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Autore: clagipa45    14/10/2015    1 recensioni
Un piccolo virus, che una volta "salvò" l'umanità, ora la distrugge: ma, poi, eccoli...............!
E, forse, i Maya, gli Hopi, i Veda e chissà quante altre paleo-culture c'avevano visto giusto.........!!!!
Genere: Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Antonio Sbarra
 

NEMESI DI UNA DIMENSIONE
 
 
Racconto breve
 
 
 
 
 

 
 
 
 
              
                “ ……. Poi, nel silenzio, un rumore d’aereo dal nord mi riportò il primo annuncio di vita umana.
Le analisi di laboratorio ci dissero poi che gli invasori erano stati uccisi da comuni batteri terrestri contro cui i loro organismi non erano preparati: distrutti, dopo che ogni difesa umana era fallita, dalla più umile forma di vita che Dio abbia suscitato su questa Terra …..” [1]
 
La mano, stancamente, lasciò cadere il volume alla cui lettura aveva atteso da oltre un’ora, preso anzi catturato spasmodicamente dalla sua scorrevolezza emotiva ed ammaliatrice. Era un racconto più volte letto e riletto, sin dalla sua prima infanzia, allorché le due antologie della prediletta fantascienza gli erano state regalate per un suo compleanno. Già: in quegli anni, la  possibile “mutevolezza” tra i regali la costituivano solo i titoli dei libri che i familiari usavano regalargli nelle – ahimè – poche occasioni in cui era norma scambiarsi qualche modesto regalo.
 
Ancora oggi, a quasi 50 anni di distanza, quei due volumi erano stati gli unici che aveva voluto portare con sé, nella “Grotta”, sul cui fondo  era allocato da …. (già: da quando?) centro e “motore” di una ricerca bio/geologica, a cui l’avevano dirottato dalla placida, tranquilla, sonnolenta sua cattedra di bio/geologia sperimentale presso una non grande, ma prestigiosa Università.
 
  • Occorre determinare con esattezza il  rapporto tra O2 e CO2  che un organismo umano consuma in un ambiente ristretto ed in condizioni di assoluto isolamento socio/culturale. Occorre determinare se le condizioni “anecumeniche” in cui un organismo umano si trovi a vivere, espunto dal suo abituale consorzio socio/familiare, modifichino, ed in che misura, le sue normali funzioni metaboliche, respiratorie e cardiache, oltre che analizzare tecniche di comportamento, eventuali disturbi delle funzioni cerebrali durante il sonno, e quant’altro desumibile.
 
Così il suo Rettore, oltre che collega di calcetto al giovedì sera, gli aveva comunicato circa ….. ma quanto tempo era passato? Il suo orologio “biologico” si era del tutto perso ogni possibile contatto con quello civile, quello da cui dipendevano tutte le attività di una normale giornata umana.
Anche i contatti con “quella” normale giornata umana erano stati prima ridotti progressivamente, per poi essere del tutto cessati ….. quando? Boh! Da tanto, tanto tempo, di sicuro.
Il tempo! Quella divinità sfuggente, cui diamo importanza solo quando ci manca o quando essa ci urge addosso con tutto il carico di impellenti obblighi e doveri, ma mai che ci accarezzasse con dita languide e morbide senza assilli e senza scadenze! Lo sciupiamo, lo maltrattiamo per poi lamentarne la mancanza e l’assenza nei momenti topici e determinanti.
Ecco cosa gli passava per la testa, mentre dava un’occhiata distratta e malevola ai monitor che erano la “sua” vita reale, almeno per i committenti della ricerca, alcune famose major farmaceutiche, veri avvoltoi multinazionali, che speravano di  ricavare da tali risultati vantaggiosi contratti con la NASA, in vista di future missioni dell’uomo nello spazio.
 
Il tempo! Mai aveva capito come adesso appieno il profondo assunto della coincidentia oppositorum, cara a Niccolò Cusano, ancora presente come reminiscenza dei suoi studi liceali, ora che era imbucato a circa 250 metri al di sotto dell’imbocco della caverna! Ora che di tempo ne aveva tanto, non sapeva come utilizzarlo! Il massimo che diventava minimo e viceversa; eppure – da contratto – ne aveva di cose da fare e tante.
 
