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Autore: Captain Willard    12/10/2015    3 recensioni
E' una serata come tante per gli avventori di un anonimo pub irlandese, ma non per i membri dei Blue Machine, una vecchia band del posto che tra poco si esibirà nel locale, per un emozionante ritorno sulle scene a quasi vent'anni dal loro ultimo concerto.
Per Vinnie, il cantante e il più giovane dei Blue Machine, si rivela tuttavia un'inaspettata occasione per ripercorrere la relazione con Angie, una storia ormai finita ma che continua ad avere un posto unico nel suo cuore. Sulle note di vecchie canzoni, i ricordi si ravvivano e con essi i rimpianti, il dolore, le amarezze... L'amore che resta.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Buckley Blues

 

 

I wonder if she's sorry

For leaving what we'd begun

There's someone for me somewhere

And I still miss someone

 

[Johnny Cash – I still miss someone]

 

 

Birra da schifo, in un pub insignificante nella periferia di una città qualunque, a ovest di Dublino.

Ma è quanto di meglio si siano potuti permettere. Dopotutto sono una vecchia band che suona vecchi brani, e i tempi sono ormai cambiati. Bisogna suonare le hit, bisogna essere alla moda, bisogna essere giovani...

 

Sì, giovani.

I Blue Machine non sono più giovani da almeno vent'anni, e i loro figli e nipoti non hanno né la pazienza né la voglia di mettersi seduti a spiegar loro come vestirsi e cosa suonare per riuscire a ottenere una serata in centro.

Ma a loro sta bene così, dopotutto.

Sono uomini che hanno superato da un pezzo la crisi di mezza età, e sono a posto così. Con la moglie, magari la famiglia chi ce l'ha. Va tutto bene.

Liam ha ancora addosso il fuoco di quando suonava da ragazzo e quando picchia sulla batteria, accaldato e con indosso la maglietta di qualche concerto di almeno trent'anni prima, sembra molto più giovane di quando va in giro con la moglie, ben pettinato e con una sobria camicia.
Lui e Shane si scambiano occhiate d'intesa, mentre il secondo ci dà dentro col basso. Shane lo fulmina con lo sguardo quando Liam gli fa notare che mentre suona la sua faccia si contorce in smorfie buffe.

 

Bevono quella birra da schifo, hanno finito le prove una mezz'oretta fa e cenano a un tavolo accanto al palco. Beh, palco per modo di dire, più che altro un rialzo di legno largo tre metri per due. Ma va tutto bene, a loro va bene così, e sorridono guardando gli strumenti strizzati vicini, pronti e ben lucidati, mentre loro mangiano piatti di ravioli funghi e panna e discutono della scaletta.

Morris è contento come una pasqua, sapendo che avrà l'occasione di esibire i suoi assoli migliori. Le cose che ama di più al mondo sono sua moglie Susan e la sua chitarra Cherry, una Stratocaster rossa standard uscita dritta dal '72, chiamata come la figlia che ha sempre voluto e che non ha mai potuto avere. Un tumore alla cervice uterina, i medici hanno dovuto rimuovere tutto come un'erbaccia per salvare Susan, e quindi.

A volte i suoi amici scorgono un'ombra di tristezza nei suoi occhi, soprattutto quando lo incontrano e loro sono con figli o nipoti ma, strano a dirsi, Morris è sempre il più sereno di tutti. È lui a fare da paciere quando Liam e Shane quasi fanno a botte mentre litigano per l'ennesima volta su chi sia meglio tra i Beatles e i Pink Floyd.

Vinnie si diverte sempre come un matto mentre guarda Morris afferrarli per le spalle, dare a entrambi uno scappellotto sulla nuca – con gentilezza, ovvio – e dir loro che entrambe le band sono fantastiche allo stesso modo, e quindi loro vedano di dimostrarsi degni del cavalierato come Paul McCartney e David Gilmour.

 

Vinnie è il più giovane di loro, ha guardato il festival di Woodstock alla televisione che era ancora un moccioso, ma già si era innamorato perdutamente della musica.

Stasera ha raccolto i capelli brizzolati in una coda bassa e ha indossato una camicia grigia con sopra un gilet nero di seta, comprato appositamente per l'occasione. Ci tiene a fare bella figura, dopotutto l'ultima volta che si sono esibiti è stato nel '97, giusto un mese prima della morte di Jeff Buckley. Ultima esibizione anche per lui, riposi in pace.

 

A questo pensa Vinnie, al suo adorato vinile di Grace, centottanta grammi di bellezza pura ed estatica e voce perduta. Finiranno verso la mezzanotte e domattina deve alzarsi presto, tagliare l'erba del prato, passare a prendere Deborah che ha l'auto dal meccanico e andare insieme dal notaio, a mettere l'ultima firma sulla pratica di divorzio.

A questo pensa Vinnie e dentro di sé già decide che quando rientrerà a casa posizionerà la puntina del giradischi, si stenderà sul tappeto e ascolterà Grace dalla prima all'ultima nota, anche se significa andare a letto più tardi di quanto il suo sonno pesante gli permetta. Sicuramente arriverà in ritardo e Deborah si incazzerà. Pazienza.

Ultimamente pensa più spesso a Jeff, alla sua cover di Hallelujah. Non gli succedeva da mesi.

 

Gli altri lo chiamano il suo “periodo Buckley”, quando gli capita di stare per giorni con la mente fissa su quella canzone, e ci scherzano sopra per risollevarlo un po', sapendo che significa sempre che Vinnie è triste, d'una tristezza discreta e silenziosa, una tristezza che sa di nostalgia per cose vissute e sbagliate, e cose giuste e mai tentate, parole e pensieri detti o celati che lui non vorrebbe ricordare, che preferirebbe abbandonare nei ritagli d'ombra della memoria, sotto cenere e polvere.

Va a periodi come un Picasso di periferia, ma Vinnie non è un artista, no. Lui è solo un piccolo, triste saltimbanco dal cuore fasciato in cartapesta blu: blu bottiglie vuote di gin – Bombay Sapphire, un perfetto sposalizio di ginepro e glicine – blu arrangiamenti blues, blu Buckley.

