Autore (sul Forum
e su EFP): claws_Jo/claws
Titolo:
Quasi della stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio,
zolfo, magnesio)
Fandom: One
Piece
Nome fiore:
Dalia (gratitudine)
Promt usati:
Caffè; Martello
Introduzione:
Anice aveva cominciato a interessarsi dei fenomeni naturali del
mondo dopo aver fatto saltare in aria un magazzino con alcuni suoi
amici.
NdA (facoltative):
Napapiiri
vuol dire Circolo Polare Artico in finlandese.
Tunturi
dovrebbe voler dire pernice, se non ricordo male.
Il
titolo è una
cosa balzana, perché ovviamente le stelle non sono fatte di
alluminio, zolfo e
magnesio. Spero che si riesca a capire a partire dalla lettura della
storia (se
non si capisce, non preoccupatevi: sono io che mi faccio le pare
mentali e
soprattutto non so trovare dei titoli normali).
Questa
storia
partecipa al contest L'Amore è
l’incontro tra due Fiori delicati! Yuri-Shoujo Ai contest
(Multifandom+ Originali), di zenzero91 –
link. Piazzarsi al terzo posto con questa storia è stato un vero piacere, essendo questo un piccolo esperimento! -w-
Buona lettura! C:
Quasi
della stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio, zolfo,
magnesio)
Poi,
da quando era
stata costretta a salire su una nave della Marina, si era comportata
bene, più
o meno. Uno degli uomini della nave su cui aveva messo piede le aveva
chiesto per
quale motivo fosse finita lì e da allora erano diventati
amici. L’uomo era uno
che adorava occuparsi delle armi della nave, dunque c’erano
buone possibilità
che il talento di Anice per la polvere esplosiva potesse tornar loro
utile.
La
polvere da
sparo le era piaciuta moltissimo fin dalla sua prima infanzia.
Be’, a quel
tempo erano fuochi artificiali, ma in ogni caso se ne era innamorata.
Non era
il fuoco a piacerle: era il miscelare le polveri prima dello
spettacolo, e poi
vederle nel cielo prendere le forme di fiori e animali; il rumore
assordante
dell’esplosione dopo che la polvere s’era consumata
alla velocità del fulmine;
la corsa per allontanarsi o il brivido nel coprirsi le orecchie. Il
fuoco era
solo un mezzo, ecco.
A
partire dalle
navi della Marina come addetta ai cannoni, Anice aveva trascorso molto
tempo in
coperta. Non le dispiaceva poi tanto, ma le mancava guardare il cielo
notturno
prima dei fuochi artificiali. Così, quando poteva,
sgattaiolava sul ponte e
stava a guardare le stelle. Una sera, mentre era lassù a
chiedersi se quella là
in fondo fosse la costellazione del Giaguaro o quella del Puma
(insomma, i due
animali avevano delle forme simili, nessuno poteva biasimarla, no?), si
rese
conto della propria piccolezza a confronto col cielo: l’unico
modo in cui aveva
potuto toccarlo e rendersi grande abbastanza da farsi
abbracciare dalle
stelle era stato sparare in alto dei missili di polveri di cui sapeva
qualcosa,
ma non tutto.
Le
venne un grande
magone. Non pianse, ma l’idea di studiare la volta celeste
sotto cui viveva le
apparve come la più sensata da quando aveva deciso di far
saltare in aria il
magazzino. La differenza tra le due scelte stava nella consapevolezza:
Anice,
quando aveva avuto diciotto anni, aveva fatto esplodere
l’edificio per puro
gusto, senza pensare che sarebbe potuta finire su una nave ad accendere
le
micce dei cannoni; in quel momento, cinque anni dopo (la punizione era
terminata molto tempo prima, ma la sua passione non s’era
spenta, per cui era
rimasta in servizio), si rese conto delle implicazioni della strada che
aveva
deciso di intraprendere.
La
nave su cui
prestava servizio si trovava vicino alle acque di Water Seven. Quando
attraccò,
Anice mise i piedi a terra con l’intento di rimanere
lì. Non aveva ideali di
giustizia tali da farla lavorare contro o assieme ai pirati:
l’unico
particolare che le dispiacque fu di lasciare Luost (l’amico
che le aveva
insegnato qualche trucchetto sulla polvere da sparo) e la propria
postazione a
bordo. Ma Luost stesso aveva approvato la scelta di Anice e
l’aveva spinta a
perseguire il suo sogno.