La cura della persona, anzitutto. L’equipe medica aveva stilato e imposto protocolli e procedure minuziosi, prescrittivi, assillanti forse. L’igiene doveva rispondere a degli standard di assoluta asetticità, con
cura scrupolosa circa l’uso costante di guanti appositamente predisposti, il muoversi sempre negli stessi spazi, l’utilizzo di strumenti asettici e continuamente sottoposti a sterilizzazione molecolare e quant’altro poteva – e doveva – farlo vivere in una sorta di “bolla” impenetrabile e tutoria al più alto livello scientifico.
 
      Ecco perché il finale del racconto wellsiano, ancorché vecchio di quasi 120 anni, lo intrigava ancora, lo entusiasmava: oltre al “naturale”  rifiuto della minaccia aliena, c’era ad eccitarlo la nemesi di una strana vendetta, quasi una biblica inversione dei ruoli: l’alieno, potente, intergalattico, tecnologicamente avanzato in misura indicibile, sconfitto e distrutto  “ ….. dalla più umile forma di vita che Dio abbia suscitato su questa Terra ….
L’ennesimo mega Golia abbattuto dall’ennesimo micron Davide; tecnologie umane, frutto di secoli  di progresso e di sempre nuove acquisizioni, si erano dimostrate – ed erano state – inutili, infantili, ridicole addirittura di fronte allo strapotere galattico degli alieni invasori; mentre, di converso, poche molecole proteiche, con il loro semplice DNA e RNA, erano state capaci di abbattere la più disastrosa minaccia che l’umanità avesse incontrato.
Quasi gli dispiaceva, mentre attendeva con annoiato scrupolo alle quotidiane operazioni di bonifica ambientale, tese proprio all’eradicazione di quelle forme di vita minuscole, invisibili, ma pur sempre presenti intorno e dentro di noi. Gli dispiaceva.
Chi mi “salverà” se arrivano i Marziani? Quale forma batterica sarà in grado di ripetere il miracolo della notte di Halloween del 30 Ottobre 1938 quando – sotto l’abile regia di Orson Welles - solo alla fine dello sceneggiato radiofonico si capì che era fiction allo stato puro e che tra i mondi non era scoppiata alcuna guerra. Ma. ad onor del vero, pensava, sarebbe bastato spostare la data un anno avanti e il mondo avrebbe conosciuto davvero “la guerra”!
 
Non li vedeva, non ne percepiva la presenza, non era a sua disposizione alcuna contezza della loro vitalistica essenza, ma sapeva che erano lì, intorno e dentro lui, e tale “presenza” era per lui una sorta di polizza assicurativa, una garanzia biologico/culturale, contro ogni possibile perniciosa presenza che gli si facesse contro per minacciarlo e sopprimerlo.
 
Da fare? Tanto, e lo sapeva. La routine scientifica, il fulcro della sua presenza solitaria ed anecumenica, nel fondo di quella grotta carsica, in un asettico contenitore a temperatura costante, vedente ma non visto dalla folla di turisti che ogni giorno scendevano  i 100+100 scalini con cui giungevano al suo fondo e ne risalivano la parete opposta sino all’apertura. Scolaresche soprattutto: rumorose, fracassone, disinteressate al massimo grado, tese solo a controllare se “ma tu c’hai campo qua sotto?” per poter inviare MMS a tutta la tribù con cui sono costantemente connesse via satellitare, senza essere mai davvero “connessi” con se stessi!
 
