggiunge a quello che già grava sul mio corpo, mi schiaccia, finisce di togliermi il fiato…
   Apro gli occhi di scatto mentre un grido di terrore fa per lasciare la mia bocca; ma la paura è tale che neanche la voce riesce a farsi strada, muore in fondo alla mia gola – la stessa gola che pochi istanti fa sentivo piena di sassi – torna indietro nel mio petto – quel petto ancora così pesante da non riuscire a immettervi il fiato – si propaga in tutto il corpo – congela le mie membra, impedendomi ogni movimento.
   La sensazione di orrore non dura che un momento, ma è bastato a innalzare la mia paura al massimo livello. Mi alzo di scatto dal letto – svegliare Filippo non ha più importanza – e fisso la finestra ancora aperta – terra di confine, oasi di pace. La raggiungo correndo, afferro l’orlo della camicia da notte tra le mani e la sollevo per essere più veloce, per non avere intralci, per arrivare al balcone prima di avere il tempo di riflettere, di pensare…
   L’aria fresca mi investe nell’istante stesso in cui passo all’esterno – mondo nuovo, lontano dal mio giaciglio di terrore – e il pavimento freddo si estende davanti ai miei occhi: lo spazio che mi divide dal parapetto di marmo sembra infinito, il limite della balconata irraggiungibile, ma continuo a correre e mi avvicino, mi avvicino…
   Salire sul parapetto con un unico movimento e lanciarmi nel vuoto ha richiesto a stento un secondo; poco di più è durata la mia caduta verso il suolo. L’impatto mi lascia la confusa, dolorosissima impressione di essermi frantumata in un numero infinito di pezzi, come una statuetta di cristallo scagliata contro un muro: sono ridotta in briciole, e tuttavia mi sento felice.
   L’oblio eterno si addensa intorno a me, e so che stavolta sarà privo di mostri; e se avessi ancora il controllo del mio corpo sorriderei, perché del dolce sonno degl’innocenti disperavo ormai di goder.
   
 
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