Capitolo
1°
Over
the mirror
Mi
presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e
vivo a Chicago. O,
per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa
parte mi
sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a
farci l’abitudine, a
quest’idea. Ormai per me il tempo non significa
più nulla: è troppo breve il
tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato.
Secondi,
minuti, ore… non sono niente in confronto
all’eterna oscurità a cui sto andando
in contro, a quella voragine senza fondo a cui mi sto avvicinando pian
piano,
passo per passo. È il 1918, anche se non so di preciso che
giorno di quale
mese: ormai ho smesso di tenere il conto da un po’.
Però deve essere estate,
credo, anche se ora tutto, perfino il sole ardente che mi batte sul
volto, mi
sembra freddo: anche alla febbre alta ho fatto l’abitudine.
Mio padre, Edward
Senior, è un avvocato di successo e io, fino a qualche
settimana fa, un ragazzo
allegro e solare, seppur un po’ timido e incredibilmente
sensibile, nel pieno
dei suoi anni e a cui piaceva fantasticare a più non posso
sul suo futuro, una
lunga strada aperta davanti a sé. Quelli erano gli anni
della guerra, ma io non
provavo dolore e tristezza come gli altri, anzi nella distruzione
generale
vedevo la mia prima possibilità. La possibilità
di farmi notare, di far vedere
quanto valevo e, da quando avevano abbassato l’età
di arruolamento a diciotto
anni, contavo i giorni che mi separavano dalla mia partenza per il
fronte. Mia
madre, a buon ragione, aveva paura per me, ma non mi importava
più di tanto,
non mi importava che stessi per prendere parte a uno dei banchetti
più cruenti
della storia: ero solo un ragazzo e, come tale, volevo sognare. Ero
ingenuo e,
benché fossi considerato quasi un adulto, non avevo idea di
cosa fossero
davvero il male e la sofferenza. Poi tutto, dai miei progetti alla mia
spensieratezza, è cambiato. Mi sono ammalato gravemente di
spagnola, come i
miei genitori, e sono finito in un letto d’ospedale. Dove mi
trovo tutt’ora.
Per consolarmi cerco di parlare al passato, come se fossi
già morto, visto che
so benissimo che questa sarà la mia sorte. Lo leggo sui
volti delle infermiere
che vanno e vengono tra le corsie con sguardo basso, me ne sono
conferma i
colpi di tosse dei miei compagni di sventura. E poi… lo so. Dicono che in punto di morte,
quando l’anima inizia a
staccarsi dalle sue spoglie terrene, si capiscono molte cose. Io ho
capito
quale sarebbe stata la mia fine appena ho visto mio padre spirare nel
letto a
fianco al mio. Non ricordo neanche se ho pianto; a causa della febbre
alta
ormai sono perennemente calato in uno stato di semi-coscienza. Quando
ho preso
atto di questa cosa, del fatto che di lì a breve sarei
morto, però non ho avuto
paura. Sarebbe stata come una dose di morfina soltanto un po’
più forte, che
avrebbe messo a tacere per sempre i dolori del corpo e
dell’anima, regalandomi
finalmente un sonno tranquillo lontano dal fuoco della febbre e dai
continui
spasimi. Mi rendevo conto che non ero più il bel ragazzo
medio borghese, istruito
e dalle maniere raffinate, a volte un po’ superficiale, che
dava molte cose per
scontate; ora ero un qualunque malato terminale, come ce
n’erano a centinaia in
quegli anni di epidemia. Pian piano avevo iniziato a cancellare i miei
progetti
futuri e i miei sogni, avevo iniziato a parlare di me stesso al
passato, come
se fossi già morto: era il mio modo di accettare la cosa.
Era stato facile
dopotutto, rinunciare alla vita e a tutto il resto; un po’
come prendere la
propria agenda e cancellare tutti i programmi del weekend e quelli
delle
settimane a venire: i miei impegni arrivavano solo fino a
venerdì, di lì in poi
il nulla. E ora non facevo altro che aspettare il fatidico momento nel
quale
avrei smesso di bruciare.
Ma
se io avevo perso la speranza e mi avviavo con la pacatezza di un
condannato
verso quell’epilogo triste ed irreversibile, c’era,
invece, chi cercava ancora
qualcosa a cui aggrapparsi goffamente continuando a lottare invano.
Puro
istinto di sopravvivenza, forse. Sentii una mano sfiorarmi
delicatamente la
guancia e socchiusi gli occhi quel tanto che mi permetteva il mio
fisico
debilitato. Avrei potuto riconoscere quel tocco tra milioni, anche
perché era
una delle poche cose che potevo considerare se non calde almeno
tiepide. Il
volto di mia madre si abbassò sul mio per deporre un bacio
leggero sulla mia
fronte imperlata di sudore e i suoi capelli bronzei, delle stesso
colore dei
miei, mi coprirono la visuale come un’ala protettrice. Ne
inspirai il profumo
zuccherato per l’ennesima volta e quello costituiva uno dei
miei ultimi ponti
con la vita. Il suo respiro era caldo sul mio volto e chiunque avrebbe
potuto
notare in quel volto pallido ed emaciato i segni indelebili della
malattia che
la stava rosicchiando inesorabilmente. Ma nonostante lei stesse male
come me,
si era sempre rifiutata di starsene con le mani in mano e fare la
malata.
