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Autore: Mary P_Stark    09/10/2015    1 recensioni
Lithar mac Lir, gemella di Rohnyn, porta con sé da millenni un misterioso segreto, di cui solo Muath e poche altre persone sono al corrente. Complice la sua innata irruenza, scopre finalmente parte di alcune tessere del puzzle di cui è composta la sua esistenza, ma questo la porta a fuggire dall'unica casa - e famiglia - che lei abbia mai avuto. Lontana dai fratelli tanto amati, Lithar cercherà di venire a patti con ciò che ha scoperto e, complice l'aiuto di Rey Doherty - Guardiano di un Santuario di mannari - aprirà le porte ai suoi ricordi e alla sua genia. Poiché vi è molto da scoprire, in lei, oltre alla sua discendenza fomoriana e di creatura millenaria, e solo assieme a Rey, Lithar potrà scoprire chi realmente è. - 4^ PARTE DELLA SERIE 'SAGA DEI FOMORIANI' - Riferimenti alla storia nei racconti precedenti
Genere: Mistero, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Saga dei Fomoriani'
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Tergendomi il viso con il dorso della mano, sorrisi soddisfatta nell'osservare la catasta di scatoloni che, assieme a Bryan, avevo scaricato dal camion.

Al mio risveglio, che era coinciso con l'arrivo dell'alba alle nostre spalle, il mio fortuito salvatore si era presentato con il nome di Bryan Fitzpatrick.

A lui, mi ero presentata con il nome che usavo tra gli umani, e lui mi aveva promesso, strizzandomi l'occhio, che non avrebbe detto a nessuno di avermi vista.

L'avevo ringraziato profusamente e lui, con aria malinconica, mi aveva accennato a certi guai che la figlia aveva avuto con il primo fidanzato.

Dalle sue parole, avevo compreso immediatamente cosa l'avesse spinto ad aiutarmi.

L'idea che un'altra donna potesse soffrire a causa di un uomo, doveva averlo turbato molto.

Era stato un vero peccato non potergli raccontare il vero, ma avevo apprezzato molto la sua gentilezza.

Per sdebitarmi, perciò, l'avevo aiutato a scaricare parte del carico, una volta giunti a Harrisgrove.

La brina ricopriva ogni cosa, in quella fredda mattina di gennaio, e solo un caso fortuito aveva voluto che la pioggia della notte precedente non fosse mutata in neve.

L'aria umida, però, si era ora tramutata in gelido alito di vento, e dubitai che il tempo sarebbe stato altrettanto clemente, se il temporale avesse ripreso forza.

Bryan, fissando il cielo plumbeo e rigonfio, borbottò un'imprecazione e, spiacente, mi disse: “Mi piange il cuore a lasciarti qui, ma devo continuare le consegne e rientrare a Dublino.”

“Va bene così, Bryan. Hai già fatto molto, per me” lo ringraziai, scuotendo il capo per chetare le sue paure.

L'uomo si grattò la guancia ispida di barba, si guardò intorno e infine dichiarò pensieroso: “Laggiù, in fondo a quella strada laterale, c'è una fattoria. Magari, puoi chiedere al proprietario se puoi fermarti per un po’ lì. Visto quanto sei forte, potresti essere utile come manovale, almeno finché non avrai capito cosa fare. Il giovane Rey lavora sempre da solo, e dio solo sa se non gli serve una mano, ogni tanto!”

Incuriosita, lanciai un'occhiata dietro di noi, dove si trovava la piccola strada di campagna indicatami da Bryan.

Poco oltre, dove potevo scorgere interi campi coperti di bianca brina, si intravedeva una proprietà, composta da una casa e diversi capannoni.

“Dici che vorrà una donna come aiutante?” domandai, scettica.

Sapevo che gli umani erano piuttosto restii a dar voce – e peso – alle donne.

“Rey Doherty guarda al sodo, credimi. E, se la vuoi sapere tutta, credo che sia l'unico sano di mente, nella sua famiglia, per cui capirà subito di che pasta sei fatta” borbottò, prima di aprirsi in una risatona divertita.

Accennai un sorrisetto, non sapendo bene come prendere quella frase.

Che la famiglia di questo Rey fosse stata vittima, nei secoli, di tare ereditarie?

