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Autore: claws    06/09/2015    2 recensioni
Anice aveva cominciato a interessarsi dei fenomeni naturali del mondo dopo aver fatto saltare in aria un magazzino con alcuni suoi amici.
[OFC/OFC][≈5000 parole]
[Terza classificata al contest "L'Amore è l’incontro tra due Fiori delicati! Yuri-Shoujo Ai contest (Multifandom+ Originali)" di zenzero91]
[Nomination per Miglior Colonna Sonora e Menzione Speciale agli Oscar EFpiani 2016]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore (sul Forum e su EFP): claws_Jo/claws

Titolo: Quasi della stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio, zolfo, magnesio)

Fandom: One Piece

Nome fiore: Dalia (gratitudine)

Promt usati: Caffè; Martello

Introduzione: Anice aveva cominciato a interessarsi dei fenomeni naturali del mondo dopo aver fatto saltare in aria un magazzino con alcuni suoi amici.

NdA (facoltative): Napapiiri vuol dire Circolo Polare Artico in finlandese. Tunturi dovrebbe voler dire pernice, se non ricordo male.

Il titolo è una cosa balzana, perché ovviamente le stelle non sono fatte di alluminio, zolfo e magnesio. Spero che si riesca a capire a partire dalla lettura della storia (se non si capisce, non preoccupatevi: sono io che mi faccio le pare mentali e soprattutto non so trovare dei titoli normali).

Questa storia partecipa al contest L'Amore è l’incontro tra due Fiori delicati! Yuri-Shoujo Ai contest (Multifandom+ Originali), di zenzero91 – link. Piazzarsi al terzo posto con questa storia è stato un vero piacere, essendo questo un piccolo esperimento! -w-

Buona lettura! C:

















Quasi della stessa materia di cui sono fatte le stelle (alluminio, zolfo, magnesio)












 Anice aveva cominciato a interessarsi dei fenomeni naturali del mondo dopo aver fatto saltare in aria un magazzino con alcuni suoi amici.

Poi, da quando era stata costretta a salire su una nave della Marina, si era comportata bene, più o meno. Uno degli uomini della nave su cui aveva messo piede le aveva chiesto per quale motivo fosse finita lì e da allora erano diventati amici. L’uomo era uno che adorava occuparsi delle armi della nave, dunque c’erano buone possibilità che il talento di Anice per la polvere esplosiva potesse tornar loro utile.

La polvere da sparo le era piaciuta moltissimo fin dalla sua prima infanzia. Be’, a quel tempo erano fuochi artificiali, ma in ogni caso se ne era innamorata. Non era il fuoco a piacerle: era il miscelare le polveri prima dello spettacolo, e poi vederle nel cielo prendere le forme di fiori e animali; il rumore assordante dell’esplosione dopo che la polvere s’era consumata alla velocità del fulmine; la corsa per allontanarsi o il brivido nel coprirsi le orecchie. Il fuoco era solo un mezzo, ecco.

A partire dalle navi della Marina come addetta ai cannoni, Anice aveva trascorso molto tempo in coperta. Non le dispiaceva poi tanto, ma le mancava guardare il cielo notturno prima dei fuochi artificiali. Così, quando poteva, sgattaiolava sul ponte e stava a guardare le stelle. Una sera, mentre era lassù a chiedersi se quella là in fondo fosse la costellazione del Giaguaro o quella del Puma (insomma, i due animali avevano delle forme simili, nessuno poteva biasimarla, no?), si rese conto della propria piccolezza a confronto col cielo: l’unico modo in cui aveva potuto toccarlo e rendersi grande abbastanza da farsi abbracciare dalle stelle era stato sparare in alto dei missili di polveri di cui sapeva qualcosa, ma non tutto.

Le venne un grande magone. Non pianse, ma l’idea di studiare la volta celeste sotto cui viveva le apparve come la più sensata da quando aveva deciso di far saltare in aria il magazzino. La differenza tra le due scelte stava nella consapevolezza: Anice, quando aveva avuto diciotto anni, aveva fatto esplodere l’edificio per puro gusto, senza pensare che sarebbe potuta finire su una nave ad accendere le micce dei cannoni; in quel momento, cinque anni dopo (la punizione era terminata molto tempo prima, ma la sua passione non s’era spenta, per cui era rimasta in servizio), si rese conto delle implicazioni della strada che aveva deciso di intraprendere.