Gliel'aveva detto anche Angie, prima di portarsi via i due anni migliori della sua vita e il vinile di Starsailor, quello che avevano comprato ai mercatini di Temple Bar il loro primo Natale insieme.

Angie... Angie scarlatta, Angie divina, Angie sempre a cantare Layla e Roadhouse Blues in cerca di una parte, in cerca di quella sera in cui avrebbe visto il proprio nome brillare su uno schermo di Broadway come una collana di stelle.

Vinnie ha comprato riviste su riviste per quasi trent'anni sperando di leggere il suo nome, anche se non l'ha mai ammesso a se stesso e figuriamoci a Deborah, che comunque l'ha capito e pure non gli ha mai fatto domande. È rimasta in silenzio e si è girata dall'altra parte, finché una notte Vinnie nel mezzo di un orgasmo non l'ha chiamata Angie, e da lì alla richiesta di divorzio è stato un attimo.

La verità è che Angie, accanto alle sigarette e alle mutandine, ha messo nella valigia anche la parte migliore di Vinnie, quella che puntava la sveglia alle cinque per guardare l'alba insieme, che le regalava mazzi di fiori dentro bottiglie di birra vuote, che cucinava fallimentari parvenze di soufflé e le scriveva ballate.

Vinnie sa che non è andato avanti.

Non pensa neanche che ci riuscirà, ormai. Non riuscire a dimenticare un amore in due, tre, persino cinque anni è okay. Ci può stare. Ma trent'anni... La data di scadenza è irrimediabilmente superata.

 

Con Deborah è stato tutto molto tranquillo, molto quieto: un tranquillo primo incontro al supermercato, davanti all'ultima vaschetta di gelato al pistacchio – «No, la prenda lei, insisto» «La prendo solo se accetta di bere qualcosa con me stasera, e offro io» – una quieta serata in un locale, lunghi baci premendo Deb contro la porta, del piacevole sesso, appuntamenti, cinema, caffè, telefonate, passeggiate, e di nuovo sesso, dolce, tiepido, estremamente calmo, e poi l'anello.

È stata una storia discreta la loro, un buon matrimonio. Niente figli, è vero, una scelta di Vinnie, ma in fin dei conti è stato meglio così. Lui non ha mai amato davvero Deborah. Certo, le ha voluto bene, un bene dell'anima, ma come avrebbe potuto amare il fievole ruscello – desiderarne i figli - quando già una volta si era dissetato a pieni sorsi da un fiume?

Angie è stata il frutto dell'Ade, buccia scarlatta su polpa d'argento, di baci, di sguardi e molti, molti silenzi: e quanto è stato meraviglioso mangiarne, pensa Vinnie, e quanto è stato sublime avere il cuore strappato dal petto e preso come prigioniero: un prezzo davvero troppo basso per l'amore di una vita.

Lo rifarebbe, se potesse. Tutto da capo, tutto uguale a prima, non una sola virgola cambiata.

Angie è stata un vorticare di capelli rossi su pelle lattea, lentiggini e bocca carnosa, labbra vermiglie che sono state baciate e morse e succhiate e leccate con ardore e devozione quasi religiosi, mentre Vinnie la possedeva contro il muro e si colmava le mani dei suoi seni morbidi e pieni come lune dalle iridi di corallo, e i suoi fianchi erano onde perfette e i suoi gemiti il canto del fiume.

Deborah è stata fresca e consolatoria, la lieve pioggia d'aprile, il ruscelletto del conforto, ma Angie è stata il temporale, il fiume, il fuoco d'artificio; quella passione travolgente che quando è finita si maledice con rabbia, salvo poi ricordarla con tenera nostalgia, e Vinnie continua a trascinarsene dietro il peso dolceamaro, raccontandosi bugie, raccontandosi che l'ha dimenticata, fingendo che vada tutto bene mentre scola l'ultimo boccale della birra peggiore che abbia mai bevuto e si prepara per iniziare a cantare.

Fa male anche questo, ma è necessario. Forse, pensa Vinnie, cantare da solo quello che cantava con lei potrebbe aiutarlo a rassegnarsi e finalmente superare tutto. Lei non c'è e non tornerà, né per cantare una sera, né per restare una vita. Forse dimenticare – lui osa addirittura sperare – sarà facile. Davvero facile.

Vinnie è l'ultimo a salire sul palco, vicino a Morris: le luci si abbassano e lui prende il microfono – del '71, un regalo del gruppo per i suoi cinquant'anni – come se fosse il viso di Angie prima di baciarla, con delicatezza e al contempo una brama di possesso quasi reverenziale.

 

I Blue Machine erano bravi e Vinnie piaceva molto al pubblico, per il suo fascino ma soprattutto per la sua voce: calda, profonda, leggermente roca, una voce nata per essere sensuale e far scivolare brividi lungo la schiena degli spettatori come le vellutate bisce d'acqua sulle donne di Klimt. Angie aveva anche lei una voce stupenda, la perfetta controparte femminile di Vinnie.

 

L'Irlanda era appena stata sconvolta dalla morte di Bobby Sands, quando una ragazza appena maggiorenne si presentò in una sala prove in periferia per sostenere un provino come corista dei Blue Machine, una band che cercava di farsi un nome tra festicciole studentesche e serate nei pub. I membri del gruppo sedevano in modo chi più e chi meno scomposto, fumando pigramente, poi quello che a prima vista sembrava il più giovane le aveva dato un foglio stampato, prima di tornare a sedersi in un angolo.

«While my guitar gently weeps» aveva letto lei ad alta voce, posando lo sguardo sul ragazzo. Occhi verdi, capelli come disordinate piume di corvo, labbra carnose e naso leggermente storto, rotto almeno una volta in qualche rissa.

«Lo sappiamo il titolo. Ora canta, su. A cappella» l'aveva esortata lui, con il sorriso di chi sa d'essere attraente.

Angie aveva cantato, e i Blue Machine avevano applaudito e le avevano stretto la mano. Vinnie si era innamorato quella sera, mentre bevevano birra scura e amara per festeggiare e la ragazza rideva d'una risata dolce e argentina, scuotendo i boccoli rossi. Oh, era così stupenda, dolce e meravigliosamente spregiudicata... Così viva e splendente, che Vinnie sapeva che avrebbe finito per bruciarsi con lei. Come poi è stato, dopotutto.

