Il bacio
dell’aspide
Capitolo
1
Alea iacta
est
Via, via, vieni
via di qui,
niente più ti
lega a questi luoghi,
neanche questi
fiori azzurri…
via, via, neanche
questo tempo grigio
pieno di musiche
e di uomini che ti son piaciuti…
(Paolo Conte,
“Vieni via con me”)
I
fantasmi della notte si diradano nella nebbia greve e sonnolenta di un mattino
senza colori.
Apri
gli occhi, le palpebre tremolano appena nell’ombra, la mente arranca nel
riprendere possesso della sua funzione e della consapevolezza che oggi è
venerdì, che, tempo qualche secondo, quel familiare strascico d’angoscia,
costante irrinunciabile che scandisce ogni risveglio apatico, invaderà
prepotente ogni anfratto della coscienza, inasprendo l’impresa atavica di
emergere dalle coperte nel gelo del mattino, un piede e poi l’altro e via le
lenzuola; zoppicare fino al bagno e, in un’associazione mentale del tutto
involontaria, ripercorrere mentalmente l’ultimo pensiero, il nodo d’amarezza che
ha compiuto l’ultimo giro di ricognizione, prima che il cono d’ombra di un sonno
senza sogni allentasse la coscienza.
Lo
schiocco metallico dell’interruttore, e presto una luce debole di un ocra
sbiadito inonda le pareti assopite nella caligine del mattino presto, e proietta
quella squallida, mattutina sensazione di raccoglimento in quelle stanze che per
te definiscono il guscio immaginario che ti sigilla al riparo dall’incognita che
sta là fuori, dall’ansia di uscire
che, quasi come un paradosso, finisce per proiettarti fuori di casa ogni
mattino, nel ricamo di una pioggia sottile che minaccia di piegare i tuoi
passi.
Via,
via, entra e fatti un bagno caldo
c’è
un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo…
Ma
stamattina, il vento gira in direzioni inedite.
La
mente scevra di ogni riflessione accessoria, sorridi alla tua immagine allo
specchio: forse, stavolta l’aria ha un colore diverso.
Cipria,
la gatta persiana, si struscia voluttuosa sulle gambe
infreddolite.
È
diverso, perché non avverti la paura di ciò che sta là fuori, di un qualcosa che
non ha forma né odore, che non condiziona visibilmente la tua vita e non ti
impedisce di scandagliare tranquillamente la realtà: c’è solo il logorio
estenuante che sempre reca con sé, che si accontenta almeno di martellarti
dentro. Un sospiro.
La
gatta si stende sulla schiena, avida di carezze, e un concerto di fusa riscalda
il silenzio, il tepore del corpo sotto la mano fredda.
Lo
specchio ti rimanda indietro la tua immagine. Capelli d’un biondo indefinito,
contaminato dalla foschia cittadina, ruscellano piacevolmente sulla schiena, e
no, non sono così male; occhi scuri, sopracciglia sottili ritoccate con cura
certosina quasi a rendere evanescente l’espressione del viso, cristallizzata in
una piega altera; e poi le labbra carnose, il volto pallido e affilato
ritagliato in un profilo meno regolare di quel che
dovrebbe.
Uno
strato spesso di matita delinea le palpebre ampie; abiti che l’ordine che li
assembla è sancito dal caso e dalla fretta, vestono membra vagamente spigolose,
appena rinfrancate dal getto caldo della doccia. Una carezza a Cipria, e poi
via, fuori – oddio, le chiavi, mamma non ha ancora chiamato stamattina; il
cellulare è in tasca, sì, ce l’ho messo prima e sono sicura, il caffè me lo
faccio direttamente alle macchinette, anche se mezza tazzina di sciacquatura di
piatti riscaldata, di primo mattino, non è che sia una grande accoglienza.
Via.
È
il mondo, stamattina, la sua fotografia illusoria, a riflettere sembianze
diverse dal solito, come una proiezione inedita; il mondo ha cambiato direzione,
e non sai che cos’è, ma non sei abbastanza lucida da formularti la domanda,
perché l’autobus potrebbe lasciarti a piedi da un momento all’altro. Pensi di
aver urgente bisogno di una sigaretta, ma non c’è tempo.
