I.
In un remoto angolo della galassia, enormemente distante dal suo centro, una piccola stella bianca brilla fiocamente nel silenzio circostante. In lontananza un punto appena visibile si libra in quell’abisso, roteando così dolcemente attorno alla sfera di fuoco, che esso pare corteggiarla danzando instancabilmente nella sua luce. Due amanti destinati a ricongiungersi solo all’ultimo fatale rintocco. Di certo però la piccola stella non poteva sapere che l’amore in cui si cullava dalla notte dei tempi proveniva, non tanto dall’ammasso roccioso, quanto da una strana e prodigiosa caratteristica intrinseca a esso, una palpitazione continua di energia, un fremito nascosto nell’essenza stessa della materia, la vita.
Da tempi ormai remoti essa si era insediata sul pianeta, il quale, nonostante la ospitasse ormai piuttosto benevolmente, manteneva un certo distacco da lei, quasi la ammirasse e temesse al tempo stesso. Si tramandava infatti che, ai primordi della sua genesi, il gigante avesse ricevuto la visita di un essere divino, Arwafer, e che costei avesse concesso in dono al suo ospite parte del suo respiro vitale. Questi inizialmente accettò tale privilegio malevolmente, poiché in esso si celavano innumerevoli pericoli e immense responsabilità. Quando poi giunse il tempo di riprendere il suo interminabile viaggio, Arwafer fu ingannata dalla falsa riverenza del suo ospite e, sicura che costui avesse compreso appieno l’unicità e la magnificenza del suo dono, lo abbandonò. Ma, nonostante le precauzioni prese dall’essere, il gigante si ribellò al suo destino e tradì la vita; i due entrarono presto in conflitto, e più il gigante architettava e tentava di estirpare la vita, più essa rifioriva dalle sue rovine rinvigorita, come una splendente fenice dalle ceneri dell’eternità. Le ere trascorsero e, accettata con rassegnazione la matrice divina della sua ospite, il gigante divenne sempre più mansueto nei suoi confronti seppure non cessando mai del tutto la sua ostilità.
Chiunque abbia mai abitato il pianeta tenne sempre a mente la storia delle sue origini divine, che venne così orgogliosamente tramandata di generazione in generazione, e anche all’epoca in cui il processo di evoluzione tecnologica e scientifica aveva ormai raggiunto l’apice vi erano alcuni individui che ancora serbavano e custodivano nel profondo del cuore le fantastiche peripezie degli avi. Ma la maggior parte degli abitanti si rifiutava di credere a questi miti antichi quanto il mondo stesso e si affidava alle verità scientifiche che le loro arti avevano saputo produrre nel corso dei secoli, passo dopo passo, brancolando nell’ombra. Ma come in ogni società sviluppata e civilizzata queste due opposte fazioni convivevano quasi del tutto pacificamente, cercando di convincersi reciprocamente che il pensiero degli uni fosse più ragionevolmente valido di quello degli altri. Non deve dunque sorprendere come coesistessero con tutti costoro anche alcuni divertenti individui che negli anni avevano subito l’influenza di entrambe le due scuole di pensiero e non riuscivano ad abbandonare del tutto la propria mente e il proprio spirito a una sola delle due; così essi vivevano sospesi tra antiche e mistiche tradizioni e, contemporaneamente, immersi in un marasma ribollente di tecnologia in continua evoluzione: una condizione piuttosto stravagante, ma forse l’unica che conduceva a un’esistenza piuttosto serena.