 

«Concentrati, vecchio» gli dice scherzosamente Morris, ma entrambi sanno che ha ben ragione di dirlo. Devono suonare al meglio, e perdersi nei ricordi di certo non aiuterebbe, quindi tanto vale chiudere gli occhi e...

 

Inspirare, espirare.

Inspirare, espirare.

 

...cantare, perché è sempre stato naturale per lui.

 

All our times have come

Here, but now they're gone

Seasons don't fear the reaper

Nor do the wind, the sun or the rain

We can be like they are

 

La sua voce è cambiata con il peso dell'età e del dolore, ma in fondo è anche la stessa di un tempo e il pubblico reagisce bene: qualcuno batte il piede a tempo, qualcun altro annuisce compiaciuto, ci sono sorrisi e brevi fischi d'incitamento, un incoraggiamento piuttosto inaspettato per il gruppo, che prosegue con un po' più di baldanza nel cuore e attacca con un vecchio successo dei Talking Heads, suscitando uno scroscio di applausi. Siete bravi, dice lo sguardo di molti.

Sono bravi, va tutto bene.

Morris fa cantare la sua Cherry insieme a Vinnie, lo segue con la voce, poi lui e Shane, i loro strumenti parlano, si stuzzicano, giocano e si provocano in liquidi arpeggi...

 

Home

Is where I want to be

But I guess I'm already there

I come home

She lifted up her wings

I guess that this must be the place

 

...E va tutto bene.

Non importa nulla, chi se ne frega se non avranno mai un contratto discografico. Sanno di essere bravi e questo ritorno sugli anonimi, piccoli, polverosi palchi di un'altrettanto anonima città è un buon inizio. Una soddisfazione finalmente, dopo tanto tempo.

 

Non che non abbiano avuto la possibilità di diventare famosi.

Nel marzo dell'83 (Vinnie se lo ricorda bene, i Pink Floyd avevano appena pubblicato The final cut), il rappresentante di una qualche agenzia manageriale – Blackhill qualcosa* – aveva assistito a una delle loro esibizioni quando erano in tour a sud, forse a Durrow o a Kilkenny.

Si era presentato ai Blue Machine come Patrick Wright; era un uomo corpulento e piuttosto basso, con radi capelli grigi imbrillantinati e un sorriso troppo studiato per poter risultare simpatico. Anche la sua proposta non era piaciuta: l'agente era interessato, ma sarebbe stato necessario apportare qualche cambiamento al gruppo, prima di tutto il nome.

«Angie & the Blue Boys, magari? Suona meglio così, figlioli e credetemi, io me ne intendo. Bisogna andare incontro ai gusti del pubblico, comunicare con esso, dirgli che siete tosti e frizzanti, che siete quello che vogliono. Che ne dite, eh? E magari diamo una sistemata anche ai vostri pezzi originali, vedi amico, tu hai una gran voce ma coi testi proprio non ci siamo...»

 

Vinnie e Morris avevano declinato educatamente l'offerta, Liam e Shane erano invece stati molto più espliciti. Patrick aveva guardato Angie, che fino a quel momento era rimasta in silenzio accanto a Vinnie.

«Senti, tu mi sembri l'unica ragionevole in questo branco di mentecatti» le si era rivolto l'agente, allungandole uno spiegazzato biglietto da visita. «Hai del talento ragazza, e chi te lo fa fare di passare la vita in posti squallidi come questo, eh? Sei bella, canti da dio, il pubblico impazzirà, quindi pensaci, ok? Ok, perfetto, fammi sapere, eh? Ci conto. La nostra sede è a Londra, fissiamo un appuntamento e ci vieni a trovare, ci facciamo una chiacchierata, eh?»

 

«Ci facciamo una chiacchierata, eh?» aveva ripetuto Vinnie più tardi, imitando l'agente con una smorfia di disprezzo. Angie si era infilata a letto accanto a lui e non aveva detto niente, limitandosi a dargli un bacio e spegnere la luce. Quella notte non avevano fatto l'amore.
 

È stato allora – si chiede Vinnie – è stato allora, l'inizio della fine? Ma da lei non mi sarei mai aspettato quello che è successo dopo... dopo quanto? Due mesi, forse tre? Ricorda che era un lunedì di febbraio. No, non era un giorno qualunque, era –

 

«Ehi, Vinnie!»

La voce di Liam interrompe il flusso dei suoi pensieri, e dentro di sé il cantante gliene è grato. L'amico gli passa una bottiglia di birra per rinfrescarsi un po', prima di riprendere a suonare. Ormai hanno quasi finito, giusto uno o due brani, poi potranno smontare e andarsene a casa. L'orologio appeso in un angolo segna quasi la mezzanotte.

«È ora di andare, gente» annuncia Vinnie, suscitando un piccolo coro di proteste. «Sì, anche a noi dispiace, davvero, ma saremo di nuovo qui il mese prossimo, perciò non rammaricatevi troppo. Adesso, in chiusura, un pezzo che sono sicuro conoscerete in molti. Una canzone che parla d'amore, ma niente rose e cuori, no. Parla di quel tipo di amore che ci lascia pieni di rancore e nonostante questo resterà sempre il più sublime della nostra esistenza. Dai Dire Straits, passando per i Blue Machine... Romeo & Juliet.

 

A lovestruck Romeo sings a streetsuss serenade

Laying everybody low with a love song that he made

Finds a streetlight, steps out of the shade

Says something like, «You and me babe – how 'bout it?»

 

Non è facile cantare una canzone così, soprattutto dopo... Insomma, dopo Angie, dopo tutto il loro vissuto, la voce incrinata dal vuoto che resta, mentre Vinnie canta e cerca di trattenere il pianto, perché è arrivato fin qui e ancora non riesce a cedere, a chiudere tutto quel che rimane del passato in una scatola e archiviarlo, magari dimenticarlo con l'aiuto di qualche altro anno di pazienza.