“Vado spesso da lui per ritirare la lana delle sue pecore, perciò potremmo anche rivederci, Lisa.”

“Proverò a parlarci, allora, se mi dici che ci si può fidare” assentii, trovando piacevole l’idea di rivedere quell’uomo gentile.

“Uno che si sobbarca l'azienda agricola dei nonni, e ci rimane per curare la nonnina malata, non può essere proprio cattivo” ironizzò Bryan, dandomi una pacca sulla spalla, non senza una certa fatica.

Con il mio metro e ottantacinque di altezza, ero più alta di lui di tutta una testa.

“Due spalle forti, le tue, ragazza” commentò, guardandomi tutto sorridente.

“Già” assentii, impacciata.

Restai in disparte quando Bryan venne pagato e, dopo aver recuperato la mia borsa e il poncho, lo salutai e mi incamminai su una laterale della Regionale 627.

Senza volgere lo sguardo, ascoltai il suo camion allontanarsi lungo la strada e, proprio in quel mentre, i primi candidi fiocchi di neve iniziarono a cadere.

Mi rinfilai perciò il poncho per non bagnarmi e, con calma, procedetti fino a raggiungere la fattoria indicatami da Bryan.

Lì, trovai il cancello in metallo chiuso con un lucchetto, e un curioso cartello appeso sopra.

'Se trovate il cancello aperto, vuol dire che sono a casa, e il cane non vi mangerà. Se provate a entrare quando il cancello è chiuso e io non ci sono, fatti vostri. La pellaccia che divorerà non sarà la mia.’

Il messaggio terminava con un buffo cerchio, a cui erano stati disegnati due puntini come occhi e una bocca zannuta.

Mi fece pensare a qualcuno di molto arrabbiato ma, mio malgrado, trovai tutto il messaggio assai divertente.

Solo una persona con dello spirito, poteva abbinare un simile disegnino a un messaggio informativo.

“Oh... beh, aspetterò” mormorai tra me, cercando un punto utile dove sistemarmi con la mia sacca.

Inquadrato un ceppo, lo spazzolai dalla poca neve caduta e mi ci accomodai sopra.

Piazzai la sacca sulle ginocchia, la riparai con la tela del poncho e iniziai ad attendere.

In quel posto, il silenzio era assoluto e, complice la neve, tutto sembrava ovattato, tranquillo, in pace.

Dalla mia posizione acquattata, scorsi solo dei muretti a secco, una siepe di bosso e dei capannoni, nella proprietà dei Doherty.

La casa era in parte riparata alla vista da una fila di betulle mentre un cane, in lontananza, lanciava ogni tanto un cauto abbaiare.

Non avendo molto altro da fare, oltre a pensare, mi concentrai sulla respirazione per rallentare i battiti del cuore e, nel contempo, rimuginai.

Visto che le batterie dell’iPod erano andate, nel corso della notte – l’avevo dimenticato acceso – non potevo fare altro, anche quanto.

Le parole di Muath e Tethra erano state illuminanti quanto atroci, e avevano aperto uno squarcio senza fondo nella mia vita.

Ora, comprendevo il perché di molte cose.

Gli sguardi dubbiosi delle levatrici e delle infermiere – loro dovevano aver saputo fin dal mio arrivo a Mag Mell – così come le risposte laconiche di Muath.

Mi era stato tenuto segreto tutto fin dai miei primi mesi di vita, e ora la verità mi giungeva su un piatto tinto di sangue e bugie.

Perché non me ne avevano parlato?

Perché mi avevano fatto credere, per ben quattromila anni, di aver preso da fantomatici antenati che non avevo mai conosciuto?

Mi ero sempre sentita diversa, anomala, pur con tutte queste rassicurazioni.

Beh, anomala la ero davvero visto che, nel mio corpo, scorreva sangue Tuatha.

Tutti noi avevamo combattuto contro i miei avi, uccidendone molti in battaglia.

Forse, uno di noi – o addirittura io - aveva dato la morte alla mia vera famiglia, …chissà.

Eppure, non riuscivo a odiare i miei fratelli… coloro che avevo considerato miei fratelli fino al giorno precedente.

Ricordavo fin troppo bene gli anni delle senturion, la forza che ci eravamo scambiati l'uno con l'altro.

Avere loro al mio fianco mi aveva evitato di impazzire, o cedere.