Com’è il mondo fuori dal mondo?,
si chiedeva. Aveva sentito parlare delle
isole nel cielo: ma dopo quelle, più in alto ancora, dove
c’era la luna, ecco:
dove c’era la luna, com’era stare lassù?
In che cosa galleggiava il loro mondo
(perché doveva galleggiare, non stava né cadendo
né salendo, doveva per forza
galleggiare, o fare qualcosa del genere!)? Galleggiava
nell’aria? E il sole? Le
stelle?
Era
così troppo che Anice si
rigirava su un
fianco, si sentiva vuota e piangeva – perché per
la prima volta era riuscita a
non piangere, ma le volte seguenti proprio non ce l’aveva
fatta, e da lì era
stata una discesa nelle lacrime
dell’incomunicabilità della sua tristezza celeste.
Anice
rimase a
Water Seven per alcuni altri anni. Il lavoro come carpentiere
l’aveva resa
ancora più grossa e muscolosa: alcuni dei suoi colleghi
dicevano che avrebbe
potuto essere una di quelle guerriere che accompagnano i morti
nell’aldilà,
perché erano guerriere alte, robuste e dall’aura
autorevole ma terrificante.
I
fatti della
Ciurma di Cappello di Paglia segnarono una svolta nella vita della
città. Erano
fatti piuttosto curiosi. Dopo qualche tempo dalle notizie della
liberazione del
Demone di Ohara e dalla partenza di Franky, Anice decise che per lei
era il
momento di partire di nuovo. Voleva cambiare aria, come si dice. Non
aveva
ancora capito in che cosa il mondo galleggiasse e questo la turbava
ancora, e
aveva la netta impressione che, una volta capito quello, avrebbe voluto
saperne
sempre di più, e dunque addio, vita tranquilla, eri finita
quando quel
magazzino saltò per aria. L’unico problema ora
rimaneva su quale nave imbarcarsi.
Dopotutto, lei poteva coordinare dei lavori di riparazione delle navi e
sporcarcisi un po’ le mani, ma non era la migliore in quel
campo e soprattutto
era una donna, e – può sembrar strano o meno
– questo non l’aiutava per nulla.
I carpentieri di Water Seven l’avevano accolta come si fa in
genere con una
bambina, e alla fin fine si erano affezionati a lei, per cui loro erano
un
conto diverso da tutto il mondo. Per gli altri era solo una ragazzona
sola e
molto ingombrante.
Un
giorno, però,
una nave della Marina attraccò, e giù dalle assi
scese un Luost invecchiato e
ignaro della presenza di Anice sull’isola. Inutile dire che,
quando vide una
donnona per gli edifici del porto, gridò il suo nome e si
riconobbero.
Luost
le raccontò
dei tre anni precedenti, da quando Anice aveva lasciato la nave,
davanti a un
bicchiere di birra. Quando Luost le chiese cosa avesse intenzione di
fare in
futuro, Anice gli disse che le sarebbe piaciuto ripartire, ma senza
dover
indossare le uniformi della Marina e senza portare una bandiera nera
sull’albero maestro. Ripartire senza dover sottostare agli
ordini dell’esercito
e senza infrangere la legge.
Luost
le disse
che, se avesse desiderato far così, avrebbe dovuto
semplicemente cercare una
nave mercantile, o una nave baleniera – o meglio ancora: una
nave tutta sua. Anice
ci aveva pensato, davvero. Il suo problema era che da sola si sarebbe
sentita…
sola. Non era un invito ad unirsi alla sua impresa, Luost ne era
consapevole:
era semplicemente una conseguenza di quella scelta.
«Tieniti
i
progetti per quella nave,» le disse Luost. «Intanto
fatti prendere su un
mercantile. Dal momento che ci sono un po’ di pirati, in
giro, una brava con la
polvere da sparo potrebbe tornare utile.»
Con
un po’ di
buona volontà (e qualche minaccia da parte dei carpentieri,
che dissero più
volte «Se non le date la possibilità di mostrare
cosa sa fare con una pistola,
la vostra nave ve la tenete rotta così
com’è») Anice fu imbarcata come marinaio
addetto alle armi di bordo sulla Limina.
I suoi vecchi compagni le avevano regalato il martello che lei aveva
usato in
cantiere, e che la accompagnò ancora a lungo.
La
Limina fu una
delle navi su cui prestò servizio nel giro di un anno e sei
mesi. Mentre
galleggiava sul mare, Anice si chiedeva che effetto potesse fare
galleggiare
nello spazio tra il mondo, il sole e la luna. Forse si sarebbe sentita
ancora
così: cullata dalle onde mentre l’amaca ondeggiava
a destra e sinistra.
