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Autore: mairileni    23/08/2015    1 recensioni
«Di te mi ricorderò che ti cadevano sempre le cose di mano.»
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Muse, Placebo | Coppie: Brian.M/Matthew.B
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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_ARC_

 

 

 

 

 

 

 

«Di te mi ricorderò che ti cadevano sempre le cose di mano.»

Fumava con la sinistra e teneva la Coca-Cola con la destra, il gomito sul parapetto e la lattina sospesa a cinquanta metri dalla strada. La usava come posacenere. Il braccio aveva cominciato a fargli male e allora l’aveva passata a Brian, ma non appena gliel’aveva messa in mano lui l’aveva fatta cadere. Lo faceva sempre. La lattina era rimbalzata sul parapetto e poi era precipitata verso il basso, loro l’avevano seguita con gli occhi senza neanche tentare di afferrarla. Ora la guardavano volare giù. Matt si strofinò distrattamente il petto con un dito, uno schizzo di Coca-Cola e cenere gli aveva macchiato la camicia. L’impatto della lattina contro il marciapiede rimandò loro un lontanissimo rumore metallico. 

Erano appoggiati contro il parapetto di uno degli edifici più alti della città, in piedi, Matt che fumava in fretta e Brian che fumava piano. Avevano entrambi avuto una brutta giornata, e questa era l’unica cosa che sapevano l’uno dell’altro — se erano lì, insieme, era sempre perché entrambi avevano avuto una brutta giornata. Brian aveva le palpebre azzurre, le ciglia impastate di mascara e le unghie laccate di nero, un impermeabile scuro appoggiato sulle spalle. Matt si sforzò di non fissarlo.

«Ti va di sederci?», chiese.

«Sì.»

La prima volta che l’avevano fatto era stata un’impresa — “Metti prima la gamba e poi il braccio, no aspetta, il braccio mettilo lì se no cadi, no aspetta, ti aiuto” —, ma ormai riuscivano a montare sul parapetto in un gesto solo. Brian accavallò le gambe prima ancora di essere in completo equilibrio, Matt le agitò nel vuoto. Se in quel momento sua madre avesse potuto vederlo le sarebbe venuto un colpo. Lì si stava bene. Brian si piegò lentamente in avanti per allacciarsi una scarpa, una cosina nera che di numero sarà stata al massimo un 38, si vestiva sempre nello stesso modo. Matt si inclinò automaticamente all’indietro come per controbilanciare. Erano seduti su un parapetto a cinquanta metri da terra un po’ come i trapezisti del circo, ma più in alto e senza rete. Da lassù le persone sembravano tutte uguali. 

Matt captò un fruscio alla sua destra. ancora una volta si sforzò di non guardare, con due dita massacrò il filtro della sigaretta contro il cemento. Brian si stava alzando in piedi facendo attenzione a ogni movimento per non cadere giù. Sarebbe bastato un colpo di tosse, un piede messo male. Quando Brian fu finalmente in piedi, Matt si permise di guardarlo. Lo vedeva già sbilanciato in avanti, troppo inclinato per poter cambiare idea. Brian guardava davanti a sé senza paura, rilassato, in equilibrio chissà come sui suoi spessi tacchi da cinque centimetri.

«Che cosa stai facendo?»

«Non lo so. Probabilmente una cazzata.»

Matt deglutì, Brian continuava a guardare il nulla. Un colpo di tosse. Sarebbe bastato un colpo di tosse. Si erano conosciuti esattamente così, esattamente lì, anche se quel giorno entrambi erano seduti. Brian indossava un paio di scarponcini palesemente femminili — quegli scarponcini palesemente femminili —, Matt si era allentato la cravatta della divisa scolastica perché le altezze lo facevano respirare male. Fumavano entrambi ed entrambi erano di malumore. Matt aveva una lattina di Coca-Cola, l’aveva bevuta quasi tutta mentre saliva le scale antincendio. La usava come posacenere. Poi si era messo a guardare giù, c’erano poche persone e passava qualche macchina. Si era accorto di non essere più da solo soltanto quando Brian gli aveva chiesto se potesse usare la sua lattina per spegnere la sigaretta, “Ti spiace se butto il mozzicone qui?”, “Fai pure”, senza farsi troppe domande sul perché quella figurina in abiti succinti ora fosse proprio lì accanto a lui. Erano passati dei giorni, poi Brian era tornato e Matt ne era stato segretamente contento. Dopo quasi un mese di incontri più o meno regolari ancora non si erano presentati. Matt si era fatto tagliare i capelli, Brian li aveva sempre della stessa lunghezza, si tenevano compagnia mentre stavano da soli. Un giorno Brian aveva il labbro inferiore gonfio, come fosse stato picchiato. Matt si era limitato a lanciargli una rapida occhiata solidale. Si era deciso a fare qualcosa verso marzo, anche se ancora non sapeva bene cosa. Ci aveva pensato su, ma non troppo, e alla fine aveva optato per la prima domanda che si era posto quando aveva conosciuto Brian — “Ma non ti senti a disagio, vestito da donna?”, “Mi sento a disagio comunque.” 