Corri,
la mente sgombra, un passo e poi l’altro. La città vuota, vergine incontaminata
ritagliata nel marmo e nel cemento, il cielo brumoso appena albeggiato,
cangiante di pioggia rarefatta nell’aria. Non è poi così male. Pensi che anche
questo, dopotutto, ti piaccia.
Non
è male neppure il raggio di sole improvviso che ti costringe a serrare le
palpebre, il vago strofinio delle lenti a contatto schiaffate negli occhi ancora
stanchi, unico strascico della sonnolenza tentatrice che per dieci minuti
abbondanti ti ha ancorato dentro il letto. Ma non è come le altre volte, non
c’era quel peso indecifrabile sul cuore, quella sensazione di estraniamento che
accompagna il dubbio: il dubbio che non valga la pena di cacciarsi fuori dal
proprio torpore, che forse sia più salutare lasciare tutto là fuori, e al
diavolo tutto, senza pensieri – pensieri che tornano a scavare la voragine,
puntuali.
Nulla
di questo ti attraversa la mente. Vorresti dirlo, vorresti almeno domandartelo,
senza attendere necessariamente una risposta, e invece ti limiti a riflettere su
quanto ti sembri di muoverti nella caligine sottile di uno di quei sogni che al
risveglio lasciano un sapore dolce in punta di labbra.
Rideresti:
non ti importa dell’autobus pieno da scoppiare, dell’angolino di fortuna, del
brusio che sa di vita e ti si riversa intorno. Raramente un filo di vento è in
grado di decidere le sorti della valanga. Tutto sembra distante, incapace di
scalfirti. Paradossalmente. Fino a varcare il cancello, vittima compiaciuta di
quella che, pervasa da un filo di languore inspiegabile, appare come un sogno o
un’allucinazione. Il sole si fa largo impertinente tra le fronde alte di una
quercia, i raggi si infrangono in nastri di pulviscolo dorato che aprono un
varco tra le foglie. Imbocchi il piazzale sterminato con passo sicuro. Tutto scorre intorno a
me.
Potresti
dire, curiosamente, che
In
fondo non è tanto più complesso di recitare un copione di cui, di colpo, senti
di conoscere a memoria trame, personaggi e interpreti, le redini della tua
giornata strette con pugno fermo. Il controllo sulle emozioni come nozione
basilare.
E
oggi neppure la bella Accademia d’Arte Drammatica è la stessa cosa: uguale la
forma, uguali i contorni che delimitano la struttura severa, incombente; eppure,
se non potessi citare a tuo favore, base concreta di un’insindacabile certezza,
il fatto che la linea numero 8, cinque fermate a partire da casa, ti ha
scaricato proprio qui senza margine d’errore, ti domanderesti con tutta
probabilità se non abbia confuso la destinazione, se davvero siano sempre state
queste le sensazioni con cui l’oggetto, il luogo, l’atmosfera, l’entità concreta
si sia impressa in te. Se, raffrontando un prima e un dopo, non stia piuttosto
osservando due singoli ritratti dello stesso soggetto, diversa la luce che ne
scandisce le ombre e i profili, diverso il colore, la prospettiva, la
sensibilità che ha modellato le pennellate sulla tela.
Invece
c’è solo un raggio di sole che ti investe in pieno, l’ombra lunga che si staglia
davanti a te. Ammicchi al di là del piazzale, la sigaretta fumata a metà che
oscilla pigramente fra indice e medio, un brulichio crescente di voci che si
spandono nell’aria e un certo “fattaccio” dai contorni ancora oscuri che
rimbalza sulle bocche dei presenti.
L’ambiente che ti
circonda è tutto un mutare forma, mentre cerchi di metterne a fuoco i profili.