Immaginando una grande amaca fatta di stelle e stringendo il martello
tra le mani,
Anice riusciva sempre ad addormentarsi.
Mentre
lavorava,
Anice trovava il tempo di leggere qualche pagina del giornale: fu
così che,
sulla Limina, venne a conoscenza della morte di Barbabianca e di uno
dei suoi
Comandanti a Marineford.
Il
suo unico commento
fu: «Se fossi morta a vent’anni, non avrei ancora
saputo cosa farne della mia
vita. Invece questo ragazzo lo sapeva eccome.»
Ma
una morte così
famosa, che rimase sulla bocca del mondo per un po’ di tempo,
la fece
riflettere sulla fine che facevano le persone quando morivano. Dove
vanno a
finire? Il loro corpo muore, si decompone e ritorna a essere un concime
fertile
per i fiori: ma la scintilla vitale, il soffio di vita che li faceva
muovere,
dove finisce?
Capì
allora che studiare
i fenomeni del mondo sarebbe entrato parecchio in contraddizione con
qualsiasi
spiegazione spirituale che le avevano dato da bambina.
Un
giorno, la nave
Napapiiri su cui stava lavorando
come
marinaio semplice si inabissò. Si stava dirigendo verso
l’isola degli uomini-pesce, e il viaggio dalla superficie a quell’isola era per
Anice una fonte di
meraviglia. Aveva con sé il suo libretto di appunti, che
aveva già riempito con
molte altre notizie del suo viaggio (aveva stressato un sacco il
poveretto che,
secondo Anice, doveva assolutamente
spiegarle come funzionava quella specie di resina secreta dalle
mangrovie
dell’arcipelago Sabaody).
«È
stato un
viaggio assurdo,» disse poi Anice a Tunturi. «A un
certo punto abbiamo visto un
polpo gigante che per un qualche oscuro motivo non ci ha attaccato. Non
avevo
mai visto tanti re del mare!»
«Ti
sei divertita,
eh?»
«Sì,
a pensarci
adesso, sì. Ma in quel momento avevo una gran
paura!»
C’era
molto buio,
negli abissi, come è giusto che sia, così lontani
dal sole. Anice, sulla
Napapiiri in quella bolla di salvezza, si chiese come potessero vivere
gli
uomini-pesce senza luce.
«A
pensarci ora,
mi chiedo come caspita pensavo di diventare una fisica. Non…
non ne ho la
testa. Pensavo che mi sarebbe bastata la voglia di sapere, ma quella
non basta.
Ho chiesto a quel ragazzo come potesse funzionare la bolla, e lui mi
disse
“Vuoi diventare una scienziata? E allora, perché
non lo cerchi di capire da
sola?!”, e mi sono arrabbiata tanto da dargli un cazzotto.
Solo che – non ci
riesco! Non riesco a capire come ha fatto quella bolla a portarci
giù. E come
fanno questi alberi a emanare luce!»
«Sei
un po’ un
fallimento, vuoi dire?»
«…
Sì. Grazie per
la consolazione, Tunt.»
«Scherzavo,
Anice.
Sai che penso che tu sia una buona osservatrice. Forse non ti hanno
insegnato
abbastanza perché tu possa spiegarti certe cose da sola, non
credi?»
«Tu
sei troppo
buona, Tunt.»
«Con
te, un po’
troppo.»
Anice
aveva
incontrato Tunturi sull’isola, dove era arrivata qualche
settimana dopo la
sconvolgente avventura della Noah e di Rufy Cappello di Paglia. I
pirati se ne
erano andati da qualche giorno, diretti nel Nuovo Mondo, quando la
Napapiiri
aveva attraccato. A quel punto Anice era rimasta senza lavoro ma con un
po’ di
berry in mano. Aveva deciso di festeggiare con un bel bicchiere di
qualcosa di
alcolico, prima di andare alla ricerca di un nuovo impiego che magari
le
permettesse di rimanere in quei luoghi: l'albero Eva che emanava
luce
era di una bellezza incredibile e lei aveva tutte le intenzioni del
mondo di
studiarlo almeno un pochino, se possibile. Il mistero era troppo
ghiotto.
Al
cafè l’aveva
servita proprio Tunturi, che le aveva spiegato la mancanza di molti
ingredienti
a causa della battaglia tra Cappello di Paglia e Hody.
«Hanno
tolto di
bocca i dolcetti a Big Mom, in pratica? Oh, bene. Grandioso. Devo
trovare un
nuovo impiego su un’altra nave prima che quella arrivi a fare
fuori l’intera
isola.»