Uno di questi ultimi possedeva un piccolo studiolo al quinto piano di un vecchio palazzo della città di Darouk. Era un umanoide sulle cinquanta rivoluzioni, un po’ sovrappeso, ma vestito molto elegantemente, quasi come se volesse mascherare con una parvenza di agiatezza il suo aspetto piuttosto animalesco. Aveva abbandonato il suo grasso corpo su una vecchia poltrona di pelle color verde muffa, nell’enorme mano destra teneva un sigaro con aria impacciata, poiché le sue grandi dita parevano essere sul punto di spezzarlo a metà. Immerso nel denso fumo acre che aleggiava per tutta la stanza, dando col dito un colpo al sigaro fece cadere parte della cenere rimasta attaccata ad esso in un piccolo posacenere di alluminio appoggiato a un tavolinetto nero. Aveva le gambe distese sopra a una scrivania di legno e i neri pantaloni lasciavano intravedere al fondo di essi le calze sgualcite; se egli non fosse stato troppo immerso nelle sue dannazioni si sarebbe sicuramente accorto che dei formicolii gli stavano lentamente risalendo lungo tutta la gamba destra, poiché essa era schiacciata dal peso della gemella di sinistra. Da quanto tempo non riceveva un cliente nello studio? Da quando la gente aveva smesso di usufruire dei suoi servizi? Di certo egli pensava fosse passato più tempo di quello che realmente era intercorso, ma il tempo che viene ricreato dalla mente non è certamente confrontabile con quello naturale, poiché essa ha il vizio di obliare i ricordi dolorosi e di mantener fervidi quelli cari, modificando a suo piacere la struttura temporale. Così si ricordò della gioventù, di quando era stimato da tutti e ritenuto un personaggio intelligente e brillante, gli sembrò fosse ieri, o al massimo che fossero passati due notti, e che da un giorno all’altro la sua vita, e con essa la sua giovinezza, fosse crollata in un baratro oscuro di decadenza e disgrazia. Si sentì attanagliato dall’inesorabilità del tempo presente e dovette rapidamente slacciare i bottoni che chiudevano il colletto della camicia di seta.
Il vecchio umanoide aveva appena deciso di slacciarsi altri bottoni posti leggermente più in basso per portare un po’ di sollievo in quella giornata torrida, nella quale anche il caldo pareva essere diventato un suo umidiccio avventore, quando all’improvviso una chiazza rosso porpora apparve dietro il vetro bluastro della porta d’ingresso, della frase “Detective V. Hapto” che in lettere adesive campeggiava sul ruvido vetro, non rimanevano che poche sillabe sgualcite che proiettavano una triste e pallida ombra sul parquet di legno beige. Hapto trasalì nel notare che quella macchia si stava via a via ingrandendo, trasse le gambe dal tavolo e balzò in piedi il più velocemente possibile. Prese così a muovere passi incerti verso la scrivania e distrattamente urtò il tavolino su cui poggiava il posacenere che cadde rovinosamente al suolo; un’enorme nube di cenere si alzò dunque in aria turbinando come provenisse da un enorme vulcano in eruzione. -Non me ne va bene una!- pensò irritato, mentre si chinava a recuperare il posacenere metallico su cui figurava una piccola incisione che recava le parole “Da Salko”. Intanto la persona misteriosa aveva fatto ormai capolino e stava già bussando alla porta dello studio; tre battute risuonarono nell’aria viziata della stanza e Hapto, che stava tirando a sé la poltrona per celare la chiazza di cenere grigiastra che inerte giaceva sul pavimento, gridò –Entrate pure! E’ aperto!-. Dopo un istante la maniglia della porta si abbassò lamentandosi con uno scricchiolio metallico, la stanza fu pervasa da una luce con sfumature rosse e una voce femminile disse, imbarazzata –Il signor Hapto? Vilgo Hapto?-. Hapto, lasciata la presa sui braccioli della poltrona e giratosi di scatto, rispose bruscamente –Chi mi cerca?-; la gamba gli formicolava da impazzire.
L’umanoide era una signora distinta
sulla quarantina, dei boccoli biondi le ricadevano sulle spalle e un po’ di
rossetto le colorava le labbra, dandole una parvenza di salubrità. Portava un
vestito rosso che sembrava esserle stato cucito direttamente indosso, i suoi
fianchi ben definiti sembravano bruciare di vivo ardore sotto quei ricami
vermigli. –Che bambola!- pensò Hapto, non appena si fu ripreso dal bagliore
proveniente dal vano scala.
-Salve… Sono… Sono la signora Deblor. Spero… Spero di non averla disturbata…-
disse lei.
Hapto era sul punto di risponderle calorosamente alla bella signora, quando
notò che la sua tanta incertezza era dovuta a un particolare non poi così
estraneo a lui; ella guardava infatti verso il basso in una posa che
manifestava in ogni sua ombra un profondo imbarazzo. Il detective iniziò dunque
a tastarsi la grossa pancia con entrambe le mani, quasi per celarla a quello
sguardo inquisitore, e, indicandole la poltrona che aveva appena spostata, le
rispose –Bene, si accomodi pure! Non faccia complimenti-. La signora Deblor
ringraziò con un cenno della testa e si sedette, rassegnata.
-Signor Hapto! Sono venuta qui, nel suo ufficio, per proporle un lavoro-
-Che tipo di lavoro?- rispose Hapto, che intanto, fatto il giro della
scrivania, si era seduto sulla sua vecchia sedia di pelle nera.