Puoi avvertire la cappa di tensione, il sapore d’ignoto che confonde le
percezioni. Nemmeno questo ti ferma. I sensi catturano nell’aria un’insolita
elettricità che sa di adrenalina.
Avida di sapere, distaccata dalle sensazioni più
vivide, quasi ti compiaci della freddezza con cui osservi la realtà che si
dispiega con rassegnazione davanti a te.
Eventi che ancora
non conosci, sentori nebulosi che puoi solo provare ad accarezzare in un lampo
particolarmente fervido d’immaginazione; lo sospetti – non del tutto, a dire il
vero –, ma sai che verrà. Un fermento
di cattive notizie dall’ampia portata, una caligine che pesa sulle
spalle.
L’ingresso
spalancato sul retro dell’edificio ti accoglie con un velo di grigiore notturno
residuo incollato alle pareti dei corridoi e delle aule spoglie di vita; il
linoleum dall’asettico color crema scorre sotto il tuo passo impassibile,
spedito. E poi arriva l’andirivieni incessante, il brusio soffuso che si solleva
nell’aria, che diviene indignazione, rabbia, rombo di protesta, valanga che
invischia ogni spazio, onda anomala che chiama battaglia.
Il volto
dell’Accademia è cambiato: non più studenti che si avviano ordinatamente alle
lezioni della mattinata, le ultime tracce di sonno appena visibili sui
volti.
Alcuni siedono in
crocchio nel piazzale sulle panche gelide. Conversano fra loro, il gesticolare
nervoso sancisce la sferza delle parole in ciò che sembra una critica feroce, un
moto d’ira, un’accusa al vetriolo che percuote l’aria; occhi che vibrano nelle
orbite stanche, sguardi sottili che corrono, strali invisibili alla ricerca del
colpevole su cui puntare il dito, del dettaglio appetitoso, di uno straccio di
indizio per gettare uno spiraglio di chiarezza sullo
scandalo.
Altri stanno in
piedi, nugoli irrequieti assiepati intorno all’ingresso principale come pronti a
uno scontro immaginario, gambe divaricate in una posa aggressiva, mani tese
nella smania d’agire, proiettili verbali che dalle labbra tirate cavalcano
l’onda dell’indignazione.
I più insidiosi
sono loro, loro che vagano senza posa come formiche spaventate in una strana
processione, dentro e fuori. Quasi in spregio al regolamento, qualche timida
voluta di fumo sale da alcune sigarette sfacciatamente accese. Un conversare
malizioso e soffuso percorre l’aria, il sapore di dolce far niente in una scuola
che oggi scuola non è: bordello, piuttosto – e allora, che senso ha prendersi il
disturbo di raggiungere l’aula, depositare le proprie cianfrusaglie e attendere
lezioni che non inizieranno?
Venduti,
pagliacci, corrotti. Schifosi.
Sogghigni: lo
scherno, il ridicolo sono armi potenti.
Ti è mai
importato qualcosa? Si scannino l’uno con l’altro: l’avresti detto, in quel
passato recente che sembra una foto sfocata; l’avresti detto quando ti
crogiolavi dietro lacrime dense e una disperazione che reca il germe della forma
peggiore di egoismo, veleno che alimenta una collera
impotente.
Se l’eco del
problema – e qualcosa di più complesso che non sai spiegarti – non fosse mai
venuto a scrollarti dall’apatia, esacerbare i fumi del rancore, sollecitare
l’eventualità di un riscontro personale e un umano
disgusto.
Oltre alla
rabbia, al brivido crudele di portare alla luce cumuli di carte false e carte
stracce – che solo ora vedono la luce del sole, ostentate con tracotante
orgoglio dai presunti fautori degli accordi dietro le quinte –, in quello che ho
fatto, credete, non c’è niente di eroico, niente di cui essere
orgogliosi.
Accarezzi la
porta dell’Aula Magna come una belva da ammansire, e sorridi, un sorriso freddo,
senza trasporto, perché la bambola inizia a camminare con le proprie gambe.
Una presunta
dirittura morale che tutti, ingenuamente, ritenevano scontata, non era che fumo
negli occhi, smaccata bugia, velo di Maya.