La nave su cui prestava servizio si trovava vicino alle acque di Water Seven. Quando attraccò, Anice mise i piedi a terra con l’intento di rimanere lì. Non aveva ideali di giustizia tali da farla lavorare contro o assieme ai pirati: l’unico particolare che le dispiacque fu di lasciare Luost (l’amico che le aveva insegnato qualche trucchetto sulla polvere da sparo) e la propria postazione a bordo. Ma Luost stesso aveva approvato la scelta di Anice e l’aveva spinta a perseguire il suo sogno.





Il treno di Water Seven era uno strumento estremamente affascinante, per Anice. La città era famosa per i suoi carpentieri, e dunque decise che, se proprio le fosse andata male, avrebbe cominciato a lavorare con loro. Non le mancava la voglia di fare. Lavorando in un cantiere scoprì molte delle più semplici leggi della fisica – e diciamocelo, anche un po’ di cose sulle navi (la chiglia rimaneva la sua parte preferita di una nave). Dormiva in cantiere su un’amaca che si era costruita con delle reti da pesca, e sognava il cielo sopra di lei, con un po’ di invidia e di tristezza.

Com’è il mondo fuori dal mondo?, si chiedeva. Aveva sentito parlare delle isole nel cielo: ma dopo quelle, più in alto ancora, dove c’era la luna, ecco: dove c’era la luna, com’era stare lassù? In che cosa galleggiava il loro mondo (perché doveva galleggiare, non stava né cadendo né salendo, doveva per forza galleggiare, o fare qualcosa del genere!)? Galleggiava nell’aria? E il sole? Le stelle?

Era così troppo che Anice si rigirava su un fianco, si sentiva vuota e piangeva – perché per la prima volta era riuscita a non piangere, ma le volte seguenti proprio non ce l’aveva fatta, e da lì era stata una discesa nelle lacrime dell’incomunicabilità della sua tristezza celeste.

Anice rimase a Water Seven per alcuni altri anni. Il lavoro come carpentiere l’aveva resa ancora più grossa e muscolosa: alcuni dei suoi colleghi dicevano che avrebbe potuto essere una di quelle guerriere che accompagnano i morti nell’aldilà, perché erano guerriere alte, robuste e dall’aura autorevole ma terrificante.

I fatti della Ciurma di Cappello di Paglia segnarono una svolta nella vita della città. Erano fatti piuttosto curiosi. Dopo qualche tempo dalle notizie della liberazione del Demone di Ohara e dalla partenza di Franky, Anice decise che per lei era il momento di partire di nuovo. Voleva cambiare aria, come si dice. Non aveva ancora capito in che cosa il mondo galleggiasse e questo la turbava ancora, e aveva la netta impressione che, una volta capito quello, avrebbe voluto saperne sempre di più, e dunque addio, vita tranquilla, eri finita quando quel magazzino saltò per aria. L’unico problema ora rimaneva su quale nave imbarcarsi. Dopotutto, lei poteva coordinare dei lavori di riparazione delle navi e sporcarcisi un po’ le mani, ma non era la migliore in quel campo e soprattutto era una donna, e – può sembrar strano o meno – questo non l’aiutava per nulla. I carpentieri di Water Seven l’avevano accolta come si fa in genere con una bambina, e alla fin fine si erano affezionati a lei, per cui loro erano un conto diverso da tutto il mondo. Per gli altri era solo una ragazzona sola e molto ingombrante.

Un giorno, però, una nave della Marina attraccò, e giù dalle assi scese un Luost invecchiato e ignaro della presenza di Anice sull’isola. Inutile dire che, quando vide una donnona per gli edifici del porto, gridò il suo nome e si riconobbero.

Luost le raccontò dei tre anni precedenti, da quando Anice aveva lasciato la nave, davanti a un bicchiere di birra. Quando Luost le chiese cosa avesse intenzione di fare in futuro, Anice gli disse che le sarebbe piaciuto ripartire, ma senza dover indossare le uniformi della Marina e senza portare una bandiera nera sull’albero maestro. Ripartire senza dover sottostare agli ordini dell’esercito e senza infrangere la legge.

Luost le disse che, se avesse desiderato far così, avrebbe dovuto semplicemente cercare una nave mercantile, o una nave baleniera – o meglio ancora: una nave tutta sua. Anice ci aveva pensato, davvero. Il suo problema era che da sola si sarebbe sentita… sola. Non era un invito ad unirsi alla sua impresa, Luost ne era consapevole: era semplicemente una conseguenza di quella scelta.