Infatti, era nella condizione privilegiata di vedente non visto: la “bolla” che lo conteneva da tanti  mesi (siamo già a tanti mesi?) era l’esatta riproposizione del famoso vetro a specchio degli interrogatori, all’interno delle fiction poliziesche e investigative, con supercervelloni scientifici che da pochi indizi sono capaci di riconoscere anche la marca del cultro con cui Bruto assassinò Cesare! Non lo potevano vedere, ignoravano cosa facesse in quel momento che passavano a non molti metri di distanza dalla “cellula” che era la sua casa da tanto, troppo tempo. Lui, invece sì: e si divertiva – ecco un modo di passare l’amico/nemico tempo – ad immaginare cosa stessero pensando quei turisti lì, a pochi passi da lui; cosa li avesse maggiormente impressionati dello spettacolo meraviglioso di quella voragine naturale.
 Chissà, quella turista sta in questo momento pensando a qualche persona cara che ha lasciato a casa o, forse, a cosa dovrebbe aver fatto o non fatto mentre è presa da questo viaggio di piacere; ecco, quei ragazzi di quella Scuola, in capannello, forse stanno organizzando cosa combinare stasera in albergo, ad onta delle spiegazioni dei Docenti che si sforzavano di mostrare loro il feldspato di calcio che affiorava dalla parete rocciosa.
L’albergo delle gite scolastiche! Ne aveva “frequentato” qualcuno anche lui, ai verdi anni – per fortuna, pochi –  in cui aveva insegnato in un Liceo di provincia appena dopo la Laurea, in occasione di qualche gita scolastica cui aveva preso parte. Luogo di massonerie inconfessate, di consorterie notturne degne delle migliori camarille bizantineggianti o dei segreti maneggi di qualche fazione politica in Parlamento! Trasbordi tra camera e  camera sul filo di balconate periclitanti e lubriche; pigiama party perché “è l’ultima sera e dobbiamo salutarci” Salutarci? Ma domani non si riparte tutti insieme per tornare a casa e a Scuola? Mistero senza fine bello, direbbe un malinconico – e tisico – avvocato dalle parti di Agliè Canavese o, meglio, di “quel dolce paese” che non ci dirà mai quale è!
 
Non l’aveva mai capito quell’atteggiamento, come pure quel “doversi” tutti mettere negli ultimi posti del pullman, accatastati, affastellati uni sugli altri, pur di stare “lontano” da lui, il Docente, portatore di chissà quali contagiosi mali e come tale da evitarne anche il solo star vicino. Ed invece lui era sano e, soprattutto, sapeva di avere – intorno e dentro lui -  come usbergo ed egida divina quei piccoli esseri, microscopici, capaci come sappiamo di sconfiggere anche l’invasore galattico, sicché ….!
 
Da fare? Tanto e nulla al contempo. Esauritosi l’orario di acceso al pubblico, allora era davvero “solo”, solo con la sua strumentazione scientifica, col computer su cui riversava i dati raccolti ed analizzati nel corso dei numerosi esperimenti portati avanti, con i libri che gli era stato consentito portare con sé. Era giorno, fuori? Era notte, fuori? La luce artificiale in cui era immerso era costante, fredda, diaccia, ossessiva nella sua monotonia, e gli impediva di computare l’alternanza cara alle leggi di Keplero tra giorno e notte, estate e inverno; l’abituale routine, di cui si era lamentato per la sua ripetitività alienante, ora gli mancava e di tale privazione ne avvertiva l’urgente bisogno, oltre che la mortificante assenza. Il primo caffè della mattina, la scorsa rapida dei quotidiani a mezzo internet, le lezioni all’Università, la corsa per raccattare al volo la  nipotina all’uscita dalla scuola e riconsegnarla – incolume – all’occhiuta rapina della consuocera, coabitante con la figlia ipsa nolente all’altro capo della città; le operazioni di controllo degli esaminandi a fine semestre e via andare fino a sera, la “sua” sera ove raccogliere le sparse “membra” della sua personalità franta tra  mille noi e nessun autentico io. Ora, ora sì che poteva davvero incontrarsi, conoscersi, discutersi se ne avesse avuto forza e, soprattutto, voglia.
 
Una formica – chissà come ha fatto ad entrare – attraversò il suo campo visivo, correndo sulle sue zampette tra la scrivania e il cubicolo che gli avevano con pretenziosa albagia presentato come il suo letto. Ne seguì le mosse,  ne cercò di anticipare il percorso fallendo sempre e comunque ( Ahi, la legge del Caos!) finché, dopo quasi avergli rivolto un ultimo sguardo (?????) l’animaletto scomparve nello stesso iperspazio da cui, forse, era entrata, aliena presenza di un’oscura minaccia a sei zampe!
 
Il cicalino della Centrale di Controllo emise il suo indifferente trillo, come quasi per svegliarlo dalle sue elucubrazioni, cui indulgeva sempre più frequentemente negli ultimi giorni, o mesi, o anni o eoni? L’ennesima pompa del modulo di servizio che era in mal-function? Ma in italiano non esiste la parola malfunzionamento, si era sempre chiesto? Perché voler anglizzare il tutto, anche in presenza di un corrispettivo linguistico reale, icastico, paradigmatico e addirittura diegetico? Il briefing? E la riunione, allora? Il cicalino suonava, suonava ed anche queste – pur logiche – sue riflessioni linguistiche e filologiche furono anch’esse interrotte.
 