 

Poi, qualcuno si siede all'unico tavolo vuoto davanti al palco. Vinnie la guarda: una donna di mezza età, con indosso un bel vestito nero che le cade morbidamente sui fianchi. Riccioli d'un rosso pallido le incorniciano il viso, ancora attraente nonostante le rughe e i segni del tempo trascorso.

Vinnie incrocia il suo sguardo, e quando canta è per lei.

 

And all I do is miss you and the way we used to be

All I do is keep the beat, the bad company

All I do is kiss you through the bars of a rhyme

Juliet, I'd do the stars with you any time

 

Ed è un sollievo cantare, adesso.

Strofa su strofa, si scioglie un poco quel nodo al cuore, respirare diventa più facile, e svanisce il bisogno di piangere. Quanto ha aspettato questo prezioso momento, questo picco di felicità pura e cristallina? Ma l'emozione che gli brucia nel petto riduce tutta una vita d'attesa a pochi stupidi, insignificanti minuti.

 

Oh, Angie. Angie invecchiata, Angie sbiadita, Angie che per Vinnie è ancora la donna più bella su cui abbia mai posato gli occhi stanchi. Anche gli altri la vedono: a Liam quasi cade una delle bacchette, Shane sgrana gli occhi incredulo, e persino l'imperturbabile Morris impallidisce visibilmente. Ma Vinnie sorride e prosegue senza esitare, perché ora sa. Ora sa cosa deve e vuole fare. Ora sa di cosa ha bisogno.

 

Juliet, when we made love you used to cry

You said «I love you like the stars above, I'll love you 'til I die»

There's a place for us, you know the movie song

When you gonna realize it was just that the time was wrong, Juliet?

 

 

Angie sorride dolcemente e ammicca, applaudendo in modo discreto quando i Blue Machine concludono il pezzo. Dal pubblico partono fischi e applausi scroscianti, insieme alla richiesta di un bis.

«No, niente bis, scusateci» risponde Vinnie, ma sorride anche lui. «Suoneremo un'altra canzone, però. E c'è anche un'inaspettata sorpresa... Un'amica che dopo tanti anni canterà di nuovo insieme a me, anche se solo per una sera. Che ne dici, Angie?»

Gli sguardi degli avventori seguono il suo e osservano incuriositi quella donna seduta davanti al palco, le belle mani in grembo e un'ombra d'esitazione nelle iridi blu.

 

«Che ne dici, Angie?» ripete Vinnie a voce più bassa, lasciando il microfono e avvicinandosi a lei. Le porge la mano e le rivolge lo stesso sguardo che le rivolgeva ai vecchi tempi, quando stavano per esibirsi e lui intrecciava le dita alle sue.

«Ce la fai a starmi dietro, tesoro?» lei scherzava ogni volta, un attimo prima di fare un passo nel denso bagliore del palco, pronta a far sognare il pubblico almeno per una sera.

 

«Ce la fai a starmi dietro, tesoro?» sussurra Angie adesso, prendendogli la mano e alzandosi in piedi. Liam e Shane le fanno con un cenno, troppo stupiti e forse anche troppo imbarazzati per poter produrre un saluto più articolato. Morris è un poco più eloquente: «Ehi, Angie, da quanto tempo. Tutto bene?»

Lei annuisce e non dice nulla, ma a nessuno sfugge l'emozione che le fa brillare gli occhi, lacrime che è troppo orgogliosa per versare. Certe cose non cambiano mai, vero Angie?, pensa Vinnie, distogliendo lo sguardo per non recarle imbarazzo. Anche quando mi hai lasciato, non hai versato una sola lacrima.

 

«Cosa vuoi cantare?» gli chiede lei con voce pacata, mentre lui prende un altro microfono e lo collega all'impianto di amplificazione.

«La nostra canzone. Se per te va bene, intendo» risponde Vinnie, con una certa timidezza per lui inusuale. Eppure Angie non sorride con scherno, né rifiuta con sprezzo: sembra trattenere il respiro mentre si porta una mano alla bocca, distogliendo lo sguardo da lui. Si allontana di qualche passo e sospira un paio di volte, prima di ritornare al suo fianco.

«Va bene» mormora con voce tremante. «Va bene» ripete, stavolta più fermamente.

Vinnie le regola l'asta del microfono e si gira verso i compagni. Morris incrocia il suo sguardo e nel sorriso che gli rivolge c'è una punta d'amarezza. «Sappiamo cosa suonare, Vinnie. Non preoccuparti.»

Lui annuisce e a loro basta guardarlo negli occhi per cogliere il suo ringraziamento: è grato a tutto, alla band, alla musica, a tutti questi anni che per lui hanno custodito un piccolo miracolo, in attesa di questa sera. Va tutto bene.

Serve solo la chitarra, quindi Liam e Shane si siedono per terra accanto a Morris; sotto i loro sguardi trepidanti, Vinnie e Angie si posizionano al centro, l'uno rivolto verso l'altra. Morris inizia a suonare, e insieme agli arpeggi fluiscono i ricordi, gli ansiti, i loro brevi attimi d'infinito.

 

È come tornare ai vecchi tempi di spensierata felicità, quando sognare non era una colpa e fare promesse era facile, mormorando pelle contro pelle le parole più dolci, i ti amo che quando si è giovani si crede davvero che dureranno per sempre... Ma Angie era cresciuta e aveva infranto le sue promesse, perché la fama raramente va d'accordo coi sognatori, e lei non voleva di certo ritrovarsi a quarant'anni con una manciata di illusioni e nulla di fatto.

Questo aveva detto a Vinnie la sera in cui se n'era andata, forse cercando di giustificarsi dopo avergli comunicato che negli ultimi tre mesi aveva pensato alla proposta di Patrick Wright e aveva deciso di accettarla, senza i Blue Machine e soprattutto senza di lui.

 

Vinnie non aveva detto nulla, seduto sul bordo del letto e lo sguardo perso davanti a sé. Non aveva mosso un muscolo neanche dopo che Angie se n'era andata, una valigia di sogni in una mano e un biglietto aereo per Londra nell'altra, lasciandolo da solo in una casa d'improvviso svuotata di tutte le cose – momenti, occasioni, parole, istantanee di vita – di cui era stata colmata in due anni.