«Tieniti i progetti per quella nave,» le disse Luost. «Intanto fatti prendere su un mercantile. Dal momento che ci sono un po’ di pirati, in giro, una brava con la polvere da sparo potrebbe tornare utile.»

 

 

 





Con un po’ di buona volontà (e qualche minaccia da parte dei carpentieri, che dissero più volte «Se non le date la possibilità di mostrare cosa sa fare con una pistola, la vostra nave ve la tenete rotta così com’è») Anice fu imbarcata come marinaio addetto alle armi di bordo sulla Limina. I suoi vecchi compagni le avevano regalato il martello che lei aveva usato in cantiere, e che la accompagnò ancora a lungo.

La Limina fu una delle navi su cui prestò servizio nel giro di un anno e sei mesi. Mentre galleggiava sul mare, Anice si chiedeva che effetto potesse fare galleggiare nello spazio tra il mondo, il sole e la luna. Forse si sarebbe sentita ancora così: cullata dalle onde mentre l’amaca ondeggiava a destra e sinistra. Immaginando una grande amaca fatta di stelle e stringendo il martello tra le mani, Anice riusciva sempre ad addormentarsi.

Mentre lavorava, Anice trovava il tempo di leggere qualche pagina del giornale: fu così che, sulla Limina, venne a conoscenza della morte di Barbabianca e di uno dei suoi Comandanti a Marineford.

Il suo unico commento fu: «Se fossi morta a vent’anni, non avrei ancora saputo cosa farne della mia vita. Invece questo ragazzo lo sapeva eccome.»

Ma una morte così famosa, che rimase sulla bocca del mondo per un po’ di tempo, la fece riflettere sulla fine che facevano le persone quando morivano. Dove vanno a finire? Il loro corpo muore, si decompone e ritorna a essere un concime fertile per i fiori: ma la scintilla vitale, il soffio di vita che li faceva muovere, dove finisce?

Capì allora che studiare i fenomeni del mondo sarebbe entrato parecchio in contraddizione con qualsiasi spiegazione spirituale che le avevano dato da bambina.

 

 

 





Un giorno, la nave Napapiiri su cui stava lavorando come marinaio semplice si inabissò. Si stava dirigendo verso l’isola degli uomini-pesce, e il viaggio dalla superficie a quell’isola era per Anice una fonte di meraviglia. Aveva con sé il suo libretto di appunti, che aveva già riempito con molte altre notizie del suo viaggio (aveva stressato un sacco il poveretto che, secondo Anice, doveva assolutamente spiegarle come funzionava quella specie di resina secreta dalle mangrovie dell’arcipelago Sabaody).

 


«È stato un viaggio assurdo,» disse poi Anice a Tunturi. «A un certo punto abbiamo visto un polpo gigante che per un qualche oscuro motivo non ci ha attaccato. Non avevo mai visto tanti re del mare!»

«Ti sei divertita, eh?»

«Sì, a pensarci adesso, sì. Ma in quel momento avevo una gran paura!»

 


C’era molto buio, negli abissi, come è giusto che sia, così lontani dal sole. Anice, sulla Napapiiri in quella bolla di salvezza, si chiese come potessero vivere gli uomini-pesce senza luce.

 


«A pensarci ora, mi chiedo come caspita pensavo di diventare una fisica. Non… non ne ho la testa. Pensavo che mi sarebbe bastata la voglia di sapere, ma quella non basta. Ho chiesto a quel ragazzo come potesse funzionare la bolla, e lui mi disse “Vuoi diventare una scienziata? E allora, perché non lo cerchi di capire da sola?!”, e mi sono arrabbiata tanto da dargli un cazzotto. Solo che – non ci riesco! Non riesco a capire come ha fatto quella bolla a portarci giù. E come fanno questi alberi a emanare luce!»

«Sei un po’ un fallimento, vuoi dire?»

«… Sì. Grazie per la consolazione, Tunt.»

«Scherzavo, Anice. Sai che penso che tu sia una buona osservatrice. Forse non ti hanno insegnato abbastanza perché tu possa spiegarti certe cose da sola, non credi?»

«Tu sei troppo buona, Tunt.»

«Con te, un po’ troppo.»