Nonostante la febbre che le annebbiava la vista e la tosse che scuoteva
il suo
corpicino fragile che diventava ogni giorno più magro,
s’ostinava a fare la
spola tra me e mio padre. Quando conservavo ancora un barlume di forza
e
lucidità mi ero arrabbiato con lei e l’avevo
rimproverata, ma non c’era stato
nulla da fare e anche le preghiere dei medici non erano valse a nulla.
Non
sapevo come aveva preso la morte di papà, non avevo nemmeno
avuto il coraggio o
la forza di chiederglielo, ma sapevo benissimo che soffriva molto
più di quello
che dava a vedere. Aveva amato molto mio padre, ma di certo al momento
provava molto
più dolore nel vedere il suo unico figlio costretto in un
letto senza
possibilità di uscirne. Per questo mi stava costantemente
vicina, peggiorando
così ancora di più la sua già fragile
salute, e forse anche perché era convinta
che ce l’avrei fatta. Ma io ero più realistico: a
volte mi veniva quasi voglia
di saltare in piedi e mettermi a urlare che ormai era finita, che non
valeva la
pena di affaccendarsi attorno a me, sarei morto in poco tempo.
Però avevo
l’energia necessaria sì e no per mettere insieme
due pensieri di senso compiuto
e anche quello a volte mi riusciva difficile e poi, di sicuro, non
sarei mai
stato capace di infrangere così brutalmente le deboli
speranze di Elizabeth
Masen.
Osservo
con occhi socchiusi il sopraggiungere della notte: i colori dorati del
sole
abbandonano pian piano la finestra di fianco al mio letto per tingersi
di mille
tonalità vermiglie e violacee prima di far approdare
l’oscurità. Per una volta
tanto il silenzio era arrivato nella camerata: niente colpi di tosse,
gemiti,
pianti, urla, ansiti, preghiere recitate tra i denti. E mentre fisso
l’ultimo
raggio di luce scomparire oltre il davanzale mi viene quasi da
sorridere, ma
questa volta si tratta di un sorriso amaro. Buffo. In quel momento mi
sentivo
proprio come quell’ultimo raggio di sole che si spegneva
dolcemente e senza far
rumore per lasciare posto a qualcos’altro. Me ne volevo
andare così, con quel
briciolo di serenità che mi era concesso. Sentivo la vita
evaporare dalle mie
membra desolate come il calore del sole aveva abbandonato quella
giornata: l’ennesima.
Per lasciare posto alla frescura della notte e al silenzio: magari
anche quello
che mi attendeva era così. Rimasi a lungo ad osservare
quella finestra:
dopotutto non avevo molto altro da fare, no? Quando si è
malati di solito o ci
si lamenta o si dorme per recuperare le forze. Io non mi ero mai
lamentato e
non avevo la benché minima intenzione di farlo: non avrei
fatto altro che
aggravare la salute e il dolore di mia madre nel palesare quanto
soffrivo. Quindi
bocca cucita ed espressione neutra. Non volevo neanche dormire. Ormai
approfittavo
di ogni singolo momento di tregua che mi dava la febbre, ogni secondo
di
lucidità a qualsiasi ora per osservare il mondo, per
assaporare ogni minima
particella di vita, per riassumere in qualche giorno quello che avrei
potuto,
dovuto provare in anni. È vero che cercavo di distaccarmi
dalla vita per
alleviare la sofferenza che avrei sperimentato una volta che me fossi
dovuto
separare a forza, ma questo di certo non mi impediva di osservarla, di
respirarla per decodificare frettolosamente tutto ciò che
aveva da dirmi. Non ne
ero più dipendente, ma volevo solo capirla, analizzarla.
Si
è ormai fatto buio del tutto e nel cielo notturno iniziano
ad apparire le prime
stelle. Ciò significa che ci sarà luce e bellezza
anche nel “dopo”? Inizio a
tracciare linee immaginarie che uniscono i singoli granelli
d’oro che
trapuntano il cielo, creando forme bizzarre. E per un momento la mia
mente
torna serena, si distende, non pensa più al presente, al
dolore, a ciò che l’attende.
No, è proprio come un tempo quando, sdraiato nel mio letto
confortevole (ben
diverso da questo bianco, anonimo, sterilizzato) osservavo la volta
celeste,
fantasticando su un domani assolato e radioso prima di addormentarmi.