Volevo loro bene, nonostante tutto, eppure non mi ero fidata a raggiungere Rohnyn, che pure avevo considerato da sempre il mio gemello.

Sapere che non lo era mi aveva ferita, aprendo uno squarcio in me difficilmente colmabile.

Quanti di loro sapevano? O, anche loro, erano stati presi in giro per tutto quel tempo?

Cosa avrebbero detto, sapendomi figlia dei loro più antichi nemici?

Mi avrebbero odiata? Ripudiata perché non ero veramente loro sorella?

Sospirai, scuotendo il capo per il fastidio e, concentrandomi solo sulla respirazione, cacciai ogni pensiero dalla mente.

Osservai il lento discendere della neve, lasciando che il mio corpo si uniformasse a quel ritmo pacato e confortante.

Ogni mio muscolo si rilassò, le mani allentarono la presa sulla sacca e, lentamente, tutto rallentò.

La neve, nel frattempo, iniziò a depositarsi su di me, ma io non vi badai.

Non sentivo il freddo, la sete, la fame, la stanchezza.

Ero stata addestrata dai fomoriani a non sentire nulla di tutto ciò.

Dei Tuatha, invece, avevo solo conosciuto i punti deboli ma, a parte questo, non mi ero mai interessa a nient’altro, su di loro.

In quel momento, invece, avrei voluto sapere ogni cosa.

“Cosa sono, in realtà?” mormorai, non sapendo darmi una risposta.

 
***

Il borbottio di un motore mi riscosse dalla trance in cui ero caduta e, levato il capo per curiosare, mi ritrovai a sputacchiare neve per diretta conseguenza.

Non mi ero accorta di essere diventata un pupazzo di neve vivente.

Dovevo aver accumulato almeno venti centimetri di candore niveo, sul poncho.

Mi levai in piedi, lasciando che la neve cadesse dal mio corpo e, lanciata un'occhiata in direzione del mezzo in avvicinamento, sperai che fosse il padrone della fattoria.

Bryan mi aveva detto il suo nome, ma non gli avevo domandato di descrivermelo.

Alla peggio, avrei fatto una brutta figura, ma poco importava.

Il mezzo rallentò dopo essersi spinto cautamente sulla neve fresca, ormai alta più di trenta centimetri.

Ne scese un uomo infagottato in un pesante maglione grigio dal collo alto, con una sorta di coppola scura ben piantata in testa.

Aprì il cancello a mano, armeggiando con una grande chiave dopodiché, volgendosi verso di me, inclinò il capo e domandò: “Sei Jack Frost1, o c'è qualcuno, sotto quel poncho imbiancato?”

Il suo tono non fu irriverente, ma cordiale e allegro, perciò sorrisi.

“Sono in cerca di un lavoro, anche temporaneo. Il signor Bryan Fitzpatrick mi ha mandato qui da lei e...” Mi interruppi, essendomi scordata un particolare piuttosto importante. “Lei è il signor Doherty, spero…”

I suoi occhi color cioccolato mi sondarono con curiosità e, dopo un attimo, lui annuì.

“Conosci quella buon'anima di Bryan, allora?”

“Beh... è esagerato dire che ci conosciamo...” tentennai, non sapendo quanto ammettere e quanto omettere. “... però, mi ha detto che avrebbe potuto aiutarmi. O meglio, che io avrei potuto aiutare lei con i lavori in fattoria.”

Mi stavo impappinando, e non era certo da me. Ma quando mai mi era capitato di trovarmi in una situazione simile?!

A quel punto, Rey si grattò la nuca, da cui spuntavano neri capelli arricciati sul colletto del maglione e, lanciato uno sguardo alla sua proprietà, borbottò: “Beh, se prometti di non fare male alla mia nonnina, puoi anche entrare. Non mi va di parlare sotto la neve e, a giudicare dal mucchio formatosi ai tuoi piedi, tu sei qui da un po'.”

“Che ore sono?” mi informai a quel punto, pensierosa.

“Le tredici passate, perché?”

“Allora, sono qui dalle nove” dissi soddisfatta.

Lui strabuzzò gli occhi, costernato, mi ordinò di precederlo nel cortile e, dopo essere risalito sul mezzo, entrò a sua volta.

Affondai perciò i piedi nella neve, inzuppando definitivamente le scarpe da ginnastica.