 


Anice aveva incontrato Tunturi sull’isola, dove era arrivata qualche settimana dopo la sconvolgente avventura della Noah e di Rufy Cappello di Paglia. I pirati se ne erano andati da qualche giorno, diretti nel Nuovo Mondo, quando la Napapiiri aveva attraccato. A quel punto Anice era rimasta senza lavoro ma con un po’ di berry in mano. Aveva deciso di festeggiare con un bel bicchiere di qualcosa di alcolico, prima di andare alla ricerca di un nuovo impiego che magari le permettesse di rimanere in quei luoghi: l'albero Eva che emanava luce era di una bellezza incredibile e lei aveva tutte le intenzioni del mondo di studiarlo almeno un pochino, se possibile. Il mistero era troppo ghiotto.

Al cafè l’aveva servita proprio Tunturi, che le aveva spiegato la mancanza di molti ingredienti a causa della battaglia tra Cappello di Paglia e Hody.

«Hanno tolto di bocca i dolcetti a Big Mom, in pratica? Oh, bene. Grandioso. Devo trovare un nuovo impiego su un’altra nave prima che quella arrivi a fare fuori l’intera isola.»

«Non sia così pessimista,» aveva detto Tunturi quella volta, in veste di cameriera. «L’isola al momento è contesa tra Cappello di Paglia e Big Mom. Dopo aver visto quello che hanno fatto Rufy e gli altri, ho l’impressione che saremo al sicuro.»

«Se lo dice lei. Non ero qui quando è successo, quindi non posso dirlo.»

Tunturi aveva sorriso timidamente prima di «Mi scusi, signorina» fare un giro dei tavoli e controllare che tutti i clienti fossero stati serviti.





 

 

 

La Napapiiri ripartì per le isole Sabaody senza Anice, che – nonostante le minacce di Big Mom – aveva deciso di rimanere sull’isola. C’era tanta richiesta di manodopera per ricostruire gli edifici di mezza isola, dunque si rese utile trasportando materiale e aiutando, come poteva, gli ingegneri e i geometri.

La soddisfazione più grande per Anice, ovviamente, era stata far esplodere quegli edifici cadenti di cui era rimasta in piedi solo una parte dei muri. Aveva accuratamente evitato di dire che le piaceva molto far saltare in aria le cose: piuttosto, aveva pronunciato qualcosa di incomprensibile su cinque anni passati nella Marina a sparare coi cannoni e le pistole. Quando le permisero di mettersi all’opera (era intervenuto uno dei Principi per calmare la popolazione inquieta), Anice capì in che posto fosse finita e in quale tempo: non era facile fidarsi degli umani. Soprattutto quando si mettevano a sproloquiare su esplosivi e polveri da sparo.

 


«Mai odiato gli umani, signorina?»

«… Sì.» Sussurrò Tunturi.

«Ma li odia ancora?» Chiese Anice.

«No. Ora ne ho paura. Un po’, perlomeno. Ma è la paura che si ha un po’ per tutto.»

«Un po’.»

«Mi fa il verso, per caso?»

«Forse. Un po’, ma poco poco, perlomeno.»

Tunturi le servì il caffè bollente versandogliene un po’ sulla maglietta.

«Mi scusi!»

«No, no, non è colpa sua, è-» Anice la guardò per bene. La cameriera stava sorridendo sotto i baffi – anzi, sotto le branchie, come si diceva da quelle parti. «No, rettifico: è proprio colpa sua.»

«Un po’. Ma un po’ è colpa sua, che mi fa il verso.»

Presa in contropiede, Anice alzò le mani come se qualcuno dovesse arrestarla. «Mi arrendo davanti alla sua ferrea logica. Ora, me ne può portare un altro?»

La cameriera annuì, sorridendo. Anice non capiva bene quella sirena, ma in ogni caso doveva pensare alla giornata di lavoro che aveva davanti (chiodi martello malta cazzuola il pranzo soprattutto). E la paga che ne sarebbe seguita. Non dimentichiamo mai i soldi, per favore, pensò Anice, mentre le veniva portato un altro caffè. «Grazie.»

Be’, anche a lei facevano paura gli umani. Soprattutto gli uomini, e soprattutto quando le mettevano le mani addosso – il che successe anche dopo Water Seven, dove aveva sviluppato dei muscoli che avrebbero messo i piedi al posto della testa a qualsiasi umano di basso livello morale (protetti del Diavolo a parte, però quelli si curavano poco di lei e molto di più o dello One Piece o dei pirati).



