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Autore: Lost In Donbass    05/10/2015    0 recensioni
Una nuova casa.
Una Lady Gaga depressa e innamorata, piena di sensi di colpa.
Una Avril Lavigne diabolicamente furba.
Un amore che forse è destinato a non finire mai.
Semplicemente, una breve e insulsa storiella d'amore tra Avril Lavigne e Lady Gaga.
Genere: Malinconico, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SO HAPPY I COULD DIE

-Ehi, Stef, ci sei?
La sua voce rimbomba nelle mie orecchie senza che io nemmeno me ne renda veramente conto. Sono parole che vanno, che vengono, che ritornano. Sono semplici suoni che io non registro, non ci faccio nemmeno più caso. Parole migratorie, che volano via, trasportate dai venti contrari, che vengono sballottate dalle correnti del nostro oceano, risucchiate da una continua marea che non mi vuole dare pace, che mi prende e non mi lascia mai arrivare a terra. Come se fossi un guscio di noce in balia di un intero mare da sconfiggere.
-Sì, certo! Sono sempre pronta!- sento me stessa dire, mentre mi levo gli occhiali da sole e sfarfallo un po’ gli occhi per abituarmi alla luce pungente che mi ferisce le pupille appena scendo dalla macchina. Credo che non mi abituerò mai al sole perennemente accecante della California, così dannatamente allegro, menefreghista delle pene che vive la gente che lui riscalda, brucia. Un po’ come un sadico giudice che si diverte a condannare gli imputati, anche se quelli piangono come bambini per ottenere la sua santa grazia.
-Ma sei proprio sicura della tua scelta?
Mi giro verso di lui, un mio vecchissimo amico di quando ancora non ero nessuno, che ora fa l’agente immobiliare, e che si è reso disponibile ad aiutarmi a trovare una casa lontana da New York. E soprattutto lontano da lei, dal suo sorriso, e da tutti i ricordi dolorosi che dobbiamo condividere.
-Certo, Jack. Convintissima!
Credo che il mio sorriso non inganni proprio nessuno, ma però maledizione, devo almeno fingere di non essermi disintegrata dopo di lei. Non posso far vedere alla gente, a me stessa, di star soffrendo dopo tutto quello che è successo tra me e lei. Devo auto convincermi che è stato meglio così, che lei non esiste più nella mia vita, che si releghi a un fantasma del passato, che si trasformi in un ombra da nascondere dietro a un velo di lacrime e malinconia, da non tirare più fuori. Come se fosse una casa degli spiriti, dove poterla lasciare per sempre, chiusa in una cassa, e fondere la chiave dopo averla incendiata nel mio cuore. Io non posso diventare uno spirito, trasparente, grigiastro, solo perché con lei è tutto finito. Finito, appunto. Devo metterci una pietra sopra, dimenticare. Ma come posso farlo? Come posso dimenticare il suo sorriso, il suo viso, i suoi capelli che mi scivolavano tra le dita quando ci facevamo la doccia? Come posso far finta di non aver mai baciato quelle labbra, di non aver mai sorriso impercettibilmente quando lei cantava e sapevo che cercava me dietro a quello schermo? Come potrò più scrivere canzoni, ora che lei non esiste più per me? Tutte quelle parole che lasciavo cantare alla parte dolce di me stessa, tutte per lei, per la sua bellezza, per il suo essere così speciale? A chi rivolgerò il mio sguardo durante i concerti, ora che so che lei non mi guarderà più? Forse sto drammatizzando troppo, come al solito quando si tratta di lei, forse sono la sola che si sta facendo tutti questi problemi. Come minimo lei si sarà anche già scordata di me, dei nostri baci, delle nostre carezze. Avrà trovato già qualcun altro a cui affidarsi, qualcuno di reale, magari anche un uomo per quello che ne posso sapere io. Non voglio ammettere a me stessa che mi manca come può mancare l’acqua al mare, che la vorrei ancora vicina a me, trasferirci insieme nella nostra nuova casa. Ora, addirittura, potrebbe esserci anche lei qui con me e Jack, a salire le scale di basalto del portico con le colonnine di arenaria, osservando il mare cristallino che si estende a perdita d’occhio sotto di noi, la Santa Barbara tranquilla e sconosciuta che riposa e ronza come una grassa ape sotto la mia nuova villa. Che sarà sicuramente vuota, senza la sua iperattività.
 