Era cominciata un’amicizia bizzarra. Si vedevano quando capitava e quando si vedevano stavano zitti per la maggior parte del tempo, non si presentarono neanche quando ormai erano passati più di sei mesi dal loro primo incontro. A fine luglio a Matt erano ricresciuti i capelli, Brian li aveva sempre della stessa lunghezza. Matt aveva pensato che forse era perché se li faceva tagliare più spesso, come le ragazze. Ora era in piedi e guardava di fronte a sé, senza sapere che cosa sarebbe successo dopo. Sarebbe bastato un colpo di tosse.

«Matthew.»

Si chiese disordinatamente perché la gente non si limitasse a fare come Brian, ad aggiungere quelle tre lettere in più per usare il suo nome intero. Suonava così bene. In uno sprazzo di lucidità si chiese anche come facesse Brian a conoscere il suo nome e come facesse lui a conoscere il nome di Brian. Non si erano mai presentati, ma alcune volte Matt era salito su quel tetto con una lattina di birra anziché di Coca-Cola, e forse questo aveva cancellato un paio di ricordi. Con la coda dell’occhio intravide la sacca di educazione fisica mezza aperta, la sua maglia da calcio con la scritta “Matt” stampata in bianco sulla schiena. Capì. Ma chissà quand’era stato che Brian gli aveva detto di chiamarsi Brian. La prossima volta che mi porto una birra, prima mangio, pensò. Brian si vestiva sempre nello stesso modo.

«Matthew?», si sentì chiamare ancora.

«Cosa?»

«Guarda un po’ lì.»

Nel palazzo dirimpetto c’era una finestra illuminata. Dietro al vetro, una donna piuttosto in là con gli anni cercava qualcosa da indossare davanti alle ante spalancate dell’armadio. 

«È…?»

«È nuda», completò Brian per lui. «Vieni su. Si vede anche meglio.»

«Non so se voglio vedere meglio», scherzò Matt.

«Vieni su.»

Matt si mosse ancora più lentamente di come si era mosso Brian; quando cominciò a sollevarsi facendo affidamento sulla sola forza delle sue gambe temette di cadere e morire, per la prima volta nella sua vita. Poi si mise in piedi anche lui, e non ebbe più paura. C’era una bella vista. Vide la sua casa, in fondo e sulla destra, accanto all’inconfondibile insegna luminosa del Day ‘n’ Night. Casa sua era brutta anche da lì. Forse da qualche parte, in quella distesa di tetti e comignoli e alberi e parcheggi pieni zeppi di auto, c’era anche la casa di Brian. Respirò a pieni polmoni e roteò lentamente la testa per rilassare i muscoli del collo. Sarebbe bastato un colpo di tosse. Sotto cominciavano già a raggrupparsi i primi cittadini preoccupati – tanti piccoli grappoli di teste, tre, quattro acini a grappolo. Indicavano su con le dita, “Chiamate la polizia!”, “Chiamate i pompieri!”, “Chiamate qualcuno!”.

«Pensano che voglia ammazzarmi», commentò placidamente Brian.

A Matt non sfuggì il verbo al singolare.

«Hanno ragione?», chiese.

«Non lo so. Secondo te hanno ragione?»

Il vestito di Brian svolazzò fino a sfiorare la gamba destra di Matt. Ai piedi del palazzo ora ci saranno state almeno una sessantina di persone, arrivavano correndo da tutte le direzioni e ingrandivano il gruppo che si era già formato. Era buffo perché ora che guardavano su, quelle persone sembravano tutte diverse. Tranquilli, non mi butto di sotto. Le macchine si fermavano in mezzo alla strada, la gente scendeva sbattendo le portiere e indicava su, “Chiamate la polizia!”, sarebbe bastato un colpo di tosse. Brian mosse un piccolo passo in avanti. Un passo indietro e cadi, un passo avanti e muori. Matt rimase dov’era.