 

 

 

Chissà com’è non poter più nuotare, pensò Anice. E poi, se l’intero mondo galleggia (in cosa galleggi è ancora da stabilire), come fanno a trovarsi in sintonia con il mondo? Forse è per quello che vengono chiamati Frutti del Diavolo: è perché non si può più galleggiare insieme al resto, si è maledetti, la propria linea vitale non segue più le onde del mare che equilibrano il mondo. Però, io li ho visti, gente indiavolata che aveva dei sentimenti diciamo giusti. Comprensibili. Moralmente condivisibili. Quelli di Cappello di Paglia, ad esempio.


 

«Lei ha mai visto una sirena che non può più nuotare? Per colpa di quei Frutti del Diavolo?»

«No, non ne ho mai vista una.»


 

Forse non è così: forse chi è protetto del Diavolo può costruire la propria linea senza seguire quella delle onde infinite. Questo vuol dire che—che io sono la marionetta in un teatro di pupazzi? Ma no. Io, quella scelta di far saltare il magazzino – l’ho fatta io, me lo ricordo. E quando Luost mi ha spiegato come ripulire i cannoni per ricaricarli e come evitare di farmi ammazzare dal rinculo, ero io che avevo scelto di rimanere su quella nave.

Però, così, saltava per aria non solo un magazzino, ma tutta la sua idea intera del galleggiamento del mondo.

No, no, sono due cose diverse. Non metterle tutte e due insieme.


 

«Mai mettere insieme nitro e glicerina, Anice. Queste due assieme fanno partire non solo il cannone, ma l’intera nave. E non va bene per nulla. D’accordo?»

«Sì, Luost.»




«Sì, Anice. Ti avrei detto sì anche prima.»




Ad Anice improvvisamente girò la testa. Oppure le girava da molto tempo, ma solo allora si era fermata e lei aveva sentito il male nel cervello e nelle orecchie.

«Sta bene? Sta bene?! Signorina!» Era la voce della cassiera del cafè. «Fate spazio, per favore!»

Dov’era la sua guerriera dell’aldilà che veniva a prenderla per portarla via? Non c’era nessuna guerriera. Quindi, o non era ancora morta, oppure anche quella storia era una sciocchezza bella e buona.

«Mi sente? Come si chiama, signorina?»

«Nennnng—Anice. Anice, mi chiamoooohrg—la testa!»

«Va bene. Che giorno è oggi?»

«Lun—dì?»

«No, quello non se lo ricorda mai, lo so io,» si aggiunse un’altra voce nella sua testa, forse quella della cameriera che la serviva sempre. «Anice, quanto la pagano?»

«S—»

«Quello è privato! Non si dice!»

«Oh, insomma! Fate spazio! Deve respirare!»

«—to berry… Ma non mi hanno pagato, ieri!»

E allora Anice saltò su, si rizzò come un rastrello davanti a un povero malcapitato che ha messo il piede sulle sue punte di metallo (e che si vede arrivare in faccia una stecca di legno capace di uccidere). «I miei soldi!»

«Le cose importanti si ricordano sempre, vero?»

Era stata la sua cameriera abituale a parlare di nuovo. Era chinata al fianco di Anice e sorrideva, felice di sapere che era stato solo un capogiro. I clienti del locale si erano sistemati a raggiera attorno a loro e stavano fissando Anice con degli sguardi preoccupati.

«Mi spiace, non volevo spaventarvi. Mi capita, di tanto in tanto.»

«Sentito? Circolare!» Urlò la cassiera, che aveva una voce bellissima e terribile. «Lo spettacolo è finito!»

La cameriera aiutò Anice ad alzarsi. «Non è stato bello vederla finire a terra in quel modo, Anice.»

«No, in effetti non è stato bello. Mi capita una volta al mese, prima… sono dolori normali, per una donna umana. Io ce li ho solo molto accentuati. Mi sono dimenticata di comprare delle medicine apposta.»

«Capisco,» rispose la sirena. «Anice, mi chiamo Tunturi. Le offro io il caffè, stamattina.»

«Non mi potrebbe offrire un cappuccino e una brioche? È stato un risveglio stressante, dopotutto.»

Tunturi sorrise. «Certo.»

Profonda gratitudine per quella sirena.





 

 

 

 

Da quando era diventata l’attrice di uno spettacolo imprevisto – e la colpa era tutta del suo ciclo mestruale tremendo –, Anice aveva cominciato a osservare Tunturi. La cameriera che aveva visto come prima cosa da quando aveva finito di spaventare tutti, ecco, lei: Anice aveva cominciato a osservarla. Prima era solo un mezzo, come il fuoco: il suo mezzo per arrivare al caffè. Adesso Tunturi era diventata il rumore assordante dei fuochi artificiali: quando c’era, c’era soltanto lei.

