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Autore: namineko    14/10/2015    2 recensioni
[One Ok Rock]
"Perché alla fine andava bene così, a modo suo era mio e io però ero sua in ogni modo che la mente e il cuore umano potesse conoscere, anche se non lo sapeva con certezza; era quasi sicuro che il fisico fosse sufficiente, come adesso che aveva preso ad accarezzarmi lentamente ed aveva fatto finta che i miei occhi stessero dicendo la verità."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Perché mi guardi in questo modo?»
Il suo sorriso era eloquente, io e lui non parlavamo mai tanto. Non c’era un vero e proprio bisogno delle parole, noi spesso comunicavamo con gli occhi.
Io non sono mai stata brava a mettere alla luce i miei pensieri, alla fine era sempre tutto un alzare le spalle e lasciare che le cose mi passassero addosso; viviti, non lasciarti vivere, questo mi diceva sempre.
Però adesso mi stava sorridendo e io ancora una volta mi trovavo immobile davanti a quegli occhi che mi scrutavano dalla testa ai piedi, mentre i nostri corpi imperlati di sudore si stringevano sotto quelle coperte candide che ci tenevano al caldo in quella fredda nottata di fine Novembre, un mese che sia io e che lui non abbiamo mai amato tanto.
«Mi piace guardarti.»
La classica risposta che gli davo ogni volta che mi faceva quella domanda, senza riuscire mai a dirgli la verità nella sua completezza.
Ah, se l’avesse saputo che in realtà dentro conservavo più e più parole a cui non riuscivo a dare voce. Eppure in quel momento mi sentivo così nuda anche dentro che avevo paura che quelle stesse parole potessero essere lette con facilità, che io potessi realmente essere un libro le cui pagine potessero essere sfogliate senza alcuna difficoltà. E questo mi faceva paura.
Lui mi accarezzava e io sentivo la pelle che tremava, il corpo che fremeva dalla voglia di riceverle ancora, quelle carezze. E lui lo sapeva che dietro i miei occhi che provavano a sorridere allo stesso modo si nascondeva qualcosa, ma come sempre faceva finta di non capirlo, di non saperlo.
Una volta me lo disse, che era in quel modo e che in quel modo doveva rimanere, e quindi da quel momento io avevo smesso di parlare anche con me stessa senza però riuscire a far stare zitta la testa che parlava e parlava con il cuore che, in sua presenza, non smetteva mai di urlare parole che sapevo non gli avrei mai detto e che non avrei mai voluto lui sentisse.
Perché alla fine andava bene così, a modo suo era mio e io però ero sua in ogni modo che la mente e il cuore umano potesse conoscere, anche se non lo sapeva con certezza; era quasi sicuro che il fisico fosse sufficiente, come adesso che aveva preso ad accarezzarmi lentamente ed aveva fatto finta che i miei occhi stessero dicendo la verità.
Non voleva pensare, questo diceva, e allora mi toccava, e allora mi baciava, mi prendeva come ora che le sue mani si facevano spazio tra le mie curve un’altra volta; come in quel momento in cui una delle due varcava le mie gambe e mi violava con una delicatezza paradossale prima di lasciare che il suo corpo mi sovrastasse e mi entrasse dentro senza neanche lasciarmi il tempo di reagire.
Mi riempiva, si spingeva con forza dentro di me e mi respirava addosso; il suo fiato corto si mischiava con il mio diventato superficiale. Un’unione che provocava quei rumori che si espandevano per tutta la stanza insieme ai miei e ai suoi gemiti rochi e dal tono profondo, mentre mi mordeva e io premevo le unghie sulla sua schiena. Qualche volta ci lasciavo delle strisce rossastre e a lui piaceva, e allora si premeva di più e sussurrava il mio nome con quella voce iniettata da un piacere che ci provocavamo a vicenda senza che spesso ce lo chiedessimo esplicitamente. Era il corpo che parlava sempre, noi restavamo zitti perché zitti dovevamo restare, o almeno io che nella testa avevo troppe voci che volevano uscire, e invece usciva soltanto quella che gli chiedeva di darmi un altro po’ di lui, quell’unica parte che in momenti del genere era mia  e che nessuno mi poteva togliere.
E allora io lo stringevo più forte quando mi si riversava dentro e mi lasciava in balia di un piacere completo che però ancora non conosceva, perché non lo sapeva che la mia mente lo avvertiva tanto quanto il corpo.
Non mi sorrideva più, poi, e mi si stendeva accanto con gli occhi chiusi e allora io non potevo nemmeno più perdermi in quello sguardo. Potevo soltanto sentire le sue braccia che mi chiedevano in una stretta strana di non allontanarmi troppo quella notte, perché dopotutto di un po’ di calore necessitava anche lui. Un calore che però il giorno dopo sapevo non avrebbe accettato.
Infatti poi quando ci svegliavamo il mattino seguente lui non era più tanto caldo, tornava un pezzo di ghiaccio che si rimetteva quei vestiti addosso che tanto mi piacevano e di cui tanto mi piaceva il profumo; e io spesso restavo a guardarlo anche se lui era girato di spalle e non mi vedeva, e forse era meglio così perché mi avrebbe schernita e mi avrebbe guardata con aria perplessa, e io mi sarei sentita una stupida che stava lasciando di nuovo la mente urlare e il cuore gridare parole che non sarebbero uscite fuori per nessun motivo.