«Non
sia così
pessimista,» aveva detto Tunturi quella volta, in veste di
cameriera. «L’isola
al momento è contesa tra Cappello di Paglia e Big Mom. Dopo
aver visto quello
che hanno fatto Rufy e gli altri, ho l’impressione che saremo
al sicuro.»
«Se
lo dice lei.
Non ero qui quando è successo, quindi non posso
dirlo.»
Tunturi
aveva
sorriso timidamente prima di «Mi scusi, signorina»
fare un giro dei tavoli e
controllare che tutti i clienti fossero stati serviti.
La
Napapiiri
ripartì per le isole Sabaody senza Anice, che –
nonostante le minacce di Big
Mom – aveva deciso di rimanere sull’isola.
C’era tanta richiesta di manodopera
per ricostruire gli edifici di mezza isola, dunque si rese utile
trasportando
materiale e aiutando, come poteva, gli ingegneri e i geometri.
La
soddisfazione
più grande per Anice, ovviamente, era stata far esplodere
quegli edifici
cadenti di cui era rimasta in piedi solo una parte dei muri. Aveva
accuratamente evitato di dire che le piaceva molto far saltare in aria
le cose:
piuttosto, aveva pronunciato qualcosa di incomprensibile su cinque anni
passati
nella Marina a sparare coi cannoni e le pistole. Quando le permisero di
mettersi all’opera (era intervenuto uno dei Principi per
calmare la popolazione
inquieta), Anice capì in che posto fosse finita e in quale
tempo: non era
facile fidarsi degli umani. Soprattutto quando si mettevano a
sproloquiare su esplosivi
e polveri da sparo.
«Mai
odiato gli
umani, signorina?»
«…
Sì.» Sussurrò
Tunturi.
«Ma
li odia
ancora?» Chiese Anice.
«No.
Ora ne ho
paura. Un po’, perlomeno. Ma è la paura che si ha
un po’ per tutto.»
«Un
po’.»
«Mi
fa il verso,
per caso?»
«Forse.
Un po’, ma
poco poco, perlomeno.»
Tunturi
le servì
il caffè bollente versandogliene un
po’
sulla maglietta.
«Mi
scusi!»
«No,
no, non è
colpa sua, è-» Anice la guardò per
bene. La cameriera stava sorridendo sotto i
baffi – anzi, sotto le branchie, come si diceva da quelle
parti. «No, rettifico:
è proprio colpa sua.»
«Un
po’. Ma un po’
è colpa sua, che mi fa il verso.»
Presa
in
contropiede, Anice alzò le mani come se qualcuno dovesse
arrestarla. «Mi
arrendo davanti alla sua ferrea logica. Ora, me ne può
portare un altro?»
La
cameriera
annuì, sorridendo. Anice non capiva bene quella sirena, ma
in ogni caso doveva
pensare alla giornata di lavoro che aveva davanti (chiodi
martello malta cazzuola il pranzo soprattutto). E la
paga che ne sarebbe seguita. Non
dimentichiamo mai i soldi, per favore, pensò
Anice, mentre le veniva
portato un altro caffè. «Grazie.»
Be’,
anche a lei
facevano paura gli umani. Soprattutto gli uomini, e soprattutto quando
le
mettevano le mani addosso – il che successe anche dopo Water
Seven, dove aveva
sviluppato dei muscoli che avrebbero messo i piedi al posto della testa
a
qualsiasi umano di basso livello morale (protetti del Diavolo a parte,
però
quelli si curavano poco di lei e molto di più o dello One
Piece o dei pirati).
Chissà
com’è non
poter più nuotare, pensò Anice. E poi, se
l’intero mondo galleggia (in cosa
galleggi è ancora da stabilire), come fanno a trovarsi in
sintonia con il
mondo? Forse è per quello che vengono chiamati Frutti del
Diavolo: è perché non
si può più galleggiare insieme al resto, si
è maledetti, la propria linea
vitale non segue più le onde del mare che equilibrano il
mondo. Però, io li ho
visti, gente indiavolata che aveva dei sentimenti diciamo giusti.
Comprensibili. Moralmente condivisibili. Quelli di Cappello di Paglia,
ad
esempio.
«Lei
ha mai visto
una sirena che non può più nuotare? Per colpa di
quei Frutti del Diavolo?»
«No,
non ne ho mai
vista una.»