«Davvero stai per ammazzarti?», chiese.

Era stato macabramente sereno, nel porre quella domanda – “Davvero non hai fratelli?”, “Davvero fumi le Winston?”, “Davvero stai per ammazzarti?”. La gente indicava su.

«Ancora un altro po’», rispose Brian. «Poi basta.»

Matt non capì che cosa intendesse dire. Le sirene della polizia arrivavano da destra, videro chiaramente la macchina bianca e blu comparire da un angolo e sfrecciare tra le stradine della periferia. Dall’alto. Da fuori, come nei film.

«E adesso?», chiese Matt.

«Adesso uno degli agenti scende dalla macchina e si fionda su per le scale antincendio nella speranza di fermarmi e diventare un eroe.»

«Ce la farà?»

«A diventare un eroe?»

«A fermarti.»

«No.»

A Matt venne improvvisamente freddo, pensò che sarebbe stato bello avere una coperta. Senza scendere e senza muoversi, sempre lì, ma con una coperta. Con una coperta sarebbe stato perfetto. Spostò il peso su un piede e poi sull’altro. Fece questa cosa per un po’ e poi smise. Si sentì bene. Gli venne in mente una domanda stupida, la fece lo stesso.

«Che aspetti?»

Brian sorrise.

«Secondo te che aspetto?»

«Aspetti che quell’agente di polizia venga qui e poi scendi.»

«Oppure?»

«Aspetti che quell’agente di polizia venga qui e poi ti butti.»

«E perché lo farei?»

«Per l’effetto drammatico», ripose Matt senza pensare. «Per gli articoli di giornale. Per la gente che dira “Oh, se solo avesse aspettato una manciata di secondi in più”. Perché avrebbero potuto salvarti, perché sono stati a tanto così dal salvarti.» Annuì a vuoto, come per darsi ragione da solo. «Per l’effetto drammatico», ripeté.

Brian sorrise di nuovo. Erano due, ma con una mente sola. Cominciarono a udire il rumore metallico dei passi sulle scale antincendio, gli agenti di polizia salivano veloci. Anche loro erano in due. 

«E adesso che succede?»

«Adesso succede che abbiamo due minuti per decidere.»

A Matt non sfuggì il verbo al plurale. La gente indicava su, una massa di persone inquiete e impazienti, ma talmente lontane da loro — talmente più in basso di loro —, che Matt non riuscì a identificarsi nella causa della loro angoscia neanche sforzandosi. Erano persone preoccupate e indicavano su, tutto lì. Lui non c’entrava niente.

«Dicono che sono pazzo», sussurrò.

Era la prima volta che si sentiva pronunciare quella frase ad alta voce. Pensò che fosse liberatorio. Se in quel momento aveva una certezza, questa era che Brian non l’avrebbe mai detto a nessuno. Sia che avesse scelto di fare un passo indietro, sia che avesse scelto di fare un passo avanti.

«Dicono che dovrei prendere delle pillole. Psicofarmaci.»

Sarebbe bastato un colpo di tosse, Brian si vestiva sempre nello stesso modo.

«Se sei pazzo tu allora sono pazzo anch’io», rispose Brian.

I passi sulle scale antincendio erano sempre più vicini – abbiamo trenta secondi per decidere, ventinove, ventotto.

«L’altro giorno ti ho visto che leggevi su una panchina del parco», disse Matt. Gli cadde una lacrima, ma non ci fece caso. «Ero con mia madre, ti ho indicato con un dito. Le ho parlato di te.»

«E lei che cosa ha detto?»

«Che sei bellissimo.»

Matt sentì di nuovo quei passi, ma questa volta il rumore che facevano non aveva nulla di metallico. Erano soltanto dei passi, ed erano vicini, vicinissimi, erano quasi lì, gli agenti di polizia cominciavano a pregare di non farlo. Pensò di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, ma non gli stavano dando fastidio e le lasciò dov’erano. Con una coperta sarebbe stato perfetto, abbiamo tre secondi per decidere, due, uno. Inspirò finché nei polmoni non ci fu più spazio per altra aria e poi espirò.

