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Autore: Maledetta    28/08/2015    2 recensioni
Mike e Chester erano amici...si, dai, chi vogliamo prendere in giro? Erano più che amici. Chester aveva diciotto anni, Mike diciassette, ma a loro che interessava? Avevano una vita da vivere, o almeno così pensavano.
Piccola OS ispirata alla canzone "Lost In The Echo" e al suo video.
È la mia prima storia su EFP, spero ve la godiate...
Genere: Introspettivo, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LOST IN THE ECHO
Un'altra fottuta giornata grigia. 
Grigia, come sempre. 
Grigia come tutto il resto.
Grigia come il cielo che era azzurro, ma che era grigio lo stesso.
Se ne stava nascosto dietro un muro grigio. 
Come in tutte le giornate grigie.
Come tutte le altre persone grigie. 
Se ne stava nascosto come un topo, ma non riusciva a nascondersi dai ricordi. 
No, da quelli era impossibile nascondersi. 
Quelli continuavano a lampeggiargli nella testa come proiettili vaganti che facevano buchi ovunque.

Lui era le mie fondamenta, non avrebbe mai potuto essere qualcun'altro, no.

Se ne stava nascosto, raggomitolato sotto le coperte del suo letto grigio. 
Cercava di sfuggire a quei ricordi grigi che lo colpivano come fucilate, mentre si nascondeva nella penombra grigia e chiudeva gli occhi, provando a non pensare. 
Ma erano sempre lì. 
Pronti ad attaccare. 
Pronti a fargli male.

L'ho seguito, così preso, talmente tanto che non avrei mai potuto lasciarlo perdere, poi la sua tristezza, il suo dolore quando i suoi demoni sono tornati a prenderlo come una malattia, lo shock quando li ha lanciati contro di me...

Era inutile nascondersi.
Era inutile rigirarsi sul materasso sfondato cercando di non aprire gli occhi.
Ovunque provasse a guardare loro c'erano: erano sempre lì, incisi sul retro delle sue palpebre, marchiati a fuoco in ogni suo pensiero.
Non lo mollavano un minuto, non importava che dormisse o che fosse sveglio...
Era inutile nascondersi.

Ero così spaventato che non riuscivo a vedere che non poteva essere fermato, o indietro o in alto, ma non si sarebbe trattenuto. Conosceva il suo repertorio, conosceva anche il mio: sapeva bene come farmi dimenticare tutto e mostrarmi il suo inferno.

Ce n'era uno, di quei ricordi grigi, che più di tutti sembrava non volerlo lasciare andare. 
Un viso. 
Sfocato. 
Confuso. 
Come una nota stonata del pianoforte a parete che si ostinava a non voler buttare che si perdeva nel buio grigio di quelle rovine...un volto grigio. Come una nota grigia. 
Capelli pieni di gel, una sigaretta, occhi pieni di una rabbia cieca dietro un paio di occhiali. 
Lo vedeva ovunque.
Ovunque posasse gli occhi. 
Persino allo specchio vedeva quel viso invece che il suo. 
Dita magre e un polso ricoperto di fiamme del colore sbagliato che si posavano dall'altra parte del vetro se vi avvicinava una mano.
Lo conosceva, quel viso, ma non aveva idea di chi fosse.
Era la sua pena.
Il prezzo del suo peccato, anche se non si ricordava nemmeno quale fosse, il suo peccato...
Grigio, probabilmente. Grigio. Come tutto il resto. 
Tranne l'uomo blu. 
L'uomo blu non era grigio. 
Non era uno di quei dannati che popolavano quelle rovine grigie.
No, non lo era. 
Si girò ancora sotto le coperte.

Era tornato come prima, sì, dannazione. Con la droga e tutto, a quanto pare la sua storia vendeva di più così. Lasciava che gli altri parlassero, ma tutti i migliori cadono, è caduto anche lui.