Il mondo si azzittiva come durante un’opera teatrale in cui Anice era sola in scena e cominciava a borbottare, balbettare e a sudare orrendamente sotto l’unica luce bianca del palcoscenico.

Chissà che cosa direbbe Luost, pensò Anice. Sicuramente, qualcosa come: «Da te me l’aspettavo, Anice, non hai mai accettato le mie avances e questo significa solo una cosa.»

Aveva le squame azzurre, Tunturi.


«Non si chiamano squame, ma scaglie,» protestò Tunturi, «ricordatelo. Scaglie, non squame.»

E i capelli scuri, e gli occhi scuri, ed era piccina, rispetto ad Anice.

Se Anice era, come diremmo noi, una valchiria, allora Tunturi era—


Indefinibile, pensò Anice, passandosi una mano sulla fronte e poi sui capelli, per levarsi il sudore dalla testa, dal cervello, si sarebbe strappata i capelli se avesse trovato una sola parola che mettesse Tunturi in una categoria. Una qualsiasi categoria. Le sfuggiva come— come il mondo che galleggia. Come i protetti del Diavolo. Come l’albero Eva. Come ogni fenomeno che avrebbe voluto studiare, ma per cui non aveva testa (o tecnica, come dirà Tunturi, un giorno).

Pensò a quel ragazzo figlio di Barbabianca che era morto a vent’anni, e disse—

«Se fossi morta a vent’anni non sarei mai finita qui e non sarei mai svenuta nel mezzo di un cafè e non mi sarei mai innamorata.»

Non lo disse con cattiveria; lo disse con un po’ di dolcezza, di compassione per chi era morto e di gratitudine perché lei era ancora viva, e lo disse tutto con un respiro solo.

Lo disse (soprattutto!) mentre stava portando tre sacchi di gesso sulle spalle come se fossero tre piume da mettere su un cappello di alta moda. Era in mezzo agli operai, a uomini-pesce, tritoni, ed esseri umani. Indovinate chi fischiò.

Be’, tutti quanti, che c’è da dire? Fischiarono tutti e il fischio si propagò come un’onda gigantesca, come un’Acqua Laguna sonora.

Le diedero di gomito finché non si scusò (e perché devo scusarmi, poi, la colpa è loro!) e scappò via dal cantiere. I fischi la accompagnarono fino al cafè, a cui era arrivata dopo una corsa che serviva a distenderle più i nervi che le gambe.

«Dovevano chiamarlo Un po’ di maretta, questo posto, non Un po’ di mare, visto il mal di stomaco che mi fa venire. Scommetto che è tutta colpa di Tunturi, se l’hanno chiamato così. Non fa altro che dire un po’, un po’

C’era qualche cliente nel locale, ma stavano per chiudere per una pausa di un’ora, prima del traffico serale.

Tunturi era lì dentro e stava ripulendo un bicchiere, o una tazza, Anice aveva la vista annebbiata, o forse era il suo cervello a confonderla perché ci godeva, quello stronzo del suo cervello Martino, nel metterla in difficoltà.

Insomma, stava pulendo qualcosa. Poteva intervenire, no?

Martino, maledetto, batti un colpo! Fammi sapere che ci sei e che non mi abbandonerai così!

«Ehi, Anice! Ciao!»

Ah, è vero, erano passate al tu, qualche tempo fa. Dopo il giorno del capogiro. Quanto tempo era trascorso? Le sembrava una vita, praticamente, ma doveva essere un mese, più o meno. Aveva conservato il giornale di quel giorno perché c’era scritto che Jinbe aveva preso un rapitore di sirene e lo aveva conciato per bene. Più tardi avrebbe controllato.

«Aeh, ciao, Tunturi. Uhm. Ti disturbo?»

«Stiamo per chiudere. Volevi un caffè?»

«No, no, sono qua per parlarti.»

Non esiste una medicina per l’annebbiamento del cervello? Un Martibiotico, per esempio?

Tunturi aspettava, ma nel frattempo finiva di ripulire i cucchiai e le forchette da dolce. «Sì?» Disse, dopo qualche minuto.

Le conversazioni importanti hanno sempre una parte di chiacchierata stupida, si disse Anice, ora la parte stupida è passata e quindi devo dire le cose importanti. Quelle importanti. Che mi importano. Importeranno anche a lei?