Bisognerà vedere di che si tratta”, pensò mentre si trascinava in un’anabasi di pochi metri per raggiungere l’infernale oggetto strillante. Poi, come per rendere più desolanti i suoi pensieri, l’intero quadro controllo si illuminò di una serie infinita di luci, tutte maledettamente rosse, a segnalare una vera DEFCON 1, quella condizione in cui è guerra termonucleare globale, e la Terra può essere distrutta ben 14 volte, stante l’arsenale atomico della superpotenze. Si era sempre chiesto con ironico stupore, lui che la Guerra “fredda” l’aveva vissuta, attraversata - e temuta – tutta, come sarebbe stato il mondo se lo si potesse davvero distruggere  una seconda volta! E addirittura quattordici?
 
Il cicalino non smetteva e lo “spettacolo” delle luci di allarme si era ove possibile accentuato: ora era tutto uno sfolgorio di luci che neanche la più fantasmagorica Piedigrotta degli anni Cinquanta, laggiù sul golfo caro a Virgilio, o a un Leopardi che lo osservi dall’alto dello “sterminator Vesevo”! Il protocollo dell’emergenza fu subito compulsato, ma non servì a nulla perché il “caso” di una mal-function onnicomprensiva non era certo contemplato e meno che mai codificato in procedure sintomatiche e risolutrici.
 
Poi, il nulla.
 
Il lieve soffio dell’aria condizionata si era per l’intanto affievolito sino a tacere del tutto; le luci si attenuarono sino a scomparire, il sottofondo sonico, cui l’abitudine non gli faceva fare più caso, scomparve anch’esso e il nero silenzio lo avvolse, con le sue braccia avvinghianti ed inesorabili .
 
Ecco, sono in una bara, sepolto da vivo, sottoterra: l’avverarsi dell’incubo peggiore, quello che lo aveva accompagnato da sempre, grazie (?)  anche ad una claustrofobia “minore” che affiorava in qualche ascensore o in un ambiente ristretto e poco illuminato.
 
Aveva sempre nutrito una sorte di “invidia” generosa verso i minorati della vista, geloso delle loro capacità di “vedere” al buio, a rimborso bio/psicologico della minorità sofferta. Ne aveva spesso, da bambino, tentato di ripeterne le gesta quando, nella casa a più stanze in cui abitava, doveva recarsi da un capo all’altro e “non accendere le luci, che costano” era il diktat economico e familiare cui doveva adeguarsi. Anche da adulto era tutto uno scontro con la famiglia perché accendeva raramente – e solo davvero necessitato – le luci ed era tutto  un rimbrotto ed un rimuginio costante tra lui, la moglie, le figlie.
 
Ma, ora, quella pur minima facoltà gli è d’ausilio. Trova, a fatica ma trova, la torcia. Se l’era portata quasi di nascosto, senza che i soloni alto seduti dell’organizzazione se ne accorgessero: l’umanistica sua fiducia, sempre presente pur in uno scienziato di formazione classica come lui, negli strumenti “classici” stavolta lo aiuta e con la fioca sua luce raggiunge l’ovulo d’ingresso della bolla, quella minimale entrata da cui era passato, quando, tanti mesi addietro, o ieri mattina?
Mentre cerca di capire come fare per aprirlo un pensiero lo folgora, non sulla via di Damasco, ma su quella più prosaica, meno biblica e meno profetica dell’uscire ad ogni costo, prima che l’aria si esaurisca e – ecco un buon risultato scientifico dell’esperimento - l’anidride carbonica la faccia da padrone su di lui, sui suoi alveoli, sulla sua emoglobina ormai ridotta a puro ectoplasma ed è la fine, la tanatos greca, l’avviarsi vero la landa, quella che i Latini definivano l’orbe, unde negant redire quemquam, da cui si dice che nessuno sia mai tornato indietro, o almeno tanto “vivo” da poterlo raccontare!” “
 