-Vede signor Detective, io- la signora si interruppe bruscamente come se
qualcuno di invisibile le avesse improvvisamente tappato la bocca, ma non vi
era nessuno oltre a loro due nella stanza. Riprese dicendo -Io ho paura che mio
marito mi tradisca! Ecco tutto-.
“Dunque vuole che io lo becchi con le mani nel sacco, o meglio, con le mani su
un’altra pollastrella” avrebbe voluto replicare Habto, ma si limitò a pensarlo,
e scelse per le orecchie della signora Deblor parole più appropriate.
-Dunque vuole che spii suo marito?- le chiese.
-Sì, diciamo di si!- gli rispose.
-Be’ sembra un lavoretto facile; insomma- Hapto si interruppe, si girò verso un
mobile metallico, ne aprì un cassetto e, dopo aver scartabellato con il dito
tra una miriade disordinata di documenti, ne trasse un modulo spiegazzato che
pose davanti alla sua cliente, -Sì, ecco! Insomma lei dovrà compilare questo
modulo fornendomi tutte le informazioni che mi saranno necessarie per il caso-,
poi, protraendosi verso di lei, sfogliò qualche pagina e indicando con l’indice
in alcuni punti disse – Sa come funziona in questi casi, le solite formalità,
firmando qua lei si assicura il diritto alla privacy. Qua invece mi darà il
permesso di indagare su suo marito, sa, foto, video, roba così. Tutte questioni
burocratiche, stia tranquilla!-. Si sforzò immensamente di sorridere, senza
mostrare i denti ormai gialli per il fumo.
-Bene…- rispose la signora Deblor.
Riassestatosi per bene sulla poltrona, Habto continuò –Parliamo ora della
questione danarosa-, ma la signora lo interruppe a quella parola, con la stessa
foga di un cane da tartufo che abbia trovato il suo piccolo tesoro.
-Sì, ecco, per quanto riguarda il suo compenso, non è un caso che mi sia recata
proprio da lei…-
Habto smise di sorridere fintamente e si indispettì un poco.
-Vede, signor Habto, ora come ora non dispongo di molta liquidità, lei può
immaginare, ho due bambini-, il detective la interruppe.
-Signora, non starà per caso proponendomi di sfacchinare gratuitamente, vero?-,
era piuttosto indignato, nonostante il decolté della signora gli facesse
ribollire il sangue nelle vene. Tutte quelle sensazioni, si sentiva
ringiovanito di vent’anni.
-Signore, lei ha travisato le mie parole, mai le avrei chiesto di lavorare
gratuitamente, piuttosto le sto chiedendo di trovare un’altra soluzione al
pagamento che lei mi richiede-. Gli occhi di Habto avvamparono di fiamme.
-Lei… Lei intende- disse lui, ma lei lo interruppe subito dicendo –Esatto,
conservo ancora una piccola collezione di minerali, che mi ha lasciato in
eredità mio padre alla sua morte-. Ogni ardore nello sguardo di Habto si
spense; stava infatti per ridere fragorosamente, ma la donna non glielo
permise, aggiungendo -Ho cercato, mi sono documentata, so che vale qualcosa,
glielo posso dimostrare, ho dei documenti qua con me-. Con un gesto esitante
che suggeriva un certo timore, la signora Deblor trasse quindi dalla borsetta
nera che si portava appresso tre fogli spiegazzati e, avendoli aperti, si mise
a dire leggendo –Vede signore? Qua-, si bloccò per avvicinarsi un poco al suo
interlocutore, poi riprese –Qua c’è la lista dei minerali, e invece qua sono
indicate grandezza, peso e purezza. Infatti da queste tre caratteristiche
dipende il prezzo del minerale… Vede? I prezzi li ho segnati qua a lato; sommandoli
tutti il risultato è di circa ottocento myrir… Ho pensato che potessero andare
bene-.
Habto si accarezzava il mento con la mano destra e con i polpastrelli della
sinistra tamburellava dolcemente il tavolo; era alquanto perplesso. Con un
respiro profondo riacquistò la forza per parlare.