Boh, si rispose. Indefinibile.

«Vorresti uscire con me?»

Non erano le quattro parole che voleva, ma importava il contenuto. Il significato. Quello. Avrebbe voluto dire Ti amo sposami Tunt, ma effettivamente ci avrebbe messo più tempo. Non nel senso che ci avrebbe impiegato sette secondi invece di sei, ma nel senso che avrebbe voluto essere sicura di quello che stava dicendo, e per esserlo ci voleva più tempo.

Tunturi sorrise, ma— era il sorriso più bello di tutto il mondo, di tutta la luna, il sole, le stelle, di tutti i fenomeni che Anice avrebbe voluto studiare ma che ancora non aveva studiato. Luost le avrebbe dato una fenomenale pacca sulla spalla. «Un po’, sì.» Rispose.

«Quando?»

«Ho un’ora libera tra due minuti. Che ne dici?»

Anice sorrise e annuì con convinzione. «Sì. Il mondo galleggia e i protetti del Diavolo stanno costruendo la loro strada come io voglio costruire la mia.» Poi si accorse di aver parlato, non di aver pensato.

«Con te, spero volessi aggiungere.»

«Sì. Giuro. Ero solo imbarazzata. Quanto manca alla fine dei due minuti?»

«Un po’.»

Era una piacevole tortura fonetica, quella.





 

 

 

 

Erano tutti fenomeni: il sole, le stelle, l’albero Eva, tutti fenomeni che forse non sarebbe riuscita a studiare, nella sua vita.

Anche Tunturi era un fenomeno – sia chiaro, era fenomenale, ma era pure un fenomeno molto interessante, soprattutto per Anice. Anice poteva studiarla e Tunturi non glielo impediva.

Non la studiava nella maniera a cui tutti state pensando, o perlomeno, un po’, forse—

Tunturi non aveva tutte le risposte del mondo, anche se Anice le aveva cercate in lei partendo dalle basi: ad esempio, partendo dalla fantomatica domanda «Ma l’albero Eva come fa a emettere luce?» fino alla «Mi sposeresti?» di qualche anno successiva.

Anice ringraziava ogni giorno di aver fatto saltare in aria quel magazzino.





 

 

 

 

«Le stelle. Tu le hai mai viste, Tunt?»

Stavano nel loro letto, ma Anice non prendeva sonno. Quando questo succedeva, aveva la brutta abitudine di rotolare fino ai fianchi di scaglie di Tunturi e di abbracciarla, infilando la testa in mezzo ai suoi capelli scuri.

«Penso sempre alle stelle quando non riesco a dormire.» Disse ancora Anice.

«Allora,» incalzò Tunturi, «perché non ci stavi pensando? Pensavi a me, per caso?»

«A entrambe. Sono—sono le cose che mi hanno fatto partire da casa. Se non fosse stato per loro, non avrei mai deciso di studiare il cielo e le cose del mondo e non sarei mai arrivata qua da te.»

«Allora le ringrazio. E visto che qui ci sono un po’ di cose interessanti, immagino che non te ne andrai via presto, o mi sbaglio?»

«Giusto.» Anice mise le mani nei capelli di Tunturi e se li annodò tra le dita. «Quando avrai due piedi, andremo in superficie? Voglio farti vedere le stelle. Solo una visita. Andiamo a visitare i miei genitori. Non li sento da una vita, visto che siamo così distanti mandare le lettere è come buttare un messaggio in bottiglia nelle fasce di bonaccia.»

«Stai parlando un po’ troppo, per l’orario in cui siamo.»

«Hanno la mia vivre card. Andiamo a trovarli, un giorno, quando avrai due piedi?»

«Sì. Va bene. Ora dormi.»





 

 

 

 

Anice non si credeva pienamente realizzata: aveva la sensazione di essere congelata, sul fondo del mare, perché non poteva vedere il cielo che sta sulla testa di tutti. No, più che congelata per anni, pensava di essere come un chiodo battuto dal martello dentro un’asse di legno: con la testa a pelo d’aria, ma senza poter vedere al di fuori della bolla di legno in cui si trovava; colpita ripetutamente dal martello fino a che non si era inabissata nel legno e lì era rimasta, senza vedere quello che c’era al di fuori; in alto; sopra. Era consapevole del fatto che al di fuori dell’isola degli uomini-pesce ci fosse il suo torturatore celeste, eppure lei si trovava lì, appesa, come un chiodo battuto dal martello, o dal tacco di una scarpa (Water Seven e i suoi carpentieri le avevano decisamente lasciato un segno nella mente e nelle mani).