I love that lavender blonde, the way she move, the way she walks, I touch myself can’t get enough …
 
Jack apre la porta, spessa, con due splendidi batacchi d’ottone a forma di mano che sicuramente mi faranno compagnia in questo “soggiorno creativo”. E depressivo.
Entro in una sala dalle grandi finestre spalancate, dove lunghe tende bianche trasparenti ondeggiano leggere alla brezza del Pacifico. La costa ovest ha sempre il suo indiscutibile fascino, anche per una della costa est come me. Il pavimento di graniglia fa rimbombare i miei tacchi esagerati, perché ok, lo so sono veramente bassa. E lei è ancora più bassa di me. A volte era divertente, quando ci prendevamo in giro da sole, e ci travestivamo dalle due “Super Tappe Save The World”. A me sono sempre piaciuti i super eroi della Marvel, a lei è sempre piaciuto travestirsi, e così mettevamo insieme le due cose, per giocare come due bambini. Per dimenticarci per un po’ di tempo della fama planetaria che entrambe abbiamo, dei preconcetti che ha la gente su di noi, di tutto il nostro mondo di superstar. Per poter brillare per un po’ una per l’altra, e non per gli altri. Solo per essere me e te. Solo per essere Stefani e Avril.
 
And in the silence of the night, trough all the tears and all the lies, I touch myself and it’s all right …
 
-Vieni, ti faccio vedere il salotto.
Seguo Jack in un salotto enorme, che si affaccia su un balcone di marmo bianco, decorato con quelle statue neoclassiche che io adoro toccare, accarezzare, a cui amo parlare. Già lo facevo quando ero piccola, adesso sono come il mio diario segreto. Parlo loro, racconto a voce alta nella notte tutto quello che provo, mentre piango lacrime amare che sanno di trucco, del whiskey che bevo a fiumi, che profumano ancora del suo profumo. Dei suoi capelli biondi e delle sue ciocche tinte di verde e di rosa. E ora lo farò ancora di più, per sfogarmi della situazione paradossale che sto vivendo. Piango, per una donna che io stessa ho lasciato. Piango, per il disastro irreparabile che ho combinato. Piango, perché sono Lady Gaga, e sono un pagliaccio vivente.
 
Just give in, don’t give up baby, open up your heart and your mind to me; just know when the glass is empty, and the world is gonna bend …
 
Mi appoggio al divano verde scuro con le nappe che occupa il centro della stanza, di fronte a un grande camino che riprende lo stile barocco ma che immagino sia puramente di immagine. Sinceramente, chi è che si mette ad accendere un camino in California?! Anche se lei ne sarebbe capace …
Osservo il tavolino di vetro sopra il grosso tappeto persiano, e penso a me e lei avvinghiate su un tappeto molto simile, nella sua casa di Napanee. Quando mi ci aveva portato, facendomi vedere quella parte di Canada sconosciuta alla gente, facendomi vedere il suo Canada. Fatto di cittadine troppo piccole, qualche moneta guadagnata per aver tagliato l’erba al vicino, di partite di hockey su ghiaccio viste tutti schiacciati nell’unica tavola calda del paese a bere succo d’acero e mangiare pancake semi bruciacchiati.
Del tutto diversa dalla mia New York, la stessa città che le ho fatto riscoprire, quella della Broadway presentata come un serpente affamato alla ricerca di nuovi talenti. La NY di un Central Park pieno di passaggi segreti e di appostamenti dove colpire le coppiette, come le avevo insegnato a fare, con le ghiande, fino a stordire i due innamorati e fuggire via ridendo, tentando di non farci riconoscere dalla gente. La stessa città dove c’erano quei pub irlandesi dove eravamo andate ad ubriacarci e dove le avevo fatto vedere dove mi ero fatta i buchi per la prima volta, in un bugigattolo nascosto dietro al bancone.
Tutte quelle differenze e quelle meraviglie che ci eravamo mostrate a vicenda dei luoghi della nostra infanzia, aprendoci a vicenda mondi che nemmeno sapevamo di aver chiuso a chiave.
 
Happy in  the club with a bottle of red wine, stars in our eyes cuz we’re having a good time, eh-eh eh-eh so happy I could die.
 
Seguo mollemente Jack nel salone, e da lì in una stanza adiacente veramente enorme. Un grosso lampadario di cristalli pende dal soffitto, un pianoforte a coda di un bianco accecante brilla in un angolo, illuminato dalla luce potente che entra dalle immense vetrate che si aprono sul terrazzo. Il pavimento a quadri riflette i bagliori del lampadario, goccia splendente di cristallo puro, come i muri bianchi e rifiniti d’oro. Quel kitsch che la sottoscritta ama alla follia. Penso che sia stata una buona idea affittare questa casa, per qualche settimana di riposo e lavoro al nuovo disco. Ma soprattutto da disintossicazione da Avril.
Faccio una goffa giravolta ridacchiando. Mi viene in mente di tutte le volte che alle varie feste in discoteca, premiazioni, interventi in televisione, io e lei ci mettevamo a ballare. Lei che fingeva di pogare malamente con la sua gonnellina inguinale, io che rischiavo sempre di volare per terra sui tacchi troppo vertiginosi. Ci tenevamo in piedi a vicenda, come nella vita reale, come se fossimo l’ancora e la nave. Giro ancora, e ricordo quella sera del nostro anniversario di fidanzamento. Per mano, in casa nostra. A roteare su una qualche canzone classica sconosciuta al nostro repertorio, insieme, senza nessuno che commentasse, che fotografasse. Solo noi, Chopin, e il nostro amore. Che ora sembra essere andato a male, deteriorandosi col tempo. Come se fossimo due puntine di un giradischi troppo usato.
 