Due anni non erano molti, è vero, ma abbastanza perché il dolore ci fosse lo stesso, troppo straziante per poterlo esprimere con altro che silenzio.

Così Vinnie era rimasto immobile, mentre il crepuscolo faceva scivolare le sue dita d'ombra nella stanza, trascinandosi dietro la densa oscurità della notte. Solo molto tempo dopo era giunto il debole conforto delle lacrime. Ora, il conforto è del canto ed è come un balsamo per il cuore di Vinnie.

 

Well I heard there was a secret chord

That David played and it pleased the Lord

But you don't really care for music, do ya?

Well it goes like this, the fourth, the fifth

The minor fall and the major lift

The baffled king composing Hallelujah

 

La voce di Jeff Buckley era un'intima carezza, un bacio d'addio, una tristezza sussurrata... Quella di Vinnie, quando canta la prima strofa, è una preghiera ad Angie, un sospiro di sollievo, un tremante ricordarle che le sarà sempre devoto.

Vorrebbe domandarle se ha poi trovato quello che cercava, qualunque cosa fosse. Vorrebbe anche chiederle se lo ama ancora, ma sa che certe domande è meglio che restino taciute; farebbero solo male a prescindere dalla risposta, e di sofferenza ne ha – ne hanno – avuta abbastanza.

La seconda strofa è di Angie, ma la terza la cantano insieme ed è un fluire di fiumi gemelli, intreccio di scie di cometa, rette incidenti che si incontrano di nuovo a metà della vita.

 

Well baby I've been here before

I've seen this room and I've walked this floor, you know

I used to live alone before I knew ya

And I've seen your flag on the marble arch

And love is not a victory march

It's a cold and it's a broken Hallelujah

 

Sì, il loro amore non è stato una marcia vittoriosa, ma è stato comunque molte cose: dapprima spensierata gioia, dolci sussurri, caldi silenzi, poi rabbia sopita, frustrazione, rancore, infine attesa, una lunga attesa a senso unico, aspettare senza sapere cosa di preciso, mentre i giorni si facevano settimane e i mesi anni.

Poi ci si ritrova l'uno davanti all'altra e, inaspettato, l'amore che resta fa di nuovo male, e di nuovo ha un sapore così dolce, ed è caldo come prima e stringe lo stomaco, fa pizzicare gli occhi, fa nascere le speranze che si è cercato di sopire per tutta una vita, e Vinnie ha più paura che mai, perché all'improvviso si ritrova ad avere così tanto da perdere.

Ti prego Angie, non abbandonarmi. Non ora che finalmente respiro.

 

Well there was a time when you let me know

What's really going on below

But now you never show that to me, do ya?

But remember when I moved in you

And the holy dove was moving too

And every breath we drew was Hallelujah

 

Ma le preghiere restano inespresse, sovrastate dal canto, e una nota di dolore si aggiunge alla voce di Vinnie, perché dopotutto le domande senza risposta bruciano ancora e brucia anche il ricordo delle loro notti insieme, e brucia soprattutto il pensiero che Angie abbia venduto la sacralità d'un amore per un contratto e serate riscaldate da qualcun altro, magari un altro cantante, eppure... Eppure basta uno sguardo di lei – dolce, quasi compassionevole – e Vinnie mette a tacere le preoccupazioni, soffoca le paranoie e i timori.

Basta pensare, vecchio. Risparmiati altro dolore.

 

And it's not a cry that you hear at night

It's not somebody who's seen the light

It's a cold and it's a broken Hallelujah

 

Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah...

 

Fa del suo meglio, ora più che mai. Lui ed Angie si alternano, ma l'ultimo Hallelujah, il più lungo, lo reggono insieme e quando finiscono hanno entrambi il fiato corto. La loro voce non è più quella di una volta, ma non è solo questo; è l'urgenza che colmava il loro canto, la quieta disperazione, la netta sensazione d'essere sull'orlo di qualcosa: un'occasione, forse, per un nuovo inizio o un necessario finale, Vinnie non sa quale dei due ma dopotutto... Ha davvero così importanza?

 

Gli applausi scroscianti del pubblico gli impediscono di formulare altri pensieri; scuote la testa impercettibilmente e si alza in piedi, porgendo la mano ad Angie, che l'accetta e insieme ai Blue Machine si produce in un piccolo inchino. Alcune persone si sono persino commosse e ci tengono a dirlo alla band, quando si avvicinano per far loro i complimenti mentre il quartetto smonta l'attrezzatura e ripone la strumentazione.

I loro grazie di risposta sono impacciati, imbarazzati persino, e se da una parte i Blue Machine si dicono che è perché non si aspettavano un tale successo, dall'altra sanno con certezza che è perché, sinceramente, la loro attenzione è rivolta a tutt'altro.

Vinnie sta arrotolando un jack, quando Morris gli posa una mano sulla spalla. Alza la testa e incontra il suo sguardo, caldo d'una tenerezza fraterna.

«Vai da lei, Vinnie» gli dice il chitarrista, e non è un consiglio. Accenna col capo alla donna in piedi poco lontano, gli occhi bassi e un'ombra di sorriso sulle labbra vermiglie.

«Vai da lei. Ci pensiamo noi a sistemare il resto.»

 

Il cantante sente gli occhi pizzicargli, ma trae un profondo respiro. Niente lacrime, non adesso, anche se la gentilezza di Morris gli stringe il cuore. Annuisce e posa il jack in una custodia, rivolge un breve cenno di saluto alla band e raggiunge Angie, che solleva lo sguardo e gli scocca un sorriso radioso.

 

«Ti va di andare a bere qualcosa?» le propone, infilandosi la giacca. Lei emette una breve risata e accarezza un lembo dell'indumento.

«Ancora resiste questa vecchia giacca? Da quanto ce l'hai, trent'anni? Trentacinque?»

«Più o meno. L'avevo fregata a mio fratello maggiore» risponde Vinnie, e quasi si sorprende nel ricambiare la risata di Angie. È così liberatorio...