Una volta tornata in superficie, si sarebbe sentita viva di nuovo; una volta viste di nuovo le stelle, l'avrebbe colta ancora la sensazione dell'esser piccola, inutile, insignificante, e avrebbe pensato per l'ennesima volta Voglio conoscervi perché la mia ignoranza mi porta infinita tristezza. Avrebbe fatto partire altri fuochi artificiali per far sapere a Luost che stava bene, benissimo, con Tunturi.

Ora quell’isola le stava troppo stretta, o lei era invecchiata troppo, la sua testa si era arrugginita e lei aveva un terribile bisogno di uscire da lì e rivedere la superficie terrestre. Si osservava e si vedeva vecchia e logora, aveva bisogno di— di essere tirata fuori da lì.

Il suo sentirsi incompleta e invecchiata non le faceva amare meno Tunturi. Forse era vero il contrario. Ma proprio perché le voleva bene voleva farle vedere il cielo, condividerlo con lei, farle capire che quella cosa sopra di loro era una fonte di inesauribile meraviglia e dolore, e che studiare il cielo—studiare il cielo aveva attenuato il suo mal di cuore.

Partire per il fondo dell’oceano – dopo anni l’aveva capito! – era stata una reazione inconscia alla sofferenza che provava nell’alzare lo sguardo verso una distesa di cielo scuro. Grazie a quella reazione, poteva risalire sul liscio del mare e guardare Tunturi per dirle che quello lassù le faceva male, e che lei era stata la sua medicina, la sua pagliuzza a cui aggrapparsi: ma la pagliuzza le era scivolata di mano ed era finita sul terreno e da essa era cresciuta una piantina umilissima, ma vogliosa di diventare più alta.

Quando Anice disse tutto questo a Tunturi, quando dalla coda di scaglie di Tunturi si erano biforcate due gambe bellissime e chiare ed erano risalite in superficie; ecco, allora Tunturi sorrise, prese le mani di Anice e rispose alla compagna – perché Anice, con quel discorso, voleva una risposta.

«Ringrazio le stelle che ti hanno portato da me. Ma le rimprovero, perché ti fanno del male. Ammetto che non capivo il tuo dolore, ma ne avevo paura. Ora capisco che è un dolore che nasce dalla bellezza stupefacente del mondo e che neanche l’amore riesce a curarlo.»

«Non lo cura, ma lo allevia.»

Non sei mai stata il sostituto di nulla, Tunt. Sei stata la mia salvatrice. Lo sai. Lo devo dire? Scoprire tutto del mondo non allevierebbe il dolore della tua perdita, se ne fossi io la causa.

Non lo disse.

Tunturi dovette intuirlo, però, perché sorrise amabilmente, massaggiando le mani di Anice, che teneva tra le proprie. «Lo so, Anice. Adesso lo so anche io. Ho guardato il cielo una volta sola e ho paura di guardarlo di nuovo.»

«Fa quest’effetto, sì.»





















Note Autrice:

Anice e Tunt sono così tenere che boh. Also Luost. Si ringraziano i Nightwish per avermi ispirato questa storia a cui tengo un sacco: la loro canzone che mi ha accompagnato e che accompagna la storia è Shudder Before the Beautiful. Si ringrazia in particolare Floor Jansen (la cantante dei Nightwish) perché io Anice me la immagino come lei, ma bionda. La mia valchiria (a)dorata.

Questa storia non è stata scritta in funzione del contest, si era praticamente scritta da sola qualche mese fa, ma vedendo che c’era un contest shojo-ai, scusatemi, non ho potuto resistere. Adoro lo shojo-ai, soprattutto in One Piece. Fortuna ha voluto che, a parte qualche passaggio che ho sistemato, la storia fosse abbastanza calzante al contest già di suo. Piango lacrime metal.

Se ci sono imprecisioni è perché sono distratta. Scusate. Avvisatemi e rimedierò.

È una sorta di esperimento, questa storia. Non è il mio solito stile, sto diventando decisamente più incasinata, non so se nel bene o nel male. (Sicuramente nel male! Mannaggia.)

Spero vi sia piaciuta! C:

claws_Jo




Il manga One Piece è di proprietà di Eiichiro Oda.

  
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