  • Ma, è da parecchio tempo (giorni, mesi, anni, eoni?) che non ci sono più visitatori nella grotta! -
 
All’improvviso, quella varia umanità - che egli osservava non visto dalla sua bolla e dalla cui presenza spesso era infastidito sino al punto di desiderarne la rapida scomparsa – gli manca: anche quel signore grassoccio che, ad onta di ogni divieto, ha lasciato imperitura sua traccia graffitando il suo nome sulla roccia; anche quella studentessa che ha gettato la sua lattina di birra sotto una stalattite millenaria; anche quegli stranieri (sì, erano stranieri perché seguivano un ombrellino con sopra una bandierina di qualche nazione new entry all’ONU) che hanno voluto portarsi un vestigio della gita bucherellando ogni ben di Dio presente in grotta. Gli mancano tutti e ciascuno: quei volti che gli passavano “sopra” come acqua su roccia ora gli ritornano vividi alla memoria, ne recupera ogni sembiante ed ogni fisiognomica loro caratteristica. Sono suoi compagni, ora, nel buio che lo accerchia, suadente, mellifluo, maligno ed esiziale.
 
Si dice che se uno cade dall’alto, nei pochi secondi del volo, rievochi tutta la sua esistenza, lucidamente condensata in pochi fotogrammi, i più rappresentativi: il volto della mamma, della persona amata e più cara, il giorno più bello e via andare. È vero.
 
La sua mamma,  la vecchietta degna della dizione di iron lady, vera dama di ferro, immarcescibile, inossidabile, vera roccia su cui anche le più perfide magagne della vita non hanno lasciato segno; la donna, amata forse più di ogni altra, che non ha potuto “amare” davvero, vicinissima essendo e lontanissima al contempo; l’emozione della nascita di una figliola. Tutto gli è ora davanti, presente, incalzante, e quasi lo sprona a salvarsi, a farlo per loro, come per assolvere ad un  dovere, dovuto per antico obbligo, contratto chissà dove, chissà quando.
 
Le mani da scienziato sono incerte, s’inceppano nel cercare l’apertura della bolla; ma poi si ricorda che per contratto essa si apriva solo dall’esterno ed alla scadenza dell’esperimento, cui si era sottoposto peraltro volontariamente, allettato anche dal lauto compenso che le multinazionali patrocinanti gli avevano promesso.
 
  • Ed ora? Buio ed asfissia! Bel modo di morire, per uno che pur ha sempre esorcizzato la Grande Eguagliatrice con ironia, distacco e filosofica agnosia! –
 
 Ma, appena essa si approssima “davvero” col suo passo felpato, ogni barriera esorcizzante che la tua cultura ha voluto erigerle contro cade, si vanifica e la paura ti prende in modo irresistibile. Si affanna con le sue mani da “non” tecnico a smontare il meccanismo di apertura della bolla, mentre il fiato si fa grosso, la lingua si intorpidisce e le unghie (quelle poche residue dopo il solito “pasto” quotidiano) si spezzano nell’inane tentativo. Parlare di tachicardia in tali frangenti è fare un’offesa alla più lenta tartaruga, anche a quella che – nei suoi ricordi liceali – volevano essere più veloce dello stesso Achille Pieveloce.
 
Un suono strano, inavvertito sinora, lo circonda all’improvviso. Un sibilo, prima lene e poi sempre più potente inonda la bolla, con un retro suono di un qualcosa che cessa, che si eclissa, che scompare: sembra, al suo orecchio, la lenta agonia di un mostro preistorico o intergalattico, di quelli cari alle sue letture giovanili di fantasy o di horror.
 
Poi, la bolla si apre! L’interruzione dell’energia, evidentemente, ha messo in azione il meccanismo di estrema “difesa” per cui a tale blackout doveva tener dietro l’immediata ed automatica apertura dell’ingresso alla bolla, per permetterne l’uscita ad eventuali suoi residenti.
 
Uno schianto “gelido” fa abbattere l’apertura e l’aria della Grotta, anche se vecchia di milioni di anni e consumata dal passaggio di numerosi visitatori gli si fa addosso, lo avvolge con il tepore confortevole dell’abbraccio di una mamma. La respira a grosse boccate, avido. Geloso che qualcun altro potesse portargliela via di nuovo.
 