 

«Sì, mi ricordo, me l'avevi detto. Beh, indosso a te sta sempre bene. Dai andiamo, ho voglia di un Irish coffee bollente» lo esorta lei, stringendosi nel trench e uscendo per prima dal locale, seguita a poca distanza da Vinnie.

 

 

*****

 

Sorseggiano l'ennesimo bicchiere di Irish coffee; la loro conversazione si fa sfilacciata, inframmezzata da silenzi sempre più densi d'aspettativa. Vinnie non ne è stupito dopo quel che è successo nell'altro pub, ma cerca comunque di non farsi illusioni. In fondo, non si sono ancora detti niente di importante.

Quando giunge un nuovo momento di quiete, si ritrova ad osservare i sottili disegni di rughe sul viso di Angie, e per un attimo – pochi secondi, e si pente subito di essersi concesso tali pensieri – prova rimpianto, e anche rancore: gli sarebbe piaciuto vedere Angie invecchiare, anno dopo anno, sempre bella comunque, sempre al suo fianco.

 

«Sai» mormora, percorrendo con la punta dell'indice il bordo del proprio bicchiere. «Per tutti questi anni non ho mai smesso di chiedermi cosa ti fosse successo.»

Angie accenna un sorriso ma non dice nulla, e Vinnie prosegue.

«Mi chiedevo se ce l'avessi poi fatta, a Londra. E anche se avessi trovato qualcun altro... Per cantare con te, insomma.»

«Capisco» risponde la donna, ed è chiaro che il sottinteso della frase non le sia di certo sfuggito. «Ma no, non ce l'ho fatta. O meglio, per un breve periodo sì, dopo la firma del contratto con la Blackhill ci sono stati diciotto mesi stupendi. O'Wright mi aveva trovato un'ottima band di supporto, e sono riuscita persino a pubblicare un paio di singoli» si interrompe per bere un sorso del caffè, ma poi non accenna a proseguire. Vinnie si sporge un poco verso di lei, avido di informazioni.

«E poi?»

Angie alza le spalle. «E poi lo sai come funziona. Il manager trova un paio di etichette disposte a metterti sotto contratto per un paio d'anni, dopotutto sei ancora una novellina, ma vogliono cambiarti nome, cambiarti stile, cambiarti persino i testi delle canzoni. Alla fine ho rescisso il contratto prima di pubblicare un disco. Per quanto riguarda i miei singoli, sono spariti dalle classifiche locali nel giro di un mese.»

La lingua di Vinnie esprime il pensiero prima che lui possa mordersela. «Ma non sei tornata.»

L'espressione che si dipinge sul volto della donna è indecifrabile. «No. Non sono tornata.»

 

Cala di nuovo il silenzio, ma stavolta qualcosa si è dissipato, nello spazio tra i loro corpi. Una piccola, fragile ragnatela d'emozione è stata appena spezzata, e Vinnie sa che è colpa sua. Il pensiero è frustrante.

 

«Beh, che posso farci!» sbotta, raddrizzando la schiena. «Non puoi certo aspettarti che io trattenga i commenti, ti sorrida e basta, facendoti i complimenti e stringendoti la mano, ringraziandoti per la bella serata. Non siamo a una cena di lavoro dopotutto, e io... Oh, lo sai. Non è stato per niente facile, Angie. Per niente.»

«Lo so» risponde lei tranquillamente, e Vinnie non dubita della sua sincerità. Gli anni sono passati e loro hanno preso strade diverse, ma ancora conosce bene la sua Angie.

«E sai anche che è la verità, quando ti dico che per me è stato lo stesso» prosegue la donna, sistemandosi una ciocca ribelle dietro l'orecchio. «Non è mai facile, comunque. Forse in quel momento, quando me ne sono andata, ho pensato che potesse esserlo. Gli esseri umani sono stupidi, lo sai: credono sempre che la verità renda le cose più facili, ma non è vero. La mia verità è che ho preferito un contratto discografico a te, e sono sicura che avrebbe fatto meno male se si fosse trattato di un altro uomo, invece che di un'opportunità di carriera. Quantomeno, avrebbe fatto meno male a te.»

Vinnie butta giù il resto del caffè e le sorride amaramente. «Ho buoni motivi per dubitarne... Comunque, sai che giorno è oggi?»

Angie non sorride più. «È il quattordici febbraio.»

«Già. Mi sono appena ricordato che quando mi hai lasciato, era proprio San Valentino.»

Lei non replica e abbassa lo sguardo sul proprio bicchiere come a trovare rifugio nel caffè, ma Vinnie non demorde.

«Dai Angie, dimmi che diavolo ci fai qui proprio oggi, a trent'anni dall'ultima volta che ti ho vista. Non è un caso.» Il suo tono è aggressivo, ma non riesce a trattenersi. Non pensa che lei meriti sconti, per quanto la ami ancora.

«Trentadue» precisa lei, raddrizzando la schiena. «E non mi pare il caso che tu faccia una scenata perché io ho ceduto alla nostalgia. Contieniti.»

«Contenermi?» sibila lui, stringendo i pugni. «Ti sei portata via tutto, ti ripresenti senza neanche chiedere scusa, e pretendi che io mi contenga?!»

Angie si alza di scatto, getta sul tavolo un paio di banconote e scocca a Vinnie un'occhiata di fuoco. «Parliamo fuori. L'aria fresca ti farà bene.»

L'uomo scuote la testa, ma la segue senza protestare. Le parole faticano a raggiungere la superficie, mentre Vinnie e Angie camminano fianco a fianco lungo strade anonime, sotto un cielo scuro e bagnato, e l'unico rumore è quello delle scarpe sull'asfalto e c'è questo spazio, pochi centimetri tra i loro due calori ma abbastanza da far sentire freddo a entrambi, ed è inutile stringersi negli abiti perché a che serve una giacca, quando è da sotto le costole e la carne che il gelo sgorga goccia a goccia?

Forse questa serata è stata un errore, pensa Vinnie. Forse non va più tutto bene, e forse qualcosa ha ancora più importanza di quel che dovrebbe.

Ma poi, un tuono nel cielo. Arriva la pioggia.