All’improvviso
sento un briciolo di forza invadermi braccia e gambe, la nebbia si
dirada un po’
dalla mia vista e per la prima volta mi rendo conto del velo di sudore
che mi
ricopre da capo a piedi, soffocandomi come una pellicola di plastica.
Trovo perfino
la forza di mettermi a sedere e mi meraviglio: che mia madre non avesse
sperato
invano? Ma poi sento ancora il peso che mi grava sulla testa e che mi
rende gli
arti pesanti, i brividi che mi scuotono ogni tanto e il fuoco che mi
brucia i
polmoni. Trattengo a stento un colpo di tosse per non svegliare mia
madre che
dorme nel letto di fianco, che prima occupava mio padre.
L’hanno portato via qualche
giorno fa, all’obitorio, mentre la mamma piangeva e posata
un’ultima carezza
piena d’amore sulla sua guancia pallida e ormai fredda. E io
non sono riuscito
nemmeno a salutarlo, non sono stato capace di bagnare le sue mani
livide con le
mie lacrime: stavo troppo male, non mi rendevo conto che quella era
l’ultima
volta che lo vedevo. Forse a volte la febbre è una
benedizione…
Con
gesti lenti e misurati getto le gambe giù dal letto e il
tocco del pavimento è
come ghiaccio per me. Distolgo lo sguardo dalla figura magra e pallida,
dal
respiro irregolare e la fronte imperlata di sudore al mio fianco: non
voglio
calcolare quanto tempo le resta ancora. Il mio sguardo vaga per la
stanza:
altri letti con altre figure tutte uguali. Alla fine la mia attenzione
è
attirata da un oggetto riflettente sul comodino: un piccolo specchio.
Senza esitare
allungo il braccio e lo prendo; non so come sia arrivato fin qui, ma
non m’importa.
Il mio fiato bollente ne appanna per un attimo la superficie e poi,
alla tenue
luce della luna appena spuntata, vedo… me.
O almeno quello che dovrei essere io; stento a riconoscermi. Quella che
mi
fissa con un’espressione tirata e rassegnata è una
faccia nuova, un fantasma
spuntato da uno dei miei tanto incubi infantili. Il colorito
è pallidissimo,
quasi cereo, e smorto come una pianta cresciuta al buio. I lineamenti
sembrano
essersi affilati, induriti dal dolore; perfino le labbra sembrano
più sottili e
formano quasi una linea dritta e brutale sotto il naso diritto, ormai
dimentiche di qualsiasi tipo di sorriso. Profonde occhiaie incorniciano
un paio
di occhi verdi in cui, però, si può cogliere
ancora uno scintillio, seppur
debole, di vita. Infine i capelli bronzei, una volta ben pettinati e
brillanti
al sole, ora sono scompigliati e incollati alla fronte madida di
sudore. Sembro
un vampiro. Con un calcolo veloce, tenendo conto del mio aspetto e
della
stanchezza che opprime il mio corpo, calcolo di avere sì e
no un paio di giorni
di vita. Tre, per essere ottimisti. Guardo ancora una volta il mio
riflesso da
film dell’orrore. E, ancora una volta, mi viene da sorridere.
Sapevano tutti
che la signorina Chamberlain, figlia di un famoso notaio, mi moriva
dietro e i
suoi sospiri e allusioni alla mia bellezza “divina”
mi riempivano le orecchie
all’infinito ogni volta che lei e la sua famiglia erano
invitati a casa nostra
per cena (di certo mio padre sperava per me un matrimonio degno del mio
livello
sociale). Ma la signorina Chamberlain non mi era mai interessata e di
sicuro la
mia bellezza era l’unica fonte del suo arrossire quando io
entravo nella stanza:
mi sarebbe piaciuto vedere se fossi riuscito a suscitare in lei la
stessa
emozione anche in questo stato.
Un
rumore secco, proveniente dall’altra parte della camerata, mi
fa sussultare e
alzare repentinamente gli occhi dallo specchio con il cuore in gola.
Una figura
in camice bianco, sicuramente uno dei medici di turno, è in
piedi sulla soglia
e controlla che tutto sia a posto. Poi il suo sguardo cade su di me,
seduto sul
letto, e prima che io possa realizzarlo è al mio fianco.
Dico fin dall'inizio che questa sarà una ff di pochi capitoli, in primis perchè non ho voglia di impegnarmi con una cosa lunga e poi perchè l'argomento trattato si svolge nell'arco di qualche giorno (quindi le fasi immediatamente prima e immediatamente dopo la trasformazione di Edward, anche se sto pensando di inserire qualche flash-back sulla vita umana di Ed). Inoltre non assicuro di riuscire ad aggiornare con una certa regolarità, visto che ho altre ff in cantiere senza contare poi gli onerosi impegni scolastici. Be', non faccio anticipazioni di nessun tipo e non dico nient'altro: voglio sapere cosa ne pensate a freddo. A presto!
Recensite
in tanti mi raccomando!!!!