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Autore: LammermoorLace    14/09/2015    0 recensioni
[La Boheme (Puccini)]
Era stato difficile seppellire quella notte negli abissi della memoria, ma dopo alcuni mesi Musetta era arrivata a credere di avercela fatta.
Poi si era accorta del suo errore.
Non poteva seppellire Mimì; senza di lei non era più la stessa. Aveva bisogno di ricordarla, di ricordare i loro scherzi e le loro confidenze, e tutto quello che c’era stato fra loro.
(…)
Il loro amore era stato pomeriggi di primavera passati a sollazzarsi, a ridere e fantasticare. Il loro amore erano stati i bisbigli, e i mille soavi momenti d’estasi, che si erano accesi e si erano consumati in silenzio. Era stato una brezza fresca d’estate, ed era stato mangiare la frutta procace di giugno senza paura di sporcarsi gli abiti, perché non se ne stavano indossando; il loro era stato un piccolo vitale amore, lungo quanto un giorno d’estate, che non sembra mai voler finire.
Ma era finito.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Damigella allo specchio
 
‘’ Ed assaporo allor la bramosia
Sottil, che da gli occhi traspira
E dai palesi vezzi intender sa
Alle occulte beltà.
Così l'effluvio del desìo tutta m'aggira,
Felice mi fa!
E tu che sai, che memori e ti struggi
Da me tanto rifuggi?
So ben:
le angoscie tue non le vuoi dir,
Ma ti senti morir! ,,
 
 
Musetta non si guardava più allo specchio come una volta.
Nei giorni d’oro dei suoi vent’anni, era stato diverso: Musetta arrivava a passare non poco tempo di fronte alla sua malandata ma fedele specchiera, adornandosi con fiori e fiocchi di ogni genere, vestendosi e svestendosi, truccandosi e pettinandosi solo per poi disfare l’opera e cominciare daccapo. Le piaceva guardarsi e rimirarsi, fare facce buffe e sorrisetti maliziosi, parlare a se stessa, fare giravolte, guardare fissi i propri occhi riflessi nello specchio per pensare, comprendere, riflettere. Era un po’ un gioco, un po’ una vanità, un po’ un modo come un altro di studiare i propri gesti e movimenti, e metterli poi in pratica con grande successo nelle mille occasioni della vita.
Davanti allo specchio Musetta provava le sue maschere, come una gran dama veneziana si preparerebbe per un ballo. La vita era davvero un ballo, in quegli anni; e in quella frenetica, frizzante e meravigliosa danza Musetta ci si perdeva di cuore. Era allegra, leggera, e soprattutto bella; perché Musetta, nella sua giovinezza, era stata di una bellezza come poche.
Le bastava camminare per una qualsiasi strada un poco affollata, e si sarebbe invariabilmente guadagnata occhiate d’invidia e ammirazione, complimenti, sorrisi, e qualche occasionale fischio. E a lei non dispiaceva: la bellezza era un’arma in suo possesso, che lei usava come le pareva e piaceva, senza pensieri, senza rimorsi.
Era stata bella, Musetta; bella e felice.
 
