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Autore: FiveOneTen    08/09/2015    1 recensioni
Ne avete lette tante, ne leggiamo tutti tanti: il futuro lo vediamo sempre tanto triste, ma questo forse ancor di più.
Genere: Drammatico, Science-fiction, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Accese il suo dispositivo elettronico. Rimase abbagliato dai flash luminosi dell’apparecchio. Il suo dito smunto cliccò sull’icona blu mare dell’interporto informativo e l’applicativo si mise in moto senza problemi. Leggeva le ultime direttive degli amministratori. Chi fossero gli amministratori? Mah, nessuno lo sapeva bene. Erano coloro che campionavano le idee. Fattispecie di pastori per il loro gregge, insomma. Tutti usavano l’interporto informativo: era un obbligo. Senza quello, chi potevi seguire? Chi potevi copiare? La realtà non era altro che una speculazione della realtà. Li chiamavano server, non più umani. Perché server? Perché i server rimbalzano un segnale, solitamente. Gli umani erano diventati server, con la differenza che i segnali oltre a rimbalzarli li assorbivano, li somatizzavano, fino a prosciugare una qualsivoglia forma di personalità. Stracci, più che umani. Cartelloni pubblicitari. Mettevano in mostra il loro aspetto esteriore, in una società qualunquista e paranoica, basata sulla glorificazione del corpo: ossessivo passatempo di un qualsiasi server, quello di lasciare il proprio fisico in mano alle macchine affinché queste lo perfezionassero modificandolo a seconda della moda del momento. Un anno erano solo vestiti di rosa, l’anno dopo solo di verde, quello dopo solo di blu. Perché? Lo dicevano degli amministratori, sull’interporto informativo. Ciascuno sulla sua casella, che si erano creati da soli. Bastava che andassi a digitare sulla tastiera del dispositivo le generalità della casella e questo ti reindirizzava direttamente davanti al volto sorridente dell’amministratore preferito. Potevi scegliere il tuo dittatore. L’unica possibilità rimasta? Schiavizzarsi. Le idee erano solo un passaparola. La creatività un copia incolla.

I server sorridevano, avendo paura della loro trasformazione. Stavano perdendo umanità, stavano perdendo tutto. Eppure sorridevano ancora. E per illudersi pensarono di poter sconfiggere dio. Cominciarono a screditarlo, screditarono ogni religione, diedero fuoco ai luoghi di culto, ammazzarono l’arte: ignorarono ciò che veniva chiamata cultura, preferendo l’ignoranza e lo schiavismo, vedendo che, al contrario, la conoscenza apriva loro gli occhi. Complessi di torri e palazzi che collegavano cielo e terra vennero innalzati, incredibili impalcature di ferro, vetro e materiali ibridi, il tutto disposto per intimorire chi non credesse nella potenza dell’uomo, quando più impotente non poteva essere. Divennero larve, dentro ai loro tessuti avveniristici, dietro ai loro schermi luccicanti, dietro alle loro massicce dosi di finzione. E iniziarono a vivere di quella finzione, reinterpretandola come realtà. Felici di obbedire agli ideali di cui parlava l’olovisore. Loro e le loro leggi immorali che predicavano libertà ma costringevano alla xenofobia e alla lotta per il comando. Tali bestie persero le sole capacità che li distinguevano dal resto del creato: la capacità di pensare, la capacità di sognare e la capacità di scegliere. I server altro non erano che manichini. Venivano indottrinati malamente tramite bombardamenti mentali che annientavano ogni sorta di pensiero. La sola apertura mentale che veniva concessa era ampiamente illegale, assieme ad ogni forma d’arte propagandistica che potesse invadere il suolo pubblico. Se trovavano un artista di strada intento a completare una sua opera su un palazzo in disuso veniva preso e incarcerato. I venditori di libertà dovevano nascondersi nell’ombra, con la loro merce. La libertà? Era offerta dal fiele. Il fiele? Una sostanza che il governo disprezzava, perché la sola che potesse offrire una forma di libertà.