 

Su di loro cadono le lacrime: del cielo, di questa notte greve e fremente di tenebre e sfarfallii di luci di strada. Questa non è una città di grandi possibilità e di grandi speranze; è una città che nasconde vicoli cupi e pieni di spazzatura, mozziconi di sigaretta e aghi di siringa, vetrine riparate con pezzi di cartone, e con tutto il conforto carnale che si vende agli angoli delle strade qui l'amore bisogna cercarlo col lumino, mentre un lampione si fulmina sopra Angie e Vinnie. Ma è confortante dopotutto, quest'oscurità che li avvolge come una coperta. Poco distante, le pozzanghere riflettono i bagliori aranciati dei lampioni e sembrano brillare di luce propria, ma qui, in questo ritaglio d'asfalto, l'ombra nasconde i volti di un uomo e una donna e Vinnie può finalmente parlare, con la pioggia fresca che gli allenta le corde vocali.

 

«Parlavi di nostalgia» sussurra, così piano che per un attimo teme che lei non abbia sentito, ma Angie lo ascolta sempre, e smette di camminare.

«Dubitavi che mi potessi ricordare di te, dopo tutti questi anni?» gli chiede con un sorriso, ma la sua non è davvero una domanda. Vinnie evita il suo sguardo e si infila le mani in tasca, appoggiandosi al lampione fulminato.

«Certo. Ovvio, direi. Quando te ne sei andata non hai mostrato alcun rimorso, perciò non puoi stupirti se non ho dato per scontato che ti potessi ricordare di me.»

«Pensavo mi conoscessi meglio di così.»

C'è una nota di qualcosa che rasenta il disprezzo, nella voce di Angie, e lui alza la testa di scatto, puntandole un dito contro.

«Non osare» le intima, e il suo è il ringhiare d'una bestia ferita. «Non osare, mai. Io ti conosco, Angie. Ti ho sempre conosciuto meglio di chiunque altro.»

«Fosse così, l'avresti capito ben prima di quel San Valentino che mi stavo allontanando da te.»

Vinnie scoppia in una breve risata, secca e amara. «Oh, Angie, l'amore certe volte rende così ciechi... Ma questo tu non puoi saperlo, o sbaglio? Tu non sai amare.»

 

Il rumore dello schiaffo copre per un momento il ticchettio della pioggia e scalda inaspettato la guancia di Vinnie. Si porta una mano al viso, ma prima che possa dire nulla Angie lo afferra per il bavero della giacca e lo strattona violentemente verso di sé.

«Io ti ho amato, sa il cielo quanto, e tu non puoi permetterti di rinnegare quel che è stato!» esclama furiosa, mollandogli un altro strattone. «E sì, dannazione, mi mancavi, per questo sono tornata. Ci ho provato a dimenticarti, cancellarti, ma nessuno era te e lo sai che non mi è mai piaciuto accontentarmi, e quando ho saputo che vi sareste esibiti... Non ce l'ho fatta a resistere. Come avrei potuto? Come?»

Lo spinge via e scoppia in un pianto rabbioso, il sale si mescola alla pioggia sciogliendole il trucco, sottili linee scure le scivolano sulle guance come setosi nastri bagnati.

«Io non mi pento di quello che ho fatto, sappilo, perché cosa avrebbe mai potuto offrirmi questa misera città? Io volevo una chance, tutti la volevamo, non puoi biasimarmi!»

Vinnie la prende per le spalle, se la stringe contro nonostante lei si divincoli, la tiene stretta sotto quella pioggia benefica che li avvolge in una quiete gentile, senza più disperazione. Alza gli occhi al cielo e gli rivolge una supplica silenziosa: che lavi via la polvere, la tristezza. Che lavi via il rimpianto dalle sue stanche ossa.

 

«Angie, mia dolce Angie» sussurra alla donna che ama, baciandole via le lacrime dal viso. Angie, non scappare via di nuovo, mentre preme le labbra sulle sue e lei ha la bocca bollente e vermiglia di una volta, anche sotto le fredde gocce che ormai li hanno infradiciati entrambi.

Il suo sapore, pensa beandosi dello sfiorarsi delle loro lingue, delle loro labbra, il lieve scontro perlaceo di denti in un bacio sulle prime impacciato, ma poi i pensieri si affievoliscono ed è l'istinto a proseguire da solo su strade che è meglio percorrere senza logica, senza razionalità; le dita si intrecciano e si lasciano, l'abbraccio si fa ancora più stretto, le mani cercano e sfiorano, avide toccano e fanno sbocciare sospiri, i loro corpi si protendono e premono l'uno contro l'altro in una muta richiesta.

 

Il tragitto fino a casa di Vinnie dura poco ma basta a mettere alla prova la pazienza di entrambi; sono appena entrati che già Angie gli si aggrappa alle spalle e di nuovo unisce la bocca alla sua, in un bacio esigente e brusco che tradisce la sua urgenza. Si spogliano in fretta, gettano i vestiti per terra e li calpestano mentre raggiungono a tentoni il letto, tollerando a malapena il distacco di qualche secondo mentre lottano con un bottone ostinato o una zip che si impiglia.

 

Rotolano tra le coperte ridendo come ragazzi, perché in fondo tutto questo – le macchie della pelle, le rughe, i colori sbiaditi, immagini confuse nel desiderio – li fa sentire di nuovo così giovani, così fortunati; sono ebbri di calore, assetati di desiderio, si aggrappano l'uno all'altra e si cingono con le gambe, le braccia, assaggiano e tracciano con mani e bocca sentieri che conoscono a memoria, e bagnati dalla luce fioca dei lampioni che entra dalla finestra, non smettono neanche per un attimo di percorrersi con lo sguardo, e adesso non ridono più ma un'ombra di dolcezza permane sulle loro labbra, perché in fondo sanno che quest'amarsi è diverso e forse è anche un amarsi migliore, magari cancellerà tutte le domande senza risposta, tutte le notti in cui Vinnie è tornato a casa ubriaco per non pensare al letto sbagliato che lo aspettava, tutte le lettere piene d'insulti e mai spedite e quelle invece piene d'amore e bruciate, e forse è meglio perché adesso bruciano anche loro mentre si muovono insieme, finalmente una cosa sola proprio quando la speranza sembra perduta; questo piacere è un'onda che pulisce, lava, purifica Vinnie da tutte le amarezze, dal sale delle lacrime secche, da tutti i se con cui si è fasciato la testa per trent'anni.

