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Autore: Monique Namie    12/10/2015    5 recensioni
Nel futuro, la tecnologia per i viaggi nel tempo è diventata realtà. Un'agenzia temporale collegata ad un museo privato si è specializzata in viaggi nel passato, allo scopo di recuperare reperti storici da studiare e poi esibire dietro una teca. Per scongiurare il pericolo di creare paradossi temporali, il personale impiegato deve sottostare ad alcune regole fondamentali.
Questa è la storia di Edra, una ragazza da sempre affascinata dal tempo, brillante studentessa di cronoquantistica teorica e applicata, che ad un certo punto della sua vita, per colpa del passato, inizia a mettere in discussione tutto ciò che ha appresso.
{Racconto scritto per il contest "Verso l'infinito e oltre!" indetto sul forum di EFP}
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Crack Pairing
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Sciossione d'Anima
Racconto scritto per  il contest "Verso l'infinito e oltre" indetto da Najara sul forum di EFP.

PROMPT:
Immagine M: "Time Machine" by Joe-Roberts (la stessa usata per il titolo)
Citazione n.4: "Tutti i miei dominii per un istante di tempo" - Elisabetta I


Note autore
È la prima volta che mi cimento nel femslash.
Il racconto è piuttosto criptico, sicuramente al lettore sorgeranno delle domande: alcune troveranno risposta nei prossimi capitoli, altre probabilmente saranno destinate a rimanere irrisolte. Il bello, secondo me, è che ogni lettore può viaggiare con la fantasia e immaginare le risposte che più gli sembrano adatte.

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Cap.1 - Flashback




Ci sono un’infinità di modi diversi per dire “ti amo”:
Allaccia la cintura
Fai attenzione a dove metti i piedi
Riposati un po’
Non fare affidamento su quell’orologio.


La storia della mia vita può essere riassunta brevemente così: c’era una volta un orologio, poi l’orologio si fermò e io divenni parte integrante della quarta dimensione. Per quanti vogliano eventualmente conoscere i dettagli della vicenda, mi sono presa la libertà di sigillare il mio resoconto in un luogo sicuro tra le pieghe dello spazio-tempo: precisamente in un cassetto della mia nuova specchiera.



All’Ibizu Kilea, pub situato sulla strada di raccordo per il più grande spazioporto terrestre.