La coltre nivea penetrò all'interno, raggelandomi piedi e dita, ma non mi lagnai.

Era già tanto essere riuscita a entrare.

Osservai il camion mentre si fermava sotto un portico asciutto e, un attimo dopo, ne discese Rey, armato di un borsone a tracolla su una spalla.

Mi corse incontro, mi lanciò un'altra occhiata dubbiosa ma poi disse: “Vieni. Hai bisogno di caldo e di un posto asciutto. E' già un miracolo che tu non sia morta per ipotermia, lì fuori. Ma che ti diceva, la testa? Non potevi aspettare da qualche parte, prima di presentarti qui in cerca di un lavoro?”

“No” dissi con semplicità.

Lui allora mi guardò stranito e, aggrottata un poco la fronte, mi domandò: “Perché sei qui? E per qui, intendo la zona, non casa mia. E’ chiaro che non sei di queste parti. Il tuo accento è davvero strano, sai?”

“Mi trovo qui per puro caso, signor Doherty. Sarò sincera, visto che mi sta offrendo, almeno per il momento, un tetto sotto cui stare.”

Presi un gran respiro, e aggiunsi con caparbietà: “Sono in fuga dalla mia famiglia. Ci sono divergenze inconciliabili che non mi permettono di tornare e, al momento, le uniche cose che ho sono in questa sacca.”

Gliela mostrai, ma lui guardò le mie scarpe bagnate e basta.

“Starai gelando...” mormorò, preoccupato.

Mi sospinse verso casa e, dopo aver aperto la porta, mi precedette nell’anticamera.

Lì, mi indicò un appendiabiti, dove appesi il poncho perché gocciolasse senza far danni al pavimento di casa.

Con la sacca in una mano e le scarpe bagnate nell'altra, entrai poi attraverso una porta in pesante legno chiaro, e mi ritrovai in un salottino accogliente e caldo.

Un'enorme stufa in maiolica, dai colori caldi e autunnali, lasciava trapelare da sé un calore piacevole e confortante.

Notai anche un camino, a cui erano accostate alcune poltrone dal telaio ligneo, in quel momento spento.

Lo sguardo mi corse alla cucina, ordinata pur se ricolma di oggetti.

Era calda anch’essa, sapeva di vita vissuta e, soprattutto, di tepore familiare.

Sospirai impercettibilmente e Rey, afferrata la mia borsa, mi ordinò: “Siediti sulla panca accanto alla stufa. Ti scalderai prima e, nel frattempo, mi dirai in che guaio ti sei cacciata, e perché vuoi lavorare qui.”

Annuii, accogliendo con favore quella soluzione.

Il tepore della panca in legno riverberò nel mio corpo raggrinzito dal freddo, e solo allora mi accorsi di avere le dita viola e intirizzite dal gelo.

Rabbrividii per diretta conseguenza e, allungando le mani verso la maiolica, mormorai: “Mi sembrano secoli dacché ho sentito un po' di caldo.”

Rey assentì con un risolino, asserendo: “Passare tante ore sotto la neve, fa questo effetto. E i piedi bagnati non aiutano.”

Lo guardai, apprezzando il suo sorriso tranquillo, la sua posa naturale – lui, seduto su uno dei braccioli di una poltrona – e dissi: “Forse, troverà strano ciò che le dirò, ma è così che mi sento. Penso di non sapere chi sono.”

“Per un'amnesia, o per una crisi d'identità?” mi domandò per diretta conseguenza, cercando di fare dell'ironia.

Sorrisi appena, trovando gradevole il suo tentativo di mettermi a mio agio.

“La seconda.”

“Perciò, se anche tu mi dicessi come ti chiami, non ti riconosceresti in quel nome?” ipotizzò lui, scrollando le spalle con leggerezza.

“Il nome posso dirlo senza tema alcuna. Non appartiene che a me, e me sola, ed è Litha.”

Rey lo saggiò sulla lingua, dando un'inflessione particolare al mio nome.

“La festività del solstizio d'estate. E' un nome originale” asserì, allargandosi in un sorriso.

Di sicuro, Rey Doherty sapeva come mettere a proprio agio le persone.

Da lui veniva un'aura tranquilla e sicura di sé.