Forse
non è così:
forse chi è protetto del Diavolo può costruire la
propria linea senza seguire
quella delle onde infinite. Questo vuol dire che—che io sono
la marionetta in
un teatro di pupazzi? Ma no. Io, quella scelta di far saltare il
magazzino –
l’ho fatta io, me lo ricordo. E quando Luost mi ha spiegato
come ripulire i
cannoni per ricaricarli e come evitare di farmi ammazzare dal rinculo,
ero io
che avevo scelto di rimanere su quella nave.
Però,
così,
saltava per aria non solo un magazzino, ma tutta la sua idea intera del
galleggiamento del mondo.
No,
no, sono due
cose diverse. Non metterle tutte e due insieme.
«Mai
mettere
insieme nitro e glicerina, Anice. Queste due assieme fanno partire non
solo il
cannone, ma l’intera nave. E non va bene per nulla.
D’accordo?»
«Sì,
Luost.»
«Sì,
Anice. Ti
avrei detto sì anche prima.»
Ad
Anice
improvvisamente girò la testa. Oppure le girava da molto
tempo, ma solo allora
si era fermata e lei aveva sentito il male nel cervello e nelle
orecchie.
«Sta
bene? Sta
bene?! Signorina!» Era la voce della cassiera del
cafè. «Fate spazio, per
favore!»
Dov’era
la sua
guerriera dell’aldilà che veniva a prenderla per
portarla via? Non c’era
nessuna guerriera. Quindi, o non era ancora morta, oppure anche quella
storia
era una sciocchezza bella e buona.
«Mi
sente? Come si
chiama, signorina?»
«Nennnng—Anice.
Anice, mi chiamoooohrg—la testa!»
«Va
bene. Che
giorno è oggi?»
«Lun—dì?»
«No,
quello non se
lo ricorda mai, lo so io,» si aggiunse un’altra
voce nella sua testa, forse
quella della cameriera che la serviva sempre. «Anice, quanto
la pagano?»
«S—»
«Quello
è privato!
Non si dice!»
«Oh,
insomma! Fate
spazio! Deve respirare!»
«—to
berry… Ma non
mi hanno pagato, ieri!»
E
allora Anice
saltò su, si rizzò come un rastrello davanti a un
povero malcapitato che ha
messo il piede sulle sue punte di metallo (e che si vede arrivare in
faccia una
stecca di legno capace di uccidere). «I miei soldi!»
«Le
cose
importanti si ricordano sempre, vero?»
Era
stata la sua
cameriera abituale a parlare di nuovo. Era chinata al fianco di Anice e
sorrideva, felice di sapere che era stato solo un capogiro. I clienti
del
locale si erano sistemati a raggiera attorno a loro e stavano fissando
Anice con degli sguardi
preoccupati.
«Mi
spiace, non
volevo spaventarvi. Mi capita, di tanto in tanto.»
«Sentito?
Circolare!»
Urlò la cassiera, che aveva una voce bellissima e terribile.
«Lo spettacolo è
finito!»
La
cameriera aiutò
Anice ad alzarsi. «Non è stato bello vederla
finire a terra in quel modo,
Anice.»
«No,
in effetti
non è stato bello. Mi capita una volta al mese,
prima… sono dolori normali, per
una donna umana. Io ce li ho solo molto accentuati. Mi sono dimenticata
di
comprare delle medicine apposta.»
«Capisco,»
rispose
la sirena. «Anice, mi chiamo Tunturi. Le offro io il
caffè, stamattina.»
«Non
mi potrebbe offrire
un cappuccino e una brioche? È stato un risveglio
stressante, dopotutto.»
Tunturi
sorrise.
«Certo.»
Profonda
gratitudine per quella sirena.
Da
quando era
diventata l’attrice di uno spettacolo imprevisto –
e la colpa era tutta del suo
ciclo mestruale tremendo –, Anice aveva cominciato a
osservare Tunturi. La
cameriera che aveva visto come prima cosa da quando aveva finito di
spaventare
tutti, ecco, lei: Anice aveva cominciato a osservarla. Prima era solo
un mezzo,
come il fuoco: il suo mezzo per arrivare al caffè. Adesso
Tunturi era diventata
il rumore assordante dei fuochi artificiali: quando c’era,
c’era soltanto lei.
Il
mondo si
azzittiva come durante un’opera teatrale in cui Anice era
sola in scena e
cominciava a borbottare, balbettare e a sudare orrendamente sotto
l’unica luce
bianca del palcoscenico.