Non era sicuro che quei pensieri avessero senso, ma era lì, oramai, nulla aveva senso per davvero.
Non aveva senso nemmeno continuare a respirare mentre un uomo blu attraversava la città, come faceva ogni mattina. 
Nessuno si spiegava perché lo facesse: non aveva senso che uno che non era grigio passasse per le loro rovine grigie.
Eppure quello lo faceva ogni fottuta mattina. 
Alla stessa ora.
Partiva dall'inizio della strada principale e attraversava tutta la città.
Arrivava in fondo.
Spariva.
Non si vedeva più fino al giorno dopo. 
Un puntino blu in mezzo al grigio. 
In mezzo a quelle rovine grigie di mura infinite che ormai erano diventate l'unico mondo che conosceva.
Con tutti i loro dannati grigi dai volti sbiaditi. 
Pieni di guai affogati nel dolore. 
Dimenticati in mezzo alla merda di quell'esistenza sbagliata. 
Gente come lui.
Gente che ogni fottuta mattina usciva dal suo buco e guardava l'uomo blu che passava, nascondendosi dalla luce grigia del sole come se fosse veleno. Come se avesse paura di essere vista. 
Lui camminava, l'uomo blu, facendo finta che non esistessero.
Loro stavano lì, a guardarlo diffidenti, al riparo dell'ombra dei muri.
Come stavano facendo anche quella mattina. 
Come avrebbe fatto anche lui di lì a poco. 
Trovarsi in strada era un attimo. Era facile.
Bastava aprire la porta e uscire e il gioco era fatto.
Allora perché ogni mattina diventava più difficile? 
Alzarsi dal letto. 
Rassegnarsi al fatto che c'era un altro giorno da vivere. 
Perché era così difficile?
Trovarsi in strada era un attimo. Era facile. 
Ma non quel giorno. 
Quel giorno era stata una maledetta tortura.
Adesso era lì, sotto quel cielo (grigio) azzurro.
Aspettava.

Ho visto la sua frustrazione, ma mi ha attraversato e gli ho detto di no, l'ho lasciato andare e lui è tornato quello di prima, ha vissuto e ha mollato, per farmi vedere che lui non era come gli altri, che non si sarebbe trattenuto, no. Mi ha fatto capire che non poteva tornare indietro, era andato troppo lontano. Non sarebbe stato ciò che gli altri...che io volevo che fosse. Si sarebbe tenuto le sue cicatrici e vaffanculo.

L'uomo blu gli passò davanti. 
Camminava al sole, con una valigetta in mano.
Non aveva valigie di solito. 
Non seppe perché. 
Non stette a pensarci. 
Lo seguì e basta, curioso. 
Camminava nell'ombra. Come un ratto. Senza farsi vedere.
La gente lo imitava. 
Fiutavano qualcosa. Stava succedendo qualcosa.

Lui non si sarebbe arreso, non si sarebbe piegato, chi se ne frega se sapeva di essere sbagliato, era fatto così.  Non mi avrebbe ascoltato, non poteva essere fermato, no.