Il buio domina non solo la sua privata bolla, ma l’intero complesso geologico della Grotta. Nel silenzio improvviso riesce finanche a sentire quello che mai prima aveva potuto notare e, forse, anche apprezzare: le poche gocce d’acqua che cadono dalla volta e che, con la concrezione dei loro depositi minerali, hanno saputo costruire i miracoli delle formazioni geologiche che ornano le formazioni similari in tutto il mondo. Sinora, il cicaleccio incessante degli studenti – disinteressato ed altrove rivolto – o il distratto e distraente parlarsi “addosso”  delle varie comitive di turisti, hanno coperto ogni possibile suono naturale godibile in tale ambiente vergine dall’umano contatto.
 
Li sente, questi suoni,  li assapora con la curiosità adamitica di un bambino di fronte ad una cosa nuova, che lo stupisce e lo affascina al contempo.
 
Ma, l’uomo e lo scienziato – che non sempre nei suoi sessanta anni di vita sono andati d’accordo – stavolta sono unanimi e concordi nel richiamarlo ad un senso del dovere impellente ed urgente: cosa succede? Cosa è successo perché tutto ciò ha smesso di funzionare e per cui mi ritrovo, solo, al buio, nella Grotta? Per fortuna, istintivamente, non ha mai abbandonato la torcia e la brandisce come Orlando la sua Durlindana o Artù la sua Excalibur o Rinaldo al sua Fusberta o Agricane la sua Tranchera. Vorrebbe con essa spezzare la cappa che lo inghiotte, ma le non potenti sue batterie sono solo capaci di illuminare episodicamente, singolarmente, individualmente frazioni e minime porzioni del vasto spazio in cui è immerso, come in un oceano sconosciuto ed infido. Laggiù, sulla parete ancora sono fissi i 100+100 scalini con cui le comitive scendevano e risalivano la voragine, con un andamento a  chiocciola lungo l’imbuto dal vago sapore da Inferno dantesco.
 
  • E se provassi ad uscire? Almeno là fuori qualcuno sarà in grado di spiegarmi cosa è successo
 
Le gambe, da troppo tempo abituate al poco movimento che la mini-palestra allocata nel suo cubicolo gli permetteva, fanno un immane fatica ad attraversare il fondo della Grotta, evitando con cura gli ostacoli naturali presenti sul pavimento, per poi iniziare il calvario della risalita. Ogni gradino è una sofferenza, ma la ricompensa è costituita dalla coscienza che uno di meno è da affrontare, uno di meno opporrà la sua forza di gravità al suo incedere verso l’alto. Novantotto, novantanove, cento! E siamo fuori!
 
L’ingresso della Grotta è posto su una lieve altura, tra uno spolverio di sassi morenici e rare piante della macchia mediterranea: del resto - ricorda - il mare è a pochissimi chilometri. Intorno, la rete che circonda il complesso e, laggiù, in fondo al vialetto d’ingresso, gli uffici dell’Ente che gestisce il complesso geologico: la biglietteria, l’amministrazione, i bagni e il parcheggio su cui staziona un solo bus con targa straniera.
 
Intorno, nessuno.
 
Intorno, nessun rumore, se non quelli “naturali” di un rivo strozzato che, se lo ricordava bene, aveva guardato con poco interesse quando (un mese? un anno? un eone? prima) era entrato nella Grotta, col codazzo dei mass-media che lo fotografano, lo intervistavano, lo circondavano con asfittica ossessività, mentre lui avrebbe voluto fermarsi un attimo su quel rivo, sedersi sulle sue sponde già ingentilite dalle erbe novelle e lì, con la sua famiglia, riposarsi un attimo da quell’improvvisa notorietà oppressiva, lui, abituato all’umbratile e modesta routine di una vita di docente, marito, padre all’interno di una quieta esperienza di vita: sì, quieta, ma orazianamente “solida” perché le cose semplici sono quelle vere, quelle non ectoplasmatiche e fuggevoli di un solo” consumo” fine a se stesso!
 
Anche gli insetti sono lì, tutti e con tutti i loro suoni, i loro colori e le loro attività incessanti, singoli e gruppi singolarmente organizzati.
 