I’ll be your best friend, yeah I’ll love you forever; up in the clouds we’ll be higher than never , eh-eh eh-eh … So happy I could die, and it’s all right.
 
Credevo che fosse una cosa infinita, la nostra storia. Come eravamo diventate amiche, trovandoci nello stesso momento nello stesso posto. Entrambe sotto i riflettori, puntate come le due nuove stelle della scena. Pensavo che non avessimo nemmeno potuto soffrirci, io e la Lavigne. E poi ci siamo ritrovate, quasi per caso, sedute allo stesso tavolo dello stesso caffè, a chiacchierare amabilmente come fossimo amiche di vecchissima data. Ed è continuato così, prima come amiche, come colleghe, capendo alla perfezioni i problemi una dell’altra, mettendoci a nudo come stessimo parlando con il nostro specchio personale. E poi, lo specchio si è evoluto a una cascata d’anima tra cui passare attraverso, fondendoci finalmente l’una con l’altra, rimanendo intrappolate nel velo d’acqua che si era venuto a formare tra i nostri corpi e i nostri pensieri. Avevamo cominciato ad amarci, a non poter più essere “solo amiche”. Dovevamo poter esternare l’amore scottante che ci incendiava il cuore; un qualcosa di nascosto, mai accertato, eppure quasi palese. Non abbiamo mai fatto niente per smentire le dicerie, né per alimentarle. Non ci importava: eravamo noi, e questo ci bastava e avanzava.
 
As I’m in vain as I allow, I do my hair, I gloss my eyes, I touch myself all through the night …
 
Mi guardo nel grosso specchio del salotto, e studio I miei occhi troppo truccati, dove ho palesemente tentato di nascondere le lacrime che mi scorrono sulle guance ogni sera che realizzo l’assenza della mia Avril. Le labbra che invocano le sue, le mie guance che si stanno facendo smunte da quando lei non c’è più, che tento di tenere su con strati di trucco. Guardo i miei vestiti, di solito sempre così esagerati, perché io sono Lady Gaga e sono L’Esagerazione, e ora di una brutta tinta nera e di paillettes, per la nostra rottura. Che brilla come una supernova nel cielo. Mi giro verso Jack che mi guarda con quella sua faccia lunga e perennemente mogia, mentre mi fa segno di seguirlo su per quella scalinata quasi monumentale che porta di sopra, dove ci sono le camere da letto. E dove io cercherò di scordarla per sempre, nascondendola nelle mie canzoni. Impegnati, Stef, non farti distrarre dalla tua canadese.
Gli sgattaiolo dietro, guardandomi attorno stupefatta, con una smorfia quasi infantile, la mano guantata stretta al corrimano di marmo bianco di Carrara. Il corridoio è lungo e stretto, con un grosso tappeto verde e alcuni quadri della scuola di Kandinsky appese alle pareti, la brezza che filtra da due finestre spalancate, che fa entrare un ottimo profumo di fiori che decorano il giardino. Inspiro a pieni polmoni questo ottimo profumo, che mi ricorda tanto quello della sua pelle candida …
 
And when something falls out of place, I take my time, I put it back, I touch myself ‘till I’m on track …
 