Ero seduta a un tavolo laterale e osservavo la pioggia scendere in rivoli oltre la finestra che avevo di fianco. All’esterno, sull’ampia strada principale, c’era traffico e anche il marciapiede era piuttosto affollato; a quell’ora i lavoratori dello spazioporto che avevano finito il turno si riversavano lungo la via per tornare a casa a cenare. Le ultime luci del giorno, che filtravano fra le spesse nubi temporalesche, stavano abbandonando gli imponenti grattacieli di cristallo nelle fauci della notte. Dalla mia posizione si vedeva un fiume di ombrelli colorati scivolare lento sotto il diluvio e si udivano i clacson degli automobilisti impazienti ogni volta che qualcuno tardava a partire quando scattava il verde.
L’Ibizu Kilea era un posto accogliente e dal vago sapore esotico; mi piaceva soprattutto perché, essendo vicino allo spazioporto, aveva un’ampia gamma di scelta fra le pietanze e il costo era accessibile a tutti.
Ero in quel locale perché avevo appuntamento con Linsdy, la mia migliore amica. La aspettavo ormai da mezz’ora e il cameriere era passato già due volte per chiedermi se volevo ordinare. Non era da lei dare buca in quel modo, non rispondeva nemmeno al cellulare: ero abbastanza seccata, quindi decisi che avrei aspettato altri cinque minuti, poi avrei ordinato qualcosa da asporto e me ne se sarei tornata nel mio alloggio per studenti.
Mentre aspettavo mi persi a osservare la famigliola di srehitani seduta al tavolo di fronte al mio. Con i loro capelli verdognoli e il mento lungo a punta erano inconfondibili: madre, padre e i due piccoli scalmanati sembravano tutti molto felici. Avevo studiato srehitano il primo anno dell’università come terza lingua, ma riuscii a comprendere gran poco di ciò che si dicevano perché usavano troppe espressioni dialettali. Qualcun altro al posto mio avrebbe potuto pensare che lo facessero apposta per non farsi capire. Ultimamente, sulla Terra, s’incontravano pochi esseri provenienti da altri sistemi solari; nonostante gli sforzi del governo mondiale per promuovere l’integrazione, sembrava che i pregiudizi fossero profondamente radicati nella razza umana, che non smetteva di trovare ogni giorno un nuovo pretesto per muovere guerra contro i propri fratelli. Non era illogico pensare che si fosse arrivati più volte alla soglia dell’autodistruzione, anzi, forse il pianeta Terra già non esisteva più da un bel pezzo, ma qualcuno era provvidenzialmente tornato indietro nel tempo e aveva modificato la realtà. Perché no? La tecnologia per i viaggi nel tempo esisteva ormai da due decenni; non si poteva di certo escludere la possibilità di vivere in un ramo temporale creato artificialmente.
Il rumore di qualcosa di vetro che va in frantumi mi distolse improvvisamente dai quei pensieri. Uno dei piccoli srehitani al tavolo di fronte aveva urtato un bicchiere che, a contatto con il pavimento, era finito in pezzi; i cocci taglienti si erano sparsi a terra fino ad arrivare sotto al mio tavolo. Un robot addetto alla pulizia del locale si attivò, uscì dalla sua nicchia scavata sulla parete e venne a portare via i resti del bicchiere rotto. In quello stesso momento la porta del locale si aprì ed entrò lei, accompagnata da una raffica di vento e pioggia. Linsdy mi vide subito e mi raggiunse schivando il robot e saltellando in corrispondenza dei cocci per evitare di pestarli. Si sedette al mio tavolo senza salutare e senza nemmeno scusarsi per il ritardo. Non aveva l’ombrello, quindi era fradicia, ma la trovavo bella anche con quell’aspetto un po’ trasandato. Apprezzavo la sua trasparenza: le si poteva leggere nello sguardo la storia della sua vita, una storia a tratti felice e a tratti sofferta.
«È possibile che ogni volta che io e te ci incontriamo debba piovere?!»
Disse proprio così, mentre cercava di scostare i capelli umidi che le si erano appiccicati al viso. Non sembrava infastidita, il suo tono era divertito. Mi fissò con i quei suoi grandi occhi verdi, cercando di carpire qualche informazione dalla mia espressione.
«Stavo per andarmene», dissi atona.
«Perché? L’appuntamento non era per le diciannove?», chiese stupita.
«Esatto. Adesso sono le diciannove e trenta passate.»
Controllò l’orologio da polso, poi se lo sfilò e lo appoggiò sul tavolo: era rimasto fermo a mezz'ora fa. Si trattava un oggetto di fattura chiaramente extraterrestre, con tre quadranti - uno centrale e due laterali più piccoli - e cinque lancette. «Dovrò portarlo a riparare», disse.
«Non sarebbe una cattiva idea. E potresti anche cominciare a rispondere alle chiamate», risposi stizzita.
«Accidenti! Avrei dovuto avvisarti: ho attivato il numero gioviano!»
Assunse un’espressione così dispiaciuta che riuscì a farmi sentire in colpa per la freddezza con cui la stavo trattando, poi continuò: «Non essere arrabbiata, Edra. Quello che conta è che adesso sono qui.» Sorrise, e dopo una breve pausa iniziò a raccontarmi le sue novità. Per il master, l'università le aveva affidato un incarico in collaborazione con la colonia spaziale orbitante attorno a Europa, una delle lune di Giove. Lì, da quello che avevo capito, c’erano le condizioni ottimali per studiare gli effetti delle oscillazioni gravitazionali sui vegetali coltivati in laboratorio.
Ci conoscevamo dalle elementari e, da che io ricordassi, Linsdy aveva sempre dimostrato un grande interesse per il tempo e gli orologi, come me. Durante l’intervallo eravamo solite giocare a “predoni del tempo”; raccoglievamo fiori e sassi nel giardino della scuola per poi nasconderli nello scantinato in cui era espressamente vietato entrare: consideravamo quel posto il nostro rifugio segreto dove portavamo tutti i bottini saccheggiati durante nostre fantasiose scorribande temporali. Quando, raggiunta la maturità, arrivò il momento di scegliere il percorso di studi, lei, per qualche strano motivo, scelse biologia spaziale.
«Hai già deciso che cosa farai dopo?», mi chiese.
«Penso che andrò a dormire.» Alla mia risposta rise come una matta.
«Ma no, intendevo dopo gli studi», disse cercando di ricomporsi.
Mi venne voglia di rispondere con qualche altra assurdità per farla ridere di nuovo, però mi trattenni.
«Non è che abbia molta scelta. Con una laurea in cronoquantistica posso solo sperare di essere assunta all’Agenzia di Viaggi nel Tempo per Benefici Storici.»
«La Titraahibe?! Sarebbe fantastico! Sei sempre stata una grande appassionata di viaggi nel tempo!»
Non sono i viaggi nel tempo in sé, ma il concetto profondo e la struttura del tempo che mi affascinano, ma non glielo dissi. Ero convinta che svelandole le mie emozioni, quelle avrebbero perso valore e sarebbero diventate qualcosa di banale. Per aumentare la mia motivazione avrei dovuto dimenticare io stessa le ragioni che mi spingevano verso quella strada. Consideravo il tempo come una prigione ma, per quanto fosse piacevole starci dentro, io ambivo a trovare una via per evadere e sondare l’ignoto.
Solo ora mi rendo conto che, per colpa delle mie paranoie, non sono mai riuscita a farle capire pienamente ciò che provavo per lei. Nelle relazione sociali sono sempre stata incline a nascondere i miei sentimenti. Insicurezza? Paura di mettersi in gioco e di ricevere delle critiche? Forse un blocco emotivo causato da qualche avvenimento verificatosi durante la mia infanzia... Credo che non lo saprò mai.