-Cara signora. Non posso accettare la sua proposta, anche se molto
allettante.-, entrambi in realtà sapevano che quell’ultima frase era unicamente
di circostanza, -Lei può immaginarsi come si concludano gli affari, con una
parte che vince e con l’altra che perde e in quest’ultimo periodo non posso
permettermi di essere quella che rimane fregata.-
La signora Deblor si era alzata malinconicamente dalla poltrona, aveva
recuperato i fogli dal tavolo e stava per voltarsi nella direzione dell’uscio
quando il detective, balzato in piedi e tesa la mano verso la donna, disse
–Allora arrivederci!-. Ella, che pareva essere nuovamente imbarazzata, si
limitò a guardare il pavimento di sbieco e, facendo un piccolo cenno con la testa
di rassegnazione, uscì dallo studio.
Habto vide la macchia di luce rossa rimpicciolirsi sempre più fino a scomparire dal rettangolo bianco di vetro. Rimase a lungo immobilizzato in piedi in quella stanzetta dall’aria umida e pesante, pareva infatti una statua di bronzo rozzamente lavorata e dai lineamenti duri e aspri. Continuava a strofinare le mani sulla pancia prominente, causa evidente dell’imbarazzo della signora Deblor, da cui non riusciva ancora a distogliere i propri pensieri. Doveva essere una donna sofisticata, con quel suo vestitino rosso cesellato di ricami; la immaginò mentre, giunta a casa e aperta la cerniera dell’abito, lasciava cadere quest’ultimo lungo i fianchi floridi sino al suolo, ritrovandosi completamente nuda. Non erano certo pensieri adatti ad un umanoide di cinquanta rivoluzioni, ma percepiva un fremito lungo la schiena che gli risaliva dal coccige sino alla sommità del capo. Decise dunque di sedersi e di riprendere ciò che non aveva fatto in tempo a iniziare, data la burrascosa visita della signora Deblor, che ora lo cullava in dolci pensieri di fuoco. Chiusi dunque gli occhi, allungò la mano verso il culmine dei pantaloni, e giuntovi si accorse all’improvviso che il dettaglio che aveva tanto imbarazzato la bella signora che regnava ora sulla sua mente, non era quella propaggine abnorme di carne con cui conviveva ormai da rivoluzioni. Egli aveva infatti la patta sbottonata. “Ormai il danno è fatto!”, pensò e si mise nuovamente all’opera.
Quando ebbe finito di sognare le carni proibite della signora Deblor, si sentì come svuotato da ogni volontà d’azione e, volendo stendere le gambe sulla scrivania di legno, si mise a ritirare i fogli del modulo che aveva sottoposto alla sua cliente. Notò però con grande sorpresa che quelle carte stropicciate e buttate alla rinfusa sul tavolo erano in realtà i documenti che la donna aveva estratto dalla sua borsetta. Preso quindi da un istinto ferino, si portò questi alla bocca e ne annusò il profumo, ispirando a pieni polmoni; essi avevano un odore acre e pungente e Habto non poté far altro che allontanarli dal proprio volto, segnato dal disgusto. Si mise perciò a leggerli distrattamente, come avrebbe subito fatto ogni persona munita di buonsenso, e pensò piuttosto divertito “Minerali”. Quella parola gli riportò alla mente ciò che era oggettivamente accaduto in quello studiolo poco prima, quasi come se, uscito dal suo corpo, avesse potuto rivedere la scena come un terzo personaggio indistinto, freddo e distaccato: quella puttana aveva cercato di fotterlo. Si sentì nuovamente eccitato da quell’idea oscura che gli aveva pervaso la mente, come tè nero in infusione nell’acqua bollente, e, prima che fosse troppo tardi, decise di alzarsi, di abbottonarsi finalmente i pantaloni e infine di andare a bersi qualcosa al bar di sotto.
Aperta la porta e discese le scale
sino al pianterreno, si trovò dinnanzi alla porta di servizio del locale che
dava sul vano scale e senza esitare la aprì e vi entrò.
-Ehi!- disse il detective che, sedutosi su uno sgabello, si abbandonò
distrattamente al bancone di finto legno.
-Signor Vilgo! Che piacere averla qua! Cosa posso- ma il barista, che parlava
mollemente, fu interrotto da Hapto che rispose bruscamente –Lascia perdere i
convenevoli vecchia lucertola e portami il solito!-.
Il rettile si allontanò con aria divertita, si avvicinò ai davanzali posti
dietro al bancone, ne estrasse una bottiglia verde e, preso un bicchierino dal
lavabo, ne versò il contenuto viola. Lo pose poi dinnanzi agli occhi spenti del
detective e disse –Eccoti vecchia botte-.
Hapto prese il bicchiere ma non bevve subito come il suo amico rettile si
sarebbe aspettato; iniziò infatti a giocare con il denso liquido violaceo che
riempiva il bicchiere, facendolo roteare sino al bordo di vetro. Un po’ di
liquido si riversò sul bancone.