-Vieni, questa sarà la tua camera da letto. Mi raccomando, fai attenzione con quei tacchi, Steffy.
Alzo lo sguardo su Jack e vedo un’impercettibile sorriso curvargli le labbra sottili. Ma che diavolo sta dicendo?! È tutto il giorno che ce li ho ai piedi e si ricorda solo adesso di dirmi di fare attenzione? Non riesco a capire, lo ammetto.
Faccio un gesto piuttosto inconsulto con la mano, entrando nella stanza baciata dal sole. Cos’è che dice il detto? “Il sole bacia i belli”. Non ci ho mai creduto veramente, a parte quando baciava lei. Allora potevo anche ritrattare tutte le mie convinzioni, la mia religione, le mie credenze. Aveva il dono speciale di sconvolgere quel poco di sicurezze e mondo sicuro che mi ero formata nella testa. Certezze che ormai si sono disgregate, senza lasciarmi il tempo di recuperarle. È come se avessi perso il treno di una vita, come se fossi rimasta da sola nel deserto, avendo perso l’ultima carovana che sarebbe mai passata di lì. Sono una esule, nel cuore. Sono raminga, in fondo all’anima. Come polvere depositata su un microfono che amplifica ai sordi quello che sento dentro.
Mi guardo in giro, osservando la tappezzeria verdolina, con il grosso letto a baldacchino che sarà scomodo senza i suoi ciuffi rosa sparsi sul cuscino di un triste verde scuro; il grosso armadio a scomparsa in un angolo, un’enorme toeletta con uno specchio barocco riflettono la mia smorta immagine, ampliandosi con l’azzurro del cielo e il sordo rumore dell’oceano che culla questo silenzio degno di un camposanto. Di nuovo un Kandinsky sulla parete di fronte al letto, insieme a un tavolino e a un grosso mazzo di rose rosa e rosse fresche che paiono appena raccolte. Mi avvicino alle rose, e ne prendo una in mano, annusandola. Sa così tanto di lei … quel profumo fresco, sbarazzino, ma in fondo dolce, quell’odore che ancora certi miei vestiti hanno, che è impregnato nei miei capelli, che sento ancora nelle narici. Mi pungo il dito con una spina, perché come al solito sono disattenta mentre maneggio le rose. Un po’ come maneggiavo lei, tanto che alla fine mi sono dolorosamente punta. E la spina si è spezzata, rimanendo dentro al mio dito.
Mi lascio sfuggire uno squittio, portando il pollice alla bocca, e ciucciando la stilla di sangue che subito è apparsa a decorare la punta del dito.
-Non hai ancora capito come toccare le rose, Stefani?
Mi immobilizzo, come mi avessero congelato sul posto. Io conosco quella voce. La conosco perché mi parlava in continuazione. Perché rideva di ciò che dicevo. Perché piangeva per me. Perché mi consolava. Perché mi prendeva in giro. Perché cantava canzoni che erano scritte solo per me. Perché mi mostrava un modo nuovo di vedere le cose. Perché mi ha insegnato cosa vuol dire vivere. Perché mi ha fatta soffrire più di qualsiasi persona al mondo. Perché mi ha accompagnato come una sorella, un’amica, un’amante. Perché è la voce della donna che amo.
Mi volto di scatto, gli occhi fuori dalle orbite dallo stupore, e la vedo in piedi dinnanzi a me, con le mani sui fianchi, i lunghi capelli biondi che le ricadono sulla schiena, la gonnellina inguinale e le calze a righe troppo alte. Gli occhi da panda, un sorriso che tenta di nascondere, ma che fa capolino dalle sue labbra scherzose.
-A … Avril?- dico, con voce talmente strozzata che quasi non mi riconosco.
-Sì, Stef. Avril, a cui manchi troppo per poter pensare di non venirti a rompere proprio nella casa che hai affittato per disintossicarti da lei.
Indica con la testa Jack, immobile sulla porta, come un pinguino, un lievissimo sorriso stampato in volto, come i vecchi maggiordomi dei libri anni 30. Allora lui lo sapeva. Era d’accordo con la mia fidanzata per tendermi questo tranello! Tranello, ma che dico?! Splendida cosa, astro del cielo caduto sulla Terra per me. La nostra supernova continua a brillare nel cielo, non si è spenta. Io l’ho detto, non si spegnerà mai. Noi siamo le due stelle che continueranno a tenerla viva, che non smetteranno mai di illuminare a giorno la loro nebulosa.
-Avril!- urlo, questa volta, e potrei sembrare infantile mentre mi slancio addosso a lei, le lacrime agli occhi, perché forse non è tutto perduto. Forse potrò ancora cantare per qualcuno, forse potrò ancora vedere i suoi occhi che mi cercano al di là dello schermo. Forse sarò ancora in grado di tirare fuori la mia arte per la mia donna, e annunciarlo velatamente al mondo che ci ha elevate a Imperatrici.
-Stefani!- strilla lei, ancora più forte, facendomi rotolare sul tappeto, perché se lei non fa casino, non è contenta.
Rotoliamo per terra, le mie lacrime salate che si mischiano con le sue, le nostre bocche che cozzano l’una contro l’altra, fameliche, tristi, allegre, rabbiose. Innamorate. E insieme.
 
So happy I could die, and it’s all right …

***
Ciao a tutti/e la Little Monster! E' la prima volta che scrivo su LG, e mi rendo conto che è uno schifo unico e inimitabile ma ... dovevo farlo. Cioè, mi è venuto naturale fare un'insensata e paradossale vicenda di cuore tra le mie due cantanti preferite e idole: Avril e Gaga. Amo quelle due, troppo. Bene, allora scusatemi ancora tanto per la scemenza, comunque spero che a qualcuno sia piaciuta.
Baci,

Charlie.

 
  
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