Uno degli agenti di polizia tese un braccio, Matt si sbilanciò in avanti e con la coda dell’occhio vide Brian compiere lo stesso, identico movimento. Qualcuno gridò, il corpo di Matthew si rovesciò nel vuoto, il vento gli sollevò ciocche scure dalla fronte. A Matt erano ricresciuti i capelli.

 

 

 

 

 

«So che è doloroso, signora. Se vuole possiamo fare una pausa e…»

«No. No, andiamo avanti.»

L’agente di polizia lanciò un’occhiata in tralice al collega che sedeva a pochi passi di distanza da lui, questi lo incoraggiò a continuare con un cenno della testa. Era la procedura.

«Suo… suo figlio, Matthew, teneva un blocco di appunti nel cassetto del suo comodino, accanto al letto.»

La signora Bellamy annuì, conosceva benissimo quel blocco di appunti. Era nero, Matt lo aveva visto in una cartoleria di Brighton quando erano andati lì in vacanza due anni prima. Lo voleva a tutti i costi e allora aveva cominciato a tirare fuori dallo zaino e dalle tasche tutte le monete che riusciva a trovare, “Me lo pago io!”. Al tempo aveva solo quindici anni. Se l’era fatto prendere nel formato più grande e più costoso, aveva promesso che non l’avrebbe mai rimpiazzato. Aveva mantenuto la promessa.

«In una delle ultime pagine che ha riempito, Matthew ha accennato a un ragazzo conosciuto a gennaio, ci chiedevamo se ne sapesse qualcosa.»

La signora Bellamy sorrise tra le lacrime, si strinse nello scialle.

«Un ragazzo con i capelli fino alle orecchie, abiti femminili, occhi azzurri?»

«Sì. È come lo descrive Matthew nel quaderno. Gliel’aveva presentato?»

«Me l’ha fatto vedere, sì», rispose lei. Continuava a sorridere e a piangere. Guardò fuori dalla finestra, deglutì, cercava di riprendere fiato mentre per l’ennesima volta ripercorreva con la mente il ricordo di quell’episodio. «Qualche giorno fa, la settimana scorsa forse. Ero uscita a fare delle spese, Matt si è offerto di aiutarmi. Lo faceva sempre.» Si asciugò gli occhi, cercò di continuare a sorridere mentre si schiariva la voce. «Siamo passati per il parco, e a un certo punto lui l’ha visto su una panchina e me l’ha indicato. Mi ha detto che per lui era una persona importante, anche se ancora non conosceva il suo nome. Ha continuato a indicarlo con il dito e mi ha parlato di lui per tutto il tempo che siamo stati fuori.»

«E cosa può dirci di questo ragazzo?»

La signora Bellamy sorrise quel sorriso forzato che non voleva andarsene, testardamente aggrappato alla sua faccia. Si strinse forte nello scialle.

«Su quella panchina non c’era nessun ragazzo.»

 

 

 

 

 

«Di te mi ricorderò che ti cadevano sempre le cose di mano.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SPAZIO AUTRICE 

Buonasera a tutti!

Che dire, che dire. È sempre un piacere tornare in questo fandom — è il mio preferito, non se ne esce. La storia che avete letto si è scritta da sola, più o meno. Avevo voglia di scrivere qualcosa, sono partita dalla prima frase e poi non lo so, è venuta così. Credo che potesse uscire meglio, ma non riesco a essere obiettiva perché io sono una sentimentale e quindi mi ci sono già affezionata, vi pare mai possibile. Avevo così tanta voglia d'angst. 

Ah già, la burocrazia, giusto.

“_Arc_” è il titolo di una canzone degli Everything Everything che riflette molto questa storia. Non conosco i membri dei Placebo e dei Muse e non scrivo a scopo di lucro. La storia che avete letto non ha pretese di veridicità né sui personaggi in essa presenti, né sui fatti narrati.

Ecco fatto. Chiaramente mi rendo conto di aver trattato tematiche delicate, come da descrizione, ed è ovvio che spero di non aver urtato la sensibilità di nessuno. Detto questo, vi lascio e torno al mio lavoro notturno (NON IL LAVORO CHE PENSATE VOI, STO TRADUCENDO UN LIBRO!).


Grazie di aver letto e alla prossima (*v*)/


pwo_ 

 

 

   
 
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