-Oggi è venuta al locale una pollastrella in un abito rosso che sembrava
esploderle sotto le curve. Chiedeva del “signor Hapto, Vilgo Hapto,
detective”-.
Hapto bevve il liquame tutto d’un fiato.
-Avete finalmente rimorchiato dopo vent’anni di inattività?-. Il tork si mise a
ridere fragorosamente; Annetha, la cameriera umanoide che si trovava in quel
momento alla cassa, abbassò lo sguardo divertito.
Hapto tirò un pugno sul bancone, un posacenere metallico lì vicino traballò
emettendo tintinnii disarmonici. Su di esso v’era incisa in lingua tork la
scritta “Da Salko”.
-Non ti permettere Salko, questa è la volta buona che ti squamo vivo. Quella è
una donna rispettabile, una d’alta società, una vera Signora. Chiaro?- disse
prorompendo Hapto.
-Chiaro, chiaro…-, rispose il rettile piuttosto divertito, aggiungendo –Che
voleva da un vecchio porco come te?-.
-Una questione privata, certe rogne con certa gente; sai com’è, li vorrebbe
fuori dai piedi-. Nemmeno lui sapeva perché stesse difendendo quella vecchia
strega, ma ciò lo faceva sentire nobile d’animo e di spirito come un paladino
della Tavola Rotonda.
-Capisco…- disse rassegnato Salko, sicuro che a nulla sarebbe servito insistere
oltre col vecchio Vilgo. –Piuttosto, hai sentito di quel capo d’azienda
ritrovato decapitato ai giardini Farek? Ne parlano ovunque, stanno impazzendo
perché non riescono a trovare la testa. Dico io, stanno tutti perdendo la testa
per… Per una testa! Capisci?-. Quell’ultima triste uscita non avrebbe fatto
ridere nemmeno un imbecille, eppure Annetha prese a ridacchiare sotto i baffi.
La cosa, di norma, avrebbe urtato parecchio Hapto, che invece si limitò a dire
–Versamene un altro!-; aveva al momento altri pensieri che gli occupavano la
mente, lentamente addomesticata dall’alcol.
-Ho sentito, comunque. Ieri sera- riprese e, dopo essersi scolato il secondo
bicchiere di pito, decise che la sua vita era un totale fallimento.
-Ah, se ci fossi ancora tu a capo dell’investigativa; la troveresti in un
baleno quella testa!- disse Salko, mentre puliva il piccolo bicchiere di vetro
con uno strofinaccio consunto che teneva a cavallo della spalla destra.
-Non ho proprio bisogno delle tue patetiche smancerie da barista- rispose
l’umanoide e, lasciati dieci myrir sul bancone, si alzò dallo sgabello. Nel
portafogli, infatti, ve ne erano solo più due e decise dunque che la giornata
sarebbe stata già abbastanza triste anche senza parlare con quella decerebrata
di Annetha.
-Me ne vado a lavorare Salko. Buona giornata- disse zoppicando verso l’uscita.
-Buon lavoro!- rispose il rettile ironicamente.
Le tempie gli esplodevano mentre arrancava lungo le scale; dovette infatti fermarsi più volte a prendere fiato. Era come se gli avessero tolto il cervello, l’avessero messo in un frullatore e avessero infine riversato il contenuto rossastro nella sua scatola cranica. Giunto alla porta del suo studio la aprì ed entrò nella stanza, appoggiandosi poi al muro alla sua sinistra, per riprendere fiato. Ma quando la fatica scomparve e la sua mente fu finalmente liberata dalla gabbia in cui era costretta, il pandemonio sembrò sorgere nella sua testa dalle macerie dell’inferno. Corse perciò verso una porticina al fondo della stanza, la aprì e un odore di stantio pervase le sue narici; fece giusto in tempo a chinarsi sulla tazza e mettervi la testa dentro, evitando così che tutte le piastrelle del bagno fossero imbrattate da liquami puzzolenti e maleodoranti. Quando si fu un poco ripreso, decise che era tempo di mettersi al lavoro; si sciacquò la bocca al lavabo e si trascinò sino alla poltrona di pelle nera. La stanza ruotava attorno a lui, pareva animata da spiriti maligni, solo una chiazza rossa stava ferma nella sua mente come un punto di riferimento irremovibile; si lasciò cullare da quella luce calda e suadente e cadde in un sonno profondo.