Chissà
che cosa
direbbe Luost, pensò Anice. Sicuramente, qualcosa come:
«Da te me l’aspettavo,
Anice, non hai mai accettato le mie avances e questo significa solo una
cosa.»
Aveva
le squame
azzurre, Tunturi.
«Non
si chiamano
squame, ma scaglie,» protestò Tunturi,
«ricordatelo. Scaglie, non squame.»
E
i capelli scuri,
e gli occhi scuri, ed era piccina, rispetto ad Anice.
Se
Anice era, come
diremmo noi, una valchiria, allora Tunturi era—
Indefinibile,
pensò Anice, passandosi una mano sulla fronte e poi sui
capelli, per levarsi il
sudore dalla testa, dal cervello, si sarebbe strappata i capelli se
avesse
trovato una sola parola che mettesse Tunturi in una categoria. Una
qualsiasi
categoria. Le sfuggiva come— come il mondo che galleggia.
Come i protetti del
Diavolo. Come l’albero Eva. Come ogni fenomeno che avrebbe
voluto studiare, ma
per cui non aveva testa (o tecnica, come dirà Tunturi, un
giorno).
Pensò
a quel
ragazzo figlio di Barbabianca che era morto a vent’anni, e
disse—
«Se
fossi morta a
vent’anni non sarei mai finita qui e non sarei mai svenuta
nel mezzo di un cafè
e non mi sarei mai innamorata.»
Non
lo disse con
cattiveria; lo disse con un po’ di dolcezza, di compassione
per chi era morto e
di gratitudine perché lei era ancora viva, e lo disse tutto
con un respiro
solo.
Lo
disse
(soprattutto!) mentre stava portando tre sacchi di gesso sulle spalle
come se
fossero tre piume da mettere su un cappello di alta moda. Era in mezzo
agli
operai, a uomini-pesce, tritoni, ed esseri umani. Indovinate chi
fischiò.
Be’,
tutti quanti,
che c’è da dire? Fischiarono tutti e il fischio si
propagò come un’onda
gigantesca, come un’Acqua Laguna sonora.
Le
diedero di
gomito finché non si scusò (e perché
devo scusarmi, poi, la colpa è loro!) e
scappò via dal cantiere. I fischi la accompagnarono fino al
cafè, a cui era
arrivata dopo una corsa che serviva a distenderle più i
nervi che le gambe.
«Dovevano
chiamarlo Un po’ di maretta,
questo
posto, non Un po’ di mare,
visto il
mal di stomaco che mi fa venire. Scommetto che è tutta colpa
di Tunturi, se
l’hanno chiamato così. Non fa altro che dire un po’, un po’.»
C’era
qualche
cliente nel locale, ma stavano per chiudere per una pausa di
un’ora, prima del
traffico serale.
Tunturi
era lì
dentro e stava ripulendo un bicchiere, o una tazza, Anice aveva la
vista
annebbiata, o forse era il suo cervello a confonderla perché
ci godeva, quello
stronzo del suo cervello Martino, nel metterla in difficoltà.
Insomma,
stava
pulendo qualcosa. Poteva intervenire, no?
Martino,
maledetto, batti un colpo! Fammi sapere che ci sei e che non mi
abbandonerai
così!
«Ehi,
Anice!
Ciao!»
Ah,
è vero, erano
passate al tu, qualche tempo fa. Dopo il giorno del capogiro. Quanto
tempo era
trascorso? Le sembrava una vita, praticamente, ma doveva essere un
mese, più o
meno. Aveva conservato il giornale di quel giorno perché
c’era scritto che
Jinbe aveva preso un rapitore di sirene e lo aveva conciato per bene.
Più tardi
avrebbe controllato.
«Aeh,
ciao,
Tunturi. Uhm. Ti disturbo?»
«Stiamo
per
chiudere. Volevi un caffè?»
«No,
no, sono qua
per parlarti.»
Non
esiste una
medicina per l’annebbiamento del cervello? Un Martibiotico,
per esempio?
Tunturi
aspettava,
ma nel frattempo finiva di ripulire i cucchiai e le forchette da dolce.
«Sì?»
Disse, dopo qualche minuto.
Le
conversazioni
importanti hanno sempre una parte di chiacchierata stupida, si disse
Anice, ora
la parte stupida è passata e quindi devo dire le cose
importanti. Quelle
importanti. Che mi importano. Importeranno anche a lei?
Boh,
si rispose.
Indefinibile.
«Vorresti
uscire
con me?»
Non
erano le
quattro parole che voleva, ma importava il contenuto. Il significato.
Quello.