Un’ora dopo avevamo finito di cenare; fuori continuava a diluviare, s’era fatto buio e in strada si vedevano solo i fanali delle auto schizzare via veloci.
«Domani ho appuntamento con un ragazzo», mi disse, «l’ho conosciuto perché coordina il programma scientifico a cui parteciperò per il master. Partiremo assieme per Giove: è un tipo simpatico, penso ti piacerebbe. Prima di andare a dormire devo anche preparare i bagagli per il viaggio.»
Avvertii una fitta a livello del torace; sapevo benissimo che cosa significava, ma non ci badai.
«Conoscendoti metterai in valigia almeno una decina di orologi», scherzai cercando di occultare dietro un sorriso la mia preoccupazione.
Non le avrei mai detto nulla nemmeno ora che stava per partire: il motivo era sempre lo stesso, temevo che svelandole i miei sentimenti questi sarebbero diventati banali, fragili. Probabilmente c’era anche una nota d’egoismo nel mio pensiero. Se lei non mi avesse ricambiata, il mio stato di grazia sarebbe stato spazzato via come foglie secche da una raffica di vento e avrei dovuto guardare in faccia la cruda realtà. La realtà non m’era mai piaciuta e poi Linsdy sarebbe pure tornata dopo aver conseguito il master, no? Fra cinque anni, ma sarebbe tornata, e io allora avrei potuto riprendere in considerazione l’idea di parlarle. “Puoi rimandare, ma il tempo non lo farà”, mi avrebbe risposto il professore di fisica applicata, che amava tanto certe uscite filosofiche ad effetto.
Linsdy si alzò, mi voleva lasciare la sua quota di denaro sul tavolo, ma insistetti per pagare tutto io, allora si sporse verso di me: profumava di angelica e di quel riattivante elettrico che usava nei suoi orologi. Le piaceva salutare gli amici baciandoli sulla guancia; lo faceva sempre, ma quella sera dovette avvertire in me un certo distacco e quindi, dopo un attimo di esitazione ci rinunciò e allontanò semplicemente sorridendo.
La osservai sistemarsi il bavero del cappotto per ripararsi dal vento e dalla pioggia per poi tuffarsi nell’oscurità della notte. Io rimasi lì seduta ancora un po'. La famigliola di srehitani, che occupava il tavolo di fronte, se n’era andata senza che io me ne fossi accorta. Al suo posto ora era seduta una tipa scompigliata che incuteva un certo timore; una sciarpa arrotolata sul viso lasciva intravedere appena i suoi occhi furtivi. Abbassai lo sguardo sul mio tavolo e notai solo allora che Linsdy aveva dimenticato l’orologio.

Pensai che con quella sua dimenticanza avesse voluto concedermi una seconda possibilità. Uscii di corsa senza nemmeno prendere l’ombrello. Girato l’angolo del pub, la vidi ferma vicino al passaggio pedonale. Provai a chiamarla, ma la voce veniva smembrata e portata via dal vento, così mi misi a correre sperando di raggiungerla prima dell'avanti. Il via libera per i pedoni scattò proprio mentre ero a qualche metro da lei. Un autista distratto si accorse all'ultimo momento del rosso e inchiodò di colpo; le ruote del mezzo scivolarono sull’asfalto reso viscido dalla pioggia torrenziale provocando un suono acuto. Per un attimo sembrò che Linsdy si stesse girando verso di me, poi l’auto ormai fuori controllo la investì in pieno, terminando la corsa contro un vicino lampione della luce.
L'orologio mi cadde dalle mani.
In un primo momento restai come paralizzata, assistetti alla scena come uno spettatore impotente, mentre la pioggia mi entrava negli occhi offuscandomi la vista. Linsdy non si sarebbe mai presentata all'appuntamento con quel ragazzo e non sarebbe mai arrivata sulla colonia di Giove per il master. Il suo destino era questo: cenare per l'ultima volta con me all'Ibizu Kilea, dimenticare il suo orologio fermo alle ore diciannove sul nostro tavolo e uscire di scena con un sorriso. Io non avevo potuto nemmeno disperarmi, perché la pioggia rubava il posto alle lacrime e il forte vento sembrava l'unico artefice dei miei movimenti instabili.
Abbandonato sul marciapiede, zuppo d'acqua fino nel più microscopico degli ingranaggi, l'orologio che un tempo apparteneva a Linsdy fu calciato lontano da un passante.


Revisionato il 30-12-15.
Licenza Creative Commons
"Timegate: una porta verso il passato" di Monique Namie
è distribuito con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

   
 
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