Poi c’era stata quella notte d’inverno, in cui lei era cambiata – perché niente era stato più lo stesso, dopo quella notte.
Musetta non amava ricordare quegli istanti, anzi: cercava di non farlo mai. Cercava di limitarsi a sfiorarli col pensiero, quei ricordi, quel tanto bastava per sentirsi le lacrime agli occhi, e percepire il bruciore di quella ferita, mai rimarginata. Ma, a volte, la diga si rompeva. Succedeva nel sonno, durante la notte. A distanza di anni, era successo sempre più raramente, ma la cosa non era mai smessa del tutto. Musetta sognava quella notte, quel Natale maledetto di anni e anni prima.
La piccola Mimì …  Musetta talvolta si svegliava ancora in preda a quei ricordi, con le guance rigate di sale e il cuore che batteva così forte da dolerle. In quei momenti, l’assaliva il terrore di non trovare Marcello nel letto accanto a lei, Marcello che aveva un petto caldo e due braccia premurose, Marcello che non l’aveva mai abbandonata.
In quei momenti, Musetta sentiva il bisogno di averlo vicino più che mai; perché, se non avesse avuto qualcuno a cui aggrapparsi, temeva che i ricordi l’avrebbero strappata via dalla realtà, e riportata a quella notte, costretta a rivivere quella morte.
Era stata la fine di un’era la morte della sua amica Mimì, della sua fragile dolce amica che amava il sole, ricamare fiori, e che amava il suo Rodolfo con tutta l’anima.
Spesso, erano le grida di lui che svegliavano Musetta; le grida laceranti, disperate, agonizzanti di Rodolfo, quando si era accasciato per l’ultima volta al capezzale di Mimì, ormai fredda e perduta.
Ma Musetta invidiava Rodolfo, in un certo senso. Lui si era bruciato nel suo dolore, brutalmente, in pochi terribili momenti. Per lei, invece, era stato diverso. Non aveva potuto gridare, né sfogare la sua angoscia come lui aveva fatto. A lei era stato chiesto (una richiesta silenziosa che lei aveva letto negli sguardi bassi degli amici di Rodolfo, e nei pugni serrati quasi al punto di sprizzare sangue di Marcello) di trattenere il suo dolore, di consumarsi. E lei aveva chinato il capo, e pianto appena, in silenzio. E aveva dovuto consolare l’amico mentre lei stessa si sentiva morire, e cercare di guarire un cuore infranto ignorando il pugnale che trafiggeva il suo.
Era stato difficile seppellire quella notte negli abissi della memoria, ma dopo alcuni mesi Musetta era arrivata a credere di avercela fatta.
Poi si era accorta del suo errore.
Non poteva seppellire Mimì; senza di lei non era più la stessa. Aveva bisogno di ricordarla, di ricordare i loro scherzi e le loro confidenze, e tutto quello che c’era stato fra loro.
Non poteva andare avanti senza Mimì.
Così, Musetta aveva scelto il dolore. A piccole dosi, tornava ai ricordi che aveva di lei, sempre con cautela, per non farsi troppo male. Il dolore tornava, senza eccezioni, ma tornava anche Mimì.
E allora Musetta sfogliava il libro dei ricordi, e in quelle pagine riviveva un’eco di ciò che era stata la sua giovinezza felice. Rivedeva Mimì e i suoi riccioli castano miele che tanto le invidiava; risentiva la cadenza timida e vivace della sua voce, s’illudeva di respirare ancora il suo profumo.
E se il suo cuore non ne aveva avuto ancora abbastanza, allora si spingeva oltre.
I segreti che avevano condiviso, le intimità, gli sguardi.
Gli abbracci da sorelle, e i baci da amanti.
E Musetta risentiva sotto le dita la pelle di lei, e le sue forme morbide e minute, i suoi seni piccoli come mele, la carezza lievissima dei suoi capelli d’oro e lo sfiorare furtivo delle sue labbra.
Il loro era stato un amore dolce, quieto, tranquillo. Il loro amore era stato pomeriggi di primavera passati a sollazzarsi, a ridere e fantasticare. Il loro amore erano stati i bisbigli, e i mille soavi momenti d’estasi, che si erano accesi e si erano consumati in silenzio. Era stato una brezza fresca d’estate, ed era stato mangiare la frutta procace di giugno senza paura di sporcarsi gli abiti, perché non se ne stavano indossando; il loro era stato un piccolo vitale amore, lungo quanto un giorno d’estate, che non sembra mai voler finire.
Ma era finito.
 
Era venuto il tramonto, e tutto era stato brutalmente cambiato. Mimì era morta quella notte, e tutti coloro che erano stati testimoni della sua morte ne erano stati irrimediabilmente distrutti.
Rodolfo aveva scelto di andarsene. Aveva detto che l’arte non lo avrebbe portato da nessuna parte, che le sue poesie erano vuote e inutili, e che non poteva più tollerare quella vita di povertà e illusioni. Rodolfo aveva troncato così ogni speranza e ogni legame con la vita che aveva vissuto fino ad allora. Era scomparso d’un tratto – e nessuno dei suoi amici lo aveva più visto. Musetta era l’unica che l’aveva davvero capito. Non condivideva la sua scelta, ma aveva compreso. Perché lei sapeva come lui si era sentito quella notte.
Perdere il proprio amore… lei sapeva quello che voleva dire. Certo, aveva Marcello. E Marcello l’amava, era evidente – non aveva mai smesso di amarla. E d’altra parte lei amava lui, il suono caldo della sua voce, i suoi modi vivaci e la sua totale ed instancabile dedizione nei suoi confronti. Musetta amava Marcello.
Ma Musetta aveva anche amato un’altra persona, una persona che le era stata strappata via così, senza una spiegazione, per volere del fato o di un Dio indifferente.
Le mancava terribilmente. Ogni respiro, ogni passo, era stato più pesante, meno vivace da quando lei se n’era andata. La vita aveva perso colore. I complimenti degli estranei erano diventati insignificanti e volgari; le canzonette d’amore che Musetta cantava nei Cafè le lasciavano un’asprezza insopportabile in fondo alla gola, le notti erano più buie, i Natali più freddi.
Musetta era un’altra. Meno lieta, meno curiosa, meno maliziosa, meno sé stessa.
Era cambiata tanto che non si guardava più allo specchio come una volta. Lo faceva saltuariamente, e il più in fretta possibile, per non guardarsi negli occhi, per evitare di capire, pensare, ricordare.
Perché quando si specchiava, vedeva il proprio viso pallido contrastare sulla parete alle sue spalle, e sapeva che non avrebbe più visto un altro viso roseo coi capelli d’oro venire a specchiarsi accanto al suo.
 
 
A/N:
Allora :)) quest’idea mi è venuta pensando a ciò che succederebbe dopo i “mimìììì” di Rodolfo che chiudono La Boheme, opera di Puccini, e cercando di vedere le cose un po’ dalla prospettiva di Musetta, che personalmente amo moltissimo come personaggio.
Lo slash ci stava, e lo slash c’è stato! E non lo rimpiango nemmeno un po’ <3
 
Le recensioni mi danno vita e motivazioni per continuare nella mia impresa (che sarebbe quella di tartassare EFP di fanfiction relativa all’opera lirica, in modo che prima o poi venga creata una sezione apposita e noi melomani possiamo trovarci e fangirlizzare tutti insieme :3 )
 
Quindi, vi prego. Date voce alle vostre opinioni senza timore :)
 
Vi amo come sempre,
Lou :*
  
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