Perciò poi mi alzavo dal letto e con calma anche io mi rimettevo addosso i jeans che sapevo piacessero a lui. Ne avevo comprati tre dello stesso modello, perché quando me li vedeva addosso mi diceva che erano belli e che mi stavano bene, e allora anche io mi sentivo un po’ bella, anche se non me lo diceva quasi mai.
La maglietta che indossavo quella mattina era color pesca, e fu lì che lui me lo disse che le pesche gli piacevano; non lo sapevo, ma quando me lo disse un mezzo sorriso mi si dipinse sulla faccia e lo giuro che ero quasi felice, perché allora forse quella mattina ero veramente bella e mi guardava con più piacere.
Stava sorridendo un’altra volta e allora pure io gli sorridevo con un’aria un po’ imbarazzata che a lui faceva ridere, però poi tornava di nuovo serio quando vedeva che io ero andata un attimo in difficoltà per colpa di chi lo sa che cosa.
«E’ così che deve essere, Rei, lasciamo che sia così.»
E allora io annuivo, però quella mattina la sua voce aveva una nota strana come se fosse malinconica, come se nella sua testa io chissà cosa stessi pensando; era una nota amara, che mi faceva deglutire e mi lasciava di più senza parole.
Poi lo vedevo puntualmente lasciare casa mia con una sigaretta tra le labbra, era sempre così, il copione era sempre lo stesso e le parole che mi rivolgeva anche, così come gli sguardi o le carezze tra i capelli prima di vederlo uscire dalla porta e sentire i suoi passi sulle scale metalliche; però quella mattina io non volevo che fosse così ancora una volta, e allora mi ero decisa che dovevo mettere piede anche io fuori e che almeno adesso non mi dovevo lasciare crollare le cose addosso soltanto perché lo voleva qualcun altro.
E perciò i miei piedi credo si muovessero per quello; lui non aveva parlato, io neanche, eppure la mia testa stava gridando ancora e mi stava guidando. Il cuore aveva le redini di quella carrozza in corsa e ad un tratto mi ero ritrovata con una mano che stringeva la sua felpa nera in tinta unita; si era già messo il cappuccio in testa e non si voleva girare, infatti mi ricordo che piano piano avevamo finito i gradini e ci eravamo trovati accanto all’albero che avevo nel giardino, quel bel giardino grande che profumava tutta quella zona di arance e ciliegie.
«Toru, per una volta guardami come vorrei che mi guardassi.»
«Non posso.»
Un botta e risposta che faceva male a me e che faceva male anche a lui, perché la sua voce adesso lo aveva tradito; la sigaretta l’aveva buttata per terra e allora dovevo essere io a farlo voltare con la forza.
E allora gli avevo portato anche il cappuccio via dalla testa perché lo volevo guardare per bene, volevo vedere i suoi occhi nocciola inondare i miei di quella intensità che sapevo non fosse troppo ghiacciata; quella notte era stata diversa e io l’avevo sentita un po’, anche se come al solito non mi ero fatta troppi pensieri perché l’ultima volta che era successo ci ero rimasta troppo male da restare zitta per tanto tempo, tanto da non riuscire a parlare in alcun modo differente dal linguaggio del corpo che con lui riuscivo ad usare bene.
Allora avevo deciso di guardarlo in quel modo tale da riuscire a far sì che le mie parole uscissero dai miei occhi e che lui potesse leggerle, mentre sussurravo piano il suo nome e qualche “mi dispiace” perché mi dispiaceva essere così me stessa in tutte quelle occasioni, perché mi dispiaceva provare tutte quelle sensazioni quando lui mi stava vicino.
Scuoteva il capo e provava distogliere lo sguardo, ma poi la voce mi è uscita e sono riuscita a dirgli quello che per tanto tempo mi ero tenuta dentro.
«Io non voglio che ci tocchiamo solo così. Toccami le mani, distruggimi la vita, ma voglio che ci tocchiamo la mente e lo so che è assurdo, però ti prego provaci, vorrei che almeno per un poco ci riuscissi.»
Mi ricordo che non mi aveva fatto finire di parlare perché le sue labbra si erano incollate alle mie e mi aveva abbracciato forte, mi ricordo anche che avevo sentito un singhiozzo strano prima di sentire una lacrima sua bagnarmi una guancia; e allora avevo sgranato gli occhi perché non me ne capacitavo.
Lui ancora non parlava però io stavolta lo sentivo urlare, anche se non stava dicendo niente; sentivo il suo cuore e la sua mente gridare proprio come facevano dentro di me.
E quella volta l’avevo veramente sentito, mentre mi diceva che non sapeva parlare e che aveva paura come me perché le parole non gli piacevano e lo spaventavano così come lo spaventavano le emozioni; e allora anche io l’ho baciato e gli ho detto a bassa voce che potevamo avere paura insieme e che le bugie le dovevamo tenere in gabbia così come le lacrime, e dovevamo far volare i sorrisi fuori da quelle stesse gabbie, così come lui faceva volare via le note da quelle chitarre che stringeva sempre con amore.
E allora poi mi ha stretta con amore allo stesso modo, e mi ha detto che forse la musica dentro di me gli faceva bene al cuore.
Poi ci siamo guardati ancora.
«Perché mi guardi in quel modo?»
Gli avevo chiesto.
«Mi piace guardarti.»
Mi ha risposto, e io lo sapevo che adesso stava dicendo la verità, perché ci siamo fatti un sorriso e abbiamo fatto l’amore con gli occhi per qualche minuto che è sembrato una vita.
La stessa vita che adesso stiamo vivendo mentre ci teniamo la mano, io da terra e lui sul palco che sorride ed è felice con la chitarra tra le mani.
  
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