Lui, quello che cliccava sull’icona blu mare col suo dito smunto lo sapeva bene. Lo chiamavano sergente Croco, nell’ambiente. Ogni server che desiderava aprire gli occhi prima o poi finiva nell’ambiente e gli veniva assegnato un nome in codice, affinché, se la voce fosse girata, per lo meno nessuno conosceva le generalità vere e proprie. Croco era un acquirente di libertà. Ne acquistava parecchia. Non poteva smettere. Si iniettava il fiele, lo ingurgitava a grossi sorsi o ne inalava le essenze pregiate tra i fumi ormai andati perduti. Per la società era un criminale. Lui voleva solo vedere oltre la siepe di ideologie dettate da un mondo incasellato. Lui perse l’incasellamento. Ma perse tutto, perché il fiele era un’arma a doppio taglio. Giorno dopo giorno, dose dopo dose, il mondo si faceva più astratto, ergo meno fittizio: le illusioni delle associazioni governative non potevano niente contro il fiele: venivi liberato. Vedevi, sebbene per poche ore, vedevi i veri colori, le vere forme, il vero mondo. Potevi pensare, senza limitazioni di sorta, ma poi cadevi. Cadevi nella realtà, quella che avevano progettato per te: tornavi in catene. E fosse finito lì il problema. Un qualsiasi usufruente di fiele finisce per voler tornare libero: diventa una dipendenza. Cadi nuovamente schiavo e gli effetti scemano sempre di più. Finisci per averne bisogno, senza però il beneficio di poter tenere gli occhi ben aperti: le visioni oniriche non si presentano più, solo incubi che ti trottano attorno e una gran voglia di volerli guardare ancora. Improvvisamente non vorresti altro se non la morte. E una fiala di fiele. Morte e fiele. Le uniche medicine. E così si formano le persone come sergente Croco. Lui per lo meno il dispositivo ancora ce l’ha. C’è chi lo vende (assieme al resto) per poter continuare a farsi di fiele. Altrimenti non vai avanti. Fitta al braccio. È dovuto al fiele. Lui è passato all’ultimo stadio: quello dei malcapitati, quello dove il fiele vero e proprio non puoi più permettertelo e passi a una versione per disperati. Una versione economica, ma con effetti collaterali devastanti. Ti mangia, ti corrode, ti prosciuga, più dello stato stesso. Non ti lascia nemmeno le ossa. E la gente guarda le tue ferite, e capisce. Capisce che te le sei inferte da solo, con il tuo fiele, con la tua brama d’altro mondo. Capiscono che sei un sognatore. Capiscono che tu devi farti, così quando dormi vedi anche qualcosa. Loro non conoscono la vera definizione di sogno, conoscono solo le utopie programmate dallo stato.

E lui rimane lì, con la sua fitta al braccio, stringendolo e soffocando le grida. Poco sopra al gomito, poco più su. Lì, proprio lì, un buco del diametro di un’arancia ormai. Lì, dove la carne è scavata. Lì dove si intravede il bianco dell’osso. Lì dove ha provato a non guardare la verità in faccia fasciandola, coprendola di bende, ma la verità l’ha voluta lui e ora ne paga le conseguenze. Lì dove è incominciata la sua maledizione,quella che si era prefabbricato. E ora non ne potrà più uscire. Era così idiota da voler sperare, e ora morirà, corroso da acidi e farmaci. Immobile, lì, appoggiato ad un palo, immerso nella sporcizia delle città, lasciate al regresso e all’abbandono. Affianco alla fermata di un velotrasporto, un mezzo pubblico, di quelli che usa la gente comune. Il mezzo tarda, lui si accovaccia, poche altre anime in pena, impazienti, attendono. Non lo guardano, hanno timore, ma non lo guardano. La fitta si fa sentire, sempre più dolorosa. Digrigna i denti come il cane qual è. La gente inizia a preoccuparsi. Non lo può più tenere quel dolore, non lo può più tenere. E lo libera con la voce, lo libera gridando, lo libera farneticando parole che non conoscono, parole di scelte, parole di mani libere, di gente che corre senza conseguenze, di anarchia. E lo giudicano, dall’alto della loro fittizia libertà, eccome se lo giudicano, sul loro palcoscenico. Perché mai lo fai? Perché ti riduci così, infingardo, hai tutto quello che vuoi, ti danno tutto quello che vuoi. E poi puoi lamentarti, ma mi raccomando, a bassa voce. Lo fanno tutti, questo trucchetto del “a bassa voce”. Ma lui grida, grida e si dimena, nell’occhio del ciclone, lì dove gli spasmi la fanno da padroni.
Un uomo gli si avvicina, non un ordinante, non uno che volesse arrestarlo, ma un vecchio, con la barba spelacchiata e un cranio tondo e luminoso. Un vecchio, uno come tanti. Lo fissa preoccupato, come se fosse suo figlio, lo scrolla con mani di padre.