Non c'erano astio o preoccupazione, nel suo animo, pur se la sua posa plastica nascondeva un pizzico di ansia.

Forse, per la nonna cui aveva accennato.

“E il resto?”

Sospirai, reclinando il capo.

“Non so. In tutta onestà, dirle il mio cognome sarebbe come dire una bugia.”

“Adottata? E l'hai scoperto ora?” ipotizzò a quel punto, mettendo un tono comprensivo nella voce.

“Qualcosa di simile, e di peggiore.”

“Beh, Litha quel-che-vuoi, per me puoi anche rimanere qui, per oggi, e riscaldarti dal freddo che hai mangiato per aspettarmi. Poi, mi dirai perché ti sei messa in testa di lavorare in una fattoria.”

Mi sorrise complice, e aggiunse: “E cancella quel ‘lei’ così pomposo. Puoi darmi tranquillamente del tu.”

Lo guardai grata, sorridendogli con autentico trasporto e, con tono ironico, chiosai: “Non mi spaventano i lavori di fatica, e posso fare quello che fa qualsiasi uomo.  Inoltre, mi sembra il minimo aiutarti, così da ripagarti dell’ospitalità che mi concederai. Spero.

Lui sembrò soppesarmi, vagliando attentamente ciò che poteva vedere, ma l'arrivo di una donna anziana, poggiata a un bastone, lo distolse dal suo esame.

“Nonnina, ma che fai?! Sarei venuto io, ad alzarti da letto!” esalò, terrorizzato a morte dalla sua vista.

Balzò in piedi come una molla, scattando nei pressi della piccola donnina tutta grinze e balze di flanella color corallo.

Le sorrisi cordiale e lei, guardandomi con autentica curiosità, mormorò con voce sottile: “Che sorpresa è mai questa, giovanotto? Porti in casa una creatura simile, e non mi avverti?”

“Cosa?” esalammo all'unisono, sconcertato lui, terrorizzata io.

Avvicinandosi a me con la sua andatura lenta e claudicante, mi sfiorò il viso con una mano, accigliandosi leggermente e, dubbiosa, mi domandò: “Bambina cara, ma che razza di guazzabuglio sei? Sei una creatura del mare, o della terra?”

Un fulmine a ciel sereno avrebbe fatto meno danni al mio sistema nervoso.

Spaventata, scrutai in viso Rey, già pronta a vedervi panico o peggio, rabbia per essere stato preso in giro.

Invece, trovai solo sana curiosità, e un pizzico di esasperazione mista a ironia, e queste ultime erano tutte dirette verso sua nonna.

“Non dirmi che esiste qualcos'altro che non conosco, nonnina” si lagnò bonariamente Rey,... strizzandomi l'occhio con aria consolatoria.

Rimasi basita, chiedendomi dove fossi finita.

La donna squadrò il nipote con aria irriverente, prima di tornare a guardare verso di me con i suoi penetranti occhi caldi e color cioccolato.

Uguali a quelli di Rey.

“Il ragazzo scherza su tutto, ma dovrebbe sapere che i Nove Regni sono portatori di mille e più razze diverse e che il Bifröst, la porta sui mondi, non è mai stata realmente chiusa per nessuno.”

Sgranai gli occhi, allibita, mentre Rey sospirava, scuotendo il capo.

Ma chi erano queste persone?!

Balbettando nervosa, mi rivolsi all’uomo ed esalai: “Sei... sei un licantropo?”

Non mi era parso, ma ero così intorpidita dal freddo, che tutto poteva essere.

Fu il suo turno di apparire sorpreso, mentre la nonnina si apriva in una risatina divertita.

“E tu che ne sai dei licantropi?” gracchiò Rey, sedendosi lentamente, come se le gambe gli avessero ceduto di colpo.

“Che ne sai tu!” sbottai, lanciando un'occhiata disperata in direzione della candida nonnina.

Che fossi, per un errore madornale, finita in una casa di Cacciatori?

Eithe mi aveva spiegato, tempo addietro, dell’esistenza di esseri umani che, da millenni, davano la caccia a quelli della sua razza.

Possibile che fossi stata così sfortunata da incappare proprio nei loro nemici?

“Su, su, ragazzo... così la spaventi. Non agitarti, bambina. Sei al sicuro, qui.”