Erano un esercito.
Un esercito di ratti protetti dall'ombra.
Un esercito di ratti che seguiva un uomo blu in una città in rovina.
Fiutavano qualcosa. Stava succedendo qualcosa.
Lì non succedeva mai niente.
Lo seguivano.
Strisciavano nell'oscurità.
Dall'ombra grigia di un grattacielo mezzo crollato a quella di una vecchia baracca ricoperta di graffiti.
Arrivarono in un vecchio cortile grigio.
Uno spiazzo in mezzo a mura ricoperte di muschio (grigio) verde.
Lui era fermo, l'uomo blu.
Li guardava, l'uomo blu.
Depose la sua valigia a terra.
Lui che l'aveva seguito per primo ora se ne stava lì in prima fila.
Lo guardava trafficare con i fermagli azzurro sporco.
Vide le foto che c'erano nella valigia.
Foto di persone.
Persone che non erano grigie.
Bambini.
Anziani.
Ragazzi.
Tutti lì.
Stampati sulla carta.
Colori intrappolati nel tempo. Per sempre.
La gente prese a spingerlo. Si accalcavano, si picchiavano, lo tiravano indietro.
La gente si buttava su quelle fotografia vecchie e nuove, riconoscendo fidanzati, nonni, fratelli e chissà cos'altro in quelle persone che non erano grigie congelate sulla carta.
Poi lo vide.
Lo vide là. Su una fotografia con i bordi bruciati come i suoi ricordi.
Lo vide, con i suoi occhi scuri pieni di rabbia.
Lo vide, con i suoi capelli biondi sparati in aria.
Lo vide, con i suoi occhiali neri sul naso.
Iniziò a spingere.
Iniziò a farsi largo il quel macello di persone grigie.
Iniziò a combattere per prendere quello che era suo, prima che qualcuno glielo strappasse un'altra volta, anche se di quel ragazzo non si ricordava nemmeno il nome.
Lo portò via da quella maledetta valigia.
Corse verso il suo buco, trattenendo le lacrime.
Non esisteva più l'esercito di ratti che l'aveva seguito. 
Non esisteva più l'uomo Blu che attraversava le rovine.
C'erano solo lui e quel ragazzo che non era grigio.
Rientrò nella sua tana grigia senza badare nemmeno a dove metteva i piedi, fissando quella foto che non era grigia come se ne andasse della sua vita. 
Fissava quel ragazzo che si ricordava, ma che non si ricordava. 
Lo fissava talmente tanto, che gli pareva che stesse sbiadendo.
Poi alzò gli occhi. 
Successe per sbaglio, non lo voleva davvero. 
Gli veniva da piangere e non voleva bagnare il ragazzo nella foto.
Alzò gli occhi, e si accorse che non era solo.
Lui era lì. 
Esattamente di fronte a lui. 
Con una camicia fin troppo grande che gli copriva il fisico fin troppo magro.
Gli occhi vuoti della solita rabbia, ma pieni di lacrime come non li aveva mai visti.
L'aveva mai visto piangere?
Forse sì.
Forse no.
Non ricordava.
Tornò a guardare la foto, ma i suoi occhi trovarono solo un foglio bianco.
Guardò il ragazzo.
Vide quel volto che popolava ogni suo sogno e ogni suo pensiero.
Solo che non era grigio.
Solo che piangeva.
Lasciò cadere il foglio che prima era una foto, tramortito dallo stupore, mentre sentiva la voce dell'altro rotta dalle lacrime che ripeteva un nome in un eco infinita dentro la sua testa.
Mike, all'inizio.
Mickey, all'infinito.
Era quello il suo nome?
Sentì salire la voglia di urlare.
L'altro lo guardava e continuava a ripetere quel nome.
Quel "Mickey" lento e disperato, pronunciato quasi con dolcezza attraverso le lacrime che gli rigavano il viso.
Quel "Mickey" che gli faceva più male ogni volta che lo sentiva.
Perché quel ragazzo che non era grigio non doveva essere lì.
Era morto.
Lo aveva lasciato solo.
Non doveva essere lì.
Si era buttato da un cazzo di cavalcavia.
Non doveva essere lì.
Urlò. 
Urlò, perché non riusciva più a trattenersi. 
Urlò, perché tutto quello faceva tanto male che piangere non bastava più.
Urlò, perché aveva bisogno di urlare e lì, in quel grigiume, a nessuno sarebbe importato.
Sentì l'altro che urlava assieme a lui.
Sentì sé stesso annientarsi sotto quelle urla lanciate verso l'alto e chiuse gli occhi, rivolgendo il viso verso quel cielo (grigio) azzurro, mentre si sentiva sparire un po' alla volta, come era apparso all'improvviso quella che sembrava una vita prima.
Il piazzale era poco lontano.
Poco lontano da quel ragazzo che forse si chiamava Mike.
Poco lontano da quell'eco senza nome che urlava e spariva poco a poco assieme a lui.
Lì, un uomo blu chiudeva una valigia piena di foto.
Sorrideva,  fra sé e sé. 
Le fotografie dentro erano ammucchiate fra loro. Senza ordine o senso.
Soltanto una si scorgeva. Quella più in alto di tutte. 
Soltanto il viso di un ragazzo pallido e emaciato.
Un ragazzo che urlava al cielo, mentre un frangia troppo lunga di capelli neri gli nascondeva gli occhi. 
Un ragazzo che forse si chiamava Mike.



Mike si svegliò di scatto, spaventato a morte da quel sogno assurdo. Si mosse goffamente sul divano, cercando invano di trovare una posizione comoda. Se ne stava tutto premuto sullo schienale, come per far spazio al vuoto accanto a lui. 
Si ritrovò a guardare quel lato vuoto di quel maledetto divano sul quale lui dormiva sempre, usando il suo petto come cuscino senza prendersi nemmeno il disturbo di chiedergli se gli desse fastidio.
Il suo maledetto lato su quel maledetto divano su cui avevano dormito insieme tante volte, nel garage in cui provavano con la band.
Quel maledetto divano su cui dormivano assieme quando lui si chiudeva fuori casa e gli si presentava alla porta perché non aveva altro posto dove andare.
Quel maledetto divano su cui dormivano quando lui si sentiva solo, o triste, o semplicemente male e andava a chiedergli asilo, perché diceva che averlo vicino lo faceva stare bene.
Quel maledetto divano in garage dove dormivano sempre perché era meno probabile che qualcuno entrasse e li vedesse insieme.
Si ritrovò a guardare quel vuoto incolmabile su quel maledetto divano con le lacrime agli occhi e un urlo soffocato in gola.

Chester...






In queste promesse infrante

In fondo, in profondità

Le parole si perdono nell'eco

Posso vedere attraverso quest'ultima bugia

Alla fine questa volta ti lascerò 

Andare
   
 
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