La promessa
spudorata di un vantaggio dal risvolto materiale ha catturato l’onda e investito
il dominio degli affetti, l’interiorità, fino all’illusione di una gioia
duratura. Una piega di collera mista a rammarico ti indurisce le labbra
arrossate dal gelo mattutino. Rapporti umani intessuti sotto le luci e le ombre
dell’ipocrisia, di un astuto, ineffabile contegno; sentimenti e merce di
scambio. Una bugia da cui deriva la costruzione di una felicità piena, pervasa
di un appagante calore, figlia di un impianto di menzogne ben
strutturato.
È forse colpa
mia, Loria, se instaurare dei rapporti non è roba per te? Io creo dal nulla,
cerco la chance, com’è giusto, normale che sia; di questo mi nutro. Tu sei
arida.
Io posso, tu
no.
Tu chiamali rapporti, cara stronza; chiamali
teatrini ben costruiti, impianto ingannevole di una recita a puntino. Chiamali
con il vero nome. Chiamalo leccare il culo!
“Sfigata” per
definizione che fa sua ogni causa persa, che rifiuta di accontentarsi di
guardare attraverso il velo e accettare con buona pace la propria inadeguatezza,
i calci nello stomaco di un’indifferenza che le è dovuta; leone dalle sembianze
ingannevoli di pecora, avvocato del diavolo, artista mascherato che gioca con la
sorte.
Sorridi ancora.
Un ghigno che gronda amarezza, una speranza dal profumo sconosciuto. Vendetta o
giusta ripicca? Non sei diversa da loro. Non è il tuo trionfo, anche se un tempo
avresti dato dieci anni della tua vita per carpire con occhi morbosi il momento.
Rivalsa dal sapore inconsistente che non porta a nulla, se non a scandire il
flusso delle sorti che mutano, salgono e poi crollano come castelli di carte; e
tu osservi tutto senza lasciarti sfiorare, spettatrice silenziosa della disfatta
di un nemico che forse non hai mai visto in faccia. Nulla di personale e
accoratamente tuo.
Il brusio ti
martella nelle tempie; le urla, le arringhe, scambio di prospettive vuote. È
l’onda anomala che giunge a destinazione.
A fatica ti fai
largo tra file di studenti assiepati per terra, gambe incrociate e sguardi di
fiamma. Un sibilo intenso ti riempie la testa, ma ti sforzi di ignorarlo. Il
mondo riprende a girare, ma la visuale è offuscata, allucinata, disattenta nel
cogliere un quadro d’insieme che non fugga i dettagli. L’andirivieni così
serrato e continuo da stordire.
E poi inerpicarsi
su per la scala a chiocciola al centro della sala, alla ricerca di una boccata
d’aria pulita e di un posto in prima fila.
A fatica
oltrepassi un paio di ragazzi che neanche ti prendi la briga di identificare, e
lì è il tuo posto di fortuna, la mente altrove, la tensione che
sale.
Il dado è
tratto.
* *
*
(Aggiornamento
26/10/2012: ho “unito” prologo e primo capitolo. La risposta alla recensione si
riferisce quindi a quella lasciata al prologo)
Passando ai
ringraziamenti, come non citare il bellissimo commento di AhiUnPoDiLui?
È un meraviglioso
complimento quello che hai fatto, perché hai centrato esattamente quel che
volevo tratteggiare in questo primo capitolo. Realtà e sogno sembrano
confondersi: ho voluto dare quest’impianto che sembra “velato” di nebbia e
scandisce il flusso dei pensieri, dell’interiorità del personaggio che si muove
sulla scena, delle atmosfere. Il paragone con il quadro impressionista… *.* Lì
ho gongolato, a dover essere sincera!^^
Grazie a tutti
coloro che hanno letto (nell’ombra), magari anche apprezzato (spero!) questa
storia che, in effetti, si discosta un po’ dal mio solito modo di scrivere,
mantenendone comunque viva l’impronta.
Alla
prossima!