Avrebbe voluto dire Ti amo sposami Tunt,
ma effettivamente ci avrebbe messo più tempo. Non nel senso
che ci avrebbe
impiegato sette secondi invece di sei, ma nel senso che avrebbe voluto
essere
sicura di quello che stava dicendo, e per esserlo ci voleva
più tempo.
Tunturi
sorrise,
ma— era il sorriso più bello di tutto il mondo, di
tutta la luna, il sole, le
stelle, di tutti i fenomeni che Anice avrebbe voluto studiare ma che
ancora non
aveva studiato. Luost le avrebbe dato una fenomenale
pacca sulla spalla. «Un po’,
sì.» Rispose.
«Quando?»
«Ho
un’ora libera
tra due minuti. Che ne dici?»
Anice
sorrise e
annuì con convinzione. «Sì. Il mondo
galleggia e i protetti del Diavolo stanno
costruendo la loro strada come io voglio costruire la mia.»
Poi si accorse di
aver parlato, non di aver pensato.
«Con te, spero volessi
aggiungere.»
«Sì.
Giuro. Ero
solo imbarazzata. Quanto manca alla fine dei due minuti?»
«Un
po’.»
Era
una piacevole
tortura fonetica, quella.
Erano
tutti
fenomeni: il sole, le stelle, l’albero Eva, tutti fenomeni
che forse non
sarebbe riuscita a studiare, nella sua vita.
Anche
Tunturi era
un fenomeno – sia chiaro, era fenomenale, ma era pure un
fenomeno molto
interessante, soprattutto per Anice. Anice poteva studiarla e Tunturi
non
glielo impediva.
Non
la studiava
nella maniera a cui tutti state pensando, o perlomeno, un
po’, forse—
Tunturi
non aveva
tutte le risposte del mondo, anche se Anice le aveva cercate in lei
partendo
dalle basi: ad esempio, partendo dalla fantomatica domanda
«Ma l’albero Eva
come fa a emettere luce?» fino alla «Mi
sposeresti?» di qualche anno
successiva.
Anice
ringraziava
ogni giorno di aver fatto saltare in aria quel magazzino.
«Le
stelle. Tu le
hai mai viste, Tunt?»
Stavano
nel loro
letto, ma Anice non prendeva sonno. Quando questo succedeva, aveva la
brutta
abitudine di rotolare fino ai fianchi di scaglie di Tunturi e di
abbracciarla,
infilando la testa in mezzo ai suoi capelli scuri.
«Penso
sempre alle
stelle quando non riesco a dormire.» Disse ancora Anice.
«Allora,»
incalzò
Tunturi, «perché non ci stavi pensando? Pensavi a
me, per caso?»
«A
entrambe. Sono—sono
le cose che mi hanno fatto partire da casa. Se non fosse stato per
loro, non
avrei mai deciso di studiare il cielo e le cose del mondo e non sarei
mai
arrivata qua da te.»
«Allora
le
ringrazio. E visto che qui ci sono un po’ di cose
interessanti, immagino che
non te ne andrai via presto, o mi sbaglio?»
«Giusto.»
Anice
mise le mani nei capelli di Tunturi e se li annodò tra le
dita. «Quando avrai
due piedi, andremo in superficie? Voglio farti vedere le stelle. Solo
una
visita. Andiamo a visitare i miei genitori. Non li sento da una vita,
visto che
siamo così distanti mandare le lettere è come
buttare un messaggio in bottiglia
nelle fasce di bonaccia.»
«Stai
parlando un
po’ troppo, per l’orario in cui siamo.»
«Hanno
la mia
vivre card. Andiamo a trovarli, un giorno, quando avrai due
piedi?»
«Sì.
Va bene. Ora
dormi.»
Anice
non si
credeva pienamente realizzata: aveva la sensazione di essere congelata, sul fondo del
mare, perché
non poteva vedere il cielo che sta sulla testa di tutti. No,
più che congelata
per anni, pensava di essere come un chiodo battuto dal martello dentro
un’asse di
legno: con la testa a pelo d’aria, ma senza poter vedere al
di fuori della
bolla di legno in cui si trovava; colpita ripetutamente dal martello
fino a che
non si era inabissata nel legno e lì era rimasta, senza
vedere quello che c’era
al di fuori; in alto; sopra. Era consapevole del fatto che al di fuori
dell’isola
degli uomini-pesce ci fosse il suo torturatore celeste, eppure lei si
trovava
lì, appesa, come un chiodo battuto dal martello, o dal tacco
di una scarpa
(Water Seven e i suoi carpentieri le avevano decisamente lasciato un
segno
nella mente e nelle mani).