La nonnina tossicchiò appena e, nello sfiorare la mia rihall sul collo, scostò le dita per il fastidio e aggiunse: “Mai visto un segno simile... eppure c'è qualcosa, in te, che appartiene a questa terra.”

Deglutii a fatica e, facendomi forza, le domandai: “Sa chi sono?”

“Bambina, se dovessi azzardare un'ipotesi, direi che sei l'ultima dei Tuatha de Danann di antica stirpe ancora in vita. Ma c’è anche altro, in te” rise la donna, dandomi una pacca leggera sulla guancia.

Sentir nominare quel nome da quella tenera nonnina, mi portò molto vicina al crollo.

Come poteva, lei, riconoscere me? Chi era?

Guardai Rey, che stava osservandomi con curiosità sempre crescente, ma del tutto privo della paura – o incredulità – che avrebbe caratterizzato qualsiasi altra persona.

Sia Sheridan che Rachel avevano avuto le loro brave crisi di nervi, nell'aver scoperto la verità su ogni cosa.

Perché Rey, invece, non sembrava turbato?

“Nonnina, penso tu la stia confondendo parecchio. Se non le dici chi sei, penso avrà un attacco di panico” mormorò conciliante, lanciandomi un'altra occhiata comprensiva.

Piccata, mi rizzai in piedi e, con orgoglio ferito, replicai: “Non sono così debole da avere attacchi di panico per un nonnulla!”

Rey fischiò, forse divertito dal mio puntiglio, e questo mi fece inviperire ancora di più.

Come si permetteva, quel misero mortale, di prendersi gioco di me, la figlia di...

Mi bloccai a metà di quel pensiero, rattrappendo le spalle per il peso della mia totale solitudine.

Già… di chi ero figlia, in realtà?

“Da dove vieni, bambina?” mi domandò con gentilezza la nonnina, prendendomi per mano.

Tornai a sedermi sulla panca accanto alla stufa e, nel notare con quanta attenzione la donna mi stesse tastando la mano, mormorai: “Sì, sono mani di guerriera, signora. Questo è ciò che sono.”

“E chi ti ha addestrata alla guerra?”

Sospirai e, reclinando all'indietro il capo, studiai pensosa le travature in legno antico della casa di mattoni rossi in cui ero entrata.

“Stirpe fomoriana di antico sangue. Sono stata cresciuta dalla famiglia reale come loro figlia ma, come ha ben constatato lei, non appartengo al loro regno. Non completamente.”

Rey fischiò ancora, stavolta con aria finalmente sorpresa e strabiliata, e questo mi rincuorò un poco.

Dopotutto, non ero finita in una casa di pazzi completi.

Non del tutto, almeno, perché la nonnina fece sì e no caso al mio dire, replicando pensosa: “Una fanciulla immortale, cresciuta dai suoi nemici. Curioso abbinamento.”

“Fanciulla... immortale?” esalai, confusa.

La donna mi sorrise, picchiettando la sua mano scarna sulla mia, e annuì. “Per quanto mi è dato sapere, i figli dei Tuatha erano tutti immortali. In quanto dèi, i figli di Dana hanno beneficiato di un corpo materiale finché vi è stato qualcuno che li onorava con preghiere e canti, dopodiché sono divenuti entità spirituali, e sono stati confinati nel Cosmo. Per lo meno, quelli scampati alle guerre contro, per l’appunto, i fomoriani. Tu, bambina, che invece hai sangue di entrambi i popoli, hai evitato l'esilio nell'oblio. Ma resti immortale, non destinata solo a lunga vita come coloro che ti hanno cresciuta.”

Mi tastai la stella a punte di freccia sul collo e, per un attimo, tremai.

La stella, la mia rihall, il retaggio della mia parte fomoriana – che non conoscevo come pensavo – mi aveva salvata dall'annientamento totale?








Note: Direi che, per il momento, le sorprese non mancano. Non solo Lithar ha trovato un luogo in cui rifugiarsi temporaneamente, ma proprio presso le uniche persone che, forse, possono davvero capirla e aiutarla.

1 Jack Frost: Nella mitologia norrena, è lo spirito deputato a far nevicare e, per gli inglesi, è sinonimo di inverno. Viene anche chiamato Mastro Gelo.

Grazie per essere passate e, se volete, lasciatemi pure i vostri pareri in merito.
A presto!
  
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