 

Puliscilo, caldo oceano. Purificalo, lava tutto via. Sii l'unico dio stanotte, raccogli quest'uomo e restituiscigli il tempo perduto, la giovinezza andata a male nei silenzi della stanchezza solitaria. Basta con le false divinità del denaro e del successo, basta con lo spietato meccanismo dell'industria discografica. Per pietà, sii l'unico dio stanotte.

 

Solo tu, caldo, liquido piacere: attutisci lo sfregare di corpi e scivola in gocce lucenti sulle vertebre, lungo i fianchi, sii sudore, sii saliva, sii lacrime di sollievo e battiti accelerati, sii le mani di un uomo sul seno di una donna, sii due ventri mossi dalla stessa armonia, mentre dalla finestra aperta sfuggono rochi gemiti e mormorii frammentati, mentre il sangue goccia dalle labbra di Vinnie quando Angie le morde. Il sapore del ferro si mescola a quello delle loro bocche e Vinnie si perde sempre di più nell'estasi perché è tutto così vero finalmente, dopo migliaia di sogni e film mentali proiettati nel polveroso e fallace cinema della memoria, e pensa ecco cos'è la sindrome di Stendhal, perché Angie è arte, capolavoro, e lui ne percorre e possiede le perfezioni e viene preso e trascinato al largo, naufrago nella più divina delle perdizioni, e ogni onda è più forte e più vicina, gli manca il respiro mentre annega ma non ha paura perché la voce di Angie lo guida, i suoi gemiti sono canto di sirena che lo attirano e lui vi si aggrappa con un'ultima spinta, afferra i fianchi di Angie mentre lei gli graffia la schiena, si stringono l'uno all'altra negli ultimi spasmi del piacere che li sospingono a riva...

 

Le mani di Vinnie allentano la presa e lui si sente così stanco, così vulnerabile; tuttavia, quando si stende accanto ad Angie lei gli posa un bacio sulla fronte e allora lui sorride: non importa essere debole, nudo e fragile, se è per lei. Angie non lo abbandonerà più. Non tradirà di nuovo la sua fiducia, non lo lascerà più solo. Non si porterà più via altri vinili e altri anni.

Mentre lui pensa a tutto quello che lei non farà più, e a tutto quello che faranno insieme, Angie lo bacia di nuovo, delicata come ali di farfalla, ed entrambi cedono al sonno.

 






*****


 

 

 

* Riferimento alla Blackhill Enterprises, agenzia manageriale attiva tra gli anni Sessanta e i tardi Ottanta, frutto della collaborazione tra i Pink Floyd (ai tempi della formazione originale), Peter Jenner e Andrew King; nota soprattutto per aver seguito Syd Barrett dopo che quest'ultimo fu allontanato dai Floyd.

 

Spazio autore

 

Beh, ecco qui. Sto lavorando alla seconda e ultima parte, che già premetto sarà molto più breve della prima, si potrebbe definirla un epilogo probabilmente. Non ho idea di quando la finirò, sinceramente, anche se sono a buon punto, ma ammetto che non è facile da scrivere una storia così, e non perché io sia un Sepùlveda o chissà cosa, semplicemente perché voglio che sia una cosa di cui sarò soddisfatto una volta messa la parola fine. Ed è molto difficile che io sia del tutto soddisfatto di una mia storia.

 

Detto questo, vorrei dire che la storia mi è stata ispirata da una situazione vera.
Per proseguire gli studi mi sono trasferito a Forlì, e qui c'è un locale (che non è proprio un pub ma ci si avvicina), il Petit Arquebuse, dove vado molto spesso perché la birra è buona, il cameriere solito è sexy e divertente e il venerdì e il sabato sera c'è musica live.

Proprio un venerdì sera del novembre scorso, ho assistito all'esibizione di questo gruppo che arrangiava vecchi successi in chiave blues, davvero bravi. Non ricordo il loro nome e non si sono più esibiti al Petit, quindi non ho più avuto modo di ascoltarli di nuovo; comunque, Vinnie è uguale al cantante di questa band, ed è vero che al finire della serata ha chiamato a cantare questa donna di mezza età (che però aveva i capelli castano scuri, non rossi); hanno parlato per un po' e da quel che dicevano e dai loro atteggiamenti ho dedotto che fossero amici di vecchia data, ma che non si erano rivisti per anni (ho sentito quasi tutto perché ero seduto vicino al palco). Tuttavia, durante il brano che hanno cantato insieme (e che voci avevano!) ho notato certi sguardi che si scambiavano “Vinnie” e “Angie”, e vi assicuro, non erano casti.

 

Quindi avrei voluto scrivere una storia leggera e magari anche divertente su questi due ex amanti che si ritrovano dopo anni, e invece è venuta fuori una cosa più introspettiva e amara del previsto. Okay, questo è quanto. Sono un po' preoccupato, so già come far finire la storia – beh, più o meno – ma non vorrei che venisse fuori un finale troppo scontato.

Mi farebbe comunque molto piacere che mi scriveste cose ne pensate di questa storia, anche un piccolo commento sarebbe apprezzatissimo ^-^

Grazie in ogni caso per la vostra attenzione, baci e biscotti a tutte/i!


HunterMars
 

P.S. Giusto due cosine: primo, come ho già detto sopra, la birra del Petit è buonissima, al contrario di quella del pub xD; secondo, se non avete mai sentito la cover di Jeff Buckley di Hallelujah, perlamordiddio correte a sentirla. E sì, lo so benissimo che è impossibile che sia la canzone di Vinnie e Angie visto che persino l'originale di Cohen risale al 1984 ma sinceramente non mi importa molto perché io amo quella canzone, per me è molto importante (ovviamente per motivi personali/amorosi) e avevo bisogno di inserirla nella storia.

 

 

 

  
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