Una
volta tornata
in superficie, si sarebbe sentita viva di nuovo; una volta viste di
nuovo le
stelle, l'avrebbe colta ancora la sensazione dell'esser piccola, inutile, insignificante, e
avrebbe
pensato per l'ennesima volta Voglio conoscervi
perché
la mia ignoranza mi porta infinita tristezza. Avrebbe fatto
partire altri
fuochi artificiali per far sapere a Luost che stava bene, benissimo,
con
Tunturi.
Ora
quell’isola le
stava troppo stretta, o lei era invecchiata troppo, la sua testa si era
arrugginita e lei aveva un terribile bisogno di uscire da lì
e rivedere la
superficie terrestre. Si osservava e si vedeva vecchia e logora, aveva bisogno
di— di essere
tirata fuori da lì.
Il
suo sentirsi
incompleta e invecchiata non le faceva amare meno Tunturi. Forse era
vero il
contrario. Ma proprio perché le voleva bene voleva farle
vedere il cielo,
condividerlo con lei, farle capire che quella cosa sopra di loro era
una fonte
di inesauribile meraviglia e dolore, e che studiare il
cielo—studiare il cielo
aveva attenuato il suo mal di cuore.
Partire
per il
fondo dell’oceano – dopo anni l’aveva
capito! – era stata una reazione
inconscia alla sofferenza che provava nell’alzare lo sguardo
verso una distesa
di cielo scuro. Grazie a quella reazione, poteva risalire sul liscio
del mare e
guardare Tunturi per dirle che quello lassù le faceva male,
e che lei era stata
la sua medicina, la sua pagliuzza a cui aggrapparsi: ma la pagliuzza le
era
scivolata di mano ed era finita sul terreno e da essa era cresciuta una
piantina umilissima, ma vogliosa di diventare più alta.
Quando
Anice disse
tutto questo a Tunturi, quando dalla coda di scaglie di Tunturi si
erano biforcate due
gambe bellissime e chiare ed erano risalite in superficie; ecco, allora
Tunturi sorrise,
prese le mani di Anice e rispose alla compagna –
perché Anice, con quel
discorso, voleva una risposta.
«Ringrazio
le
stelle che ti hanno portato da me. Ma le rimprovero, perché
ti fanno del male.
Ammetto che non capivo il tuo dolore, ma ne avevo paura. Ora capisco
che è un
dolore che nasce dalla bellezza stupefacente del mondo e che neanche
l’amore
riesce a curarlo.»
«Non
lo cura, ma
lo allevia.»
Non
sei mai stata
il sostituto di nulla, Tunt. Sei stata la mia salvatrice. Lo sai. Lo
devo dire?
Scoprire tutto del mondo non allevierebbe il dolore della tua perdita,
se ne
fossi io la causa.
Non
lo disse.
Tunturi
dovette
intuirlo, però, perché sorrise amabilmente,
massaggiando le mani di Anice, che
teneva tra le proprie. «Lo so, Anice. Adesso lo so anche io.
Ho guardato il
cielo una volta sola e ho paura di guardarlo di nuovo.»
«Fa
quest’effetto,
sì.»
Note Autrice:
Anice
e Tunt sono
così tenere che boh. Also Luost. Si ringraziano i Nightwish
per avermi ispirato
questa storia a cui tengo un sacco: la loro canzone che mi ha accompagnato e che accompagna la storia è Shudder Before the Beautiful. Si ringrazia in particolare Floor
Jansen
(la cantante dei Nightwish) perché io Anice me la immagino
come lei, ma bionda.
La mia valchiria (a)dorata.
Questa
storia non
è stata scritta in funzione del contest, si era praticamente
scritta da sola
qualche mese fa, ma vedendo che c’era un contest shojo-ai,
scusatemi, non ho
potuto resistere. Adoro lo shojo-ai, soprattutto in One Piece. Fortuna
ha
voluto che, a parte qualche passaggio che ho sistemato, la storia fosse
abbastanza calzante al contest già di suo. Piango lacrime
metal.
Se
ci sono
imprecisioni è perché sono distratta. Scusate.
Avvisatemi e rimedierò.
È una sorta di
esperimento, questa storia.
Non è il mio solito stile, sto diventando decisamente
più incasinata, non so
se nel bene o nel male. (Sicuramente nel male! Mannaggia.)
Spero vi sia piaciuta! C:
claws_Jo
Il manga One Piece è di proprietà di Eiichiro Oda.