– Ehi, ragazzo, calmo. Chiamate i soccorrenti! In fretta! Calma, calma, respira. Ehi mi avete sentito o no? Chiamate questi dannati soccorrenti! Ma c’è qualcuno che mi ascolta? Tu non ti preoccupare, andrà tutto bene.

I suoi occhi, brillano di speranza, speranza falsata, come tutto in questo mondo, ma forse, nelle sue pupille…

– Ragazzo, non dormire, resta con me. Un attimo e arriveranno i soccorrenti, e sarà tutto finito, vedrai.

Finito. Finito…

–  Dai, tieni gli occhi aperti. Qualcuno mi ascolta? Questo sta male sul serio! Chiamate quel dannatissimo 111199 o ci lascia le penne! Dai, dimmi come ti chiami. Eh, ti ricordi come ti chiami?

La sua fronte brilla, brilla di lacrime, brilla di sudore. Non sa cosa fare, sta per morire, tutto e più calmo, ma Croco non vorrebbe finire… Croco... ha un nome Croco? O è solo Croco?
Lo direbbe, lo direbbe quel nome, quel nome duro come pietra, duro come roccia, duro, duro è Roc… 

– Ha chiuso gli occhi dannazione! Ha chiuso gli occhi. 

Ha chiuso gli occhi Rocqualcosa, ha chiuso gli occhi, ma biascica parole. Ne biascica una sola. Ne biascica mezza, in verità.

– Roc…

– Bravo, bravo, parlami. Facciamo una chiacchierata, ti va? Tanto devono arrivare. Tanto adesso arrivano. Parla con me Roc.

Mugugna un sì, molto piccolo, ancora mezzo attaccato alle labbra.

– Dove vivi Rocco? Dove vivi?

Silenzio. L’importante nella testa di Roc non è il dove, ma il davvero. Davvero ha vissuto? Davvero vive?

– Non ricordi eh? Non importa. Non importa. Quando sei nato Roc? Quando sei nato?

Quando, quando, quando? Quando mai è nato? Ma è davvero nato? Silenzio.

– Non ricordi neanche questo? Non importa. Dimmi almeno se ricordi che giorno siamo, dimmelo Roc, almeno questo ti prego, almeno questo! Dai che arriveranno, resisti Roc, resisti.

Che giorno è? Questo forse lo sa. E nell’agonia dei numeri si formano, lenti, ma si formano. E allora lo sa. E allora lo sa. E piano piano lo dice. Piano piano. Per paura che tutta questa realtà e tutto questo sogno e tutto questo tutto possano sfatare. E non rimarrebbe che qualcosa di sconosciuto, ma chissà cosa. E allora lo dice, piano piano, e chi se ne frega della libertà, che ne ha già avuta abbastanza. E chi se ne frega del resto, ormai importa solo il giorno.
E lui lo dice, piano piano.

– 7 settembre 2015. 
  
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