Anche gli uccelli sono lì, tutti e con tutti i loro suoni, i loro colori e le loro attività incessanti, singoli e gruppi singolarmente organizzati
 
Anche alcuni animali sono lì: due cani che si rincorrono tra di loro e poi improvvisamente si fermano a guardarlo, quasi con stupore: non gli abbaiano, non gli scodinzolano la coda, non lo minacciano né gli chiedono carezze. Sembrano meravigliati di vederlo. Uno si avvicina con sospetto, lo annusa e poi emette un guaito: a lui, gli dà l’impressione di chi si emoziona a rivedere una persona cara che non vede da tantissimo tempo e quasi lo “sente” come un fantasma piombato da chissà quale dimensione!
 
Una mucca emette un muggito laggiù, nella pianura che circonda l’altura della grotta: non gli dà l’impressione di un richiamo normale, bucolico, ma di una sofferta consapevolezza di un qualcosa inusuale e tragico.
 
Si guarda addosso, per la prima volta. La tuta di servizio, quella che canonicamente doveva indossare perché intessuta di ogni possibile marchingegno atto a valutare e misurare ogni suo parametro vitale gli dà, stranamente, l’impressione di un qualcosa di fuori “luogo”, di una stonatura in uno spartito perfetto per il resto, di un essere “sopra i righi” e quindi altro rispetto al contesto in cui sei inserito. A passi forzosi, strascinandosi perché solo ora le sue membra sembrano riacquistare forza con l’esercizio fisico, si avvia verso la valle, verso la strada che, ricorda, porta alla città, la stessa da cui (un mese? un anno? un eone? prima) era partito per iniziare l’esperimento.
 
Finalmente un’auto. Ma è ferma, con la portiera aperta: forse il conducente è nei pressi per fare un bisognino o chissà cosa altro. Chiama, chiedendo se ci sia qualcuno. Gli risponde solo il frullo di un passero spaventato, che era sulla siepe vicino al ciglio della strada. Anche quel frullo, quel volo, gli danno l’impressione di un qualcosa di inaspettato, di improvviso o, meglio, di un qualcosa che sembra - agli occhi dell’uccellino - “ritornare” dopo una lunga assenza, una troppo lunga assenza, inabituale e discorde rispetto all’istinto sinora seguito.
 
Ma, lungo la strada che ha deciso di percorrere per recarsi in città, altri autoveicoli sono fermi, abbandonati, e già ricoperti di strati copiosi di polvere accumulatasi – evidentemente – da troppo tempo. Su un furgoncino per le consegne espresse, addirittura, trionfa il nido di una coppia di corvidi (gazze, cornacchie o  merli non saprebbe dirlo) da cui fa capolino la testa implume di un nidiaceo che, vedendolo, lancia un richiamo di aiuto, cui subito fa riscontro il verso della coppia parentale che volteggia più in là, in cerca di cibo per la prole.
 
Un nido non lo si fa dovunque e non certo in poco tempo”  è il pensiero che lo coglie, accompagnato da un acuto senso di presago disappunto. Chi potrebbe aver abbandonato le proprie auto in mezzo alla strada per tanto tempo? E le autorità preposte alla circolazione non hanno voluto o potuto provvedere alla loro rimozione?  Ma – ed è la constatazione che più lo allarma – se è giorno (l’esperimento prevedeva anche la totale “assenza” di ogni indicazione temporale e pertanto non possiede orologi) pieno, dov’è la gente? Perché quella strada, che ricordava piena di traffico, è deserta? Ma, di nuovo, dov’è la gente?
 
Nessuno passa, nessuno viaggia, nessuno coltiva i campi.
 
Anzi, ora che presta la sua attenzione alla campagna circostante la strada, i campi sono incolti ed evidentemente da parecchio. Sembra che il set- aside che l’Unione Europea ha imposto agli operatori agricoli su una porzione del loro terreno, per permetterne il riposo stagionale ed il rinnovo batterico ed umico, si sia esteso all’intera proprietà agricola. Solo sterpi, vegetazione spontanea rigogliosa e superbamente trionfante, viluppi di erbe e di arbusti di ogni tipo, coprono con albagia e quasi “ironica” dominanza ogni angolo di terreno e già minacciano di invadere la sede stradale. Ma, le coltivazioni di cereali di varia tipologia che aveva notato, anche se distrattamente quando lo avevano accompagnato alla Grotta col conseguente codazzo di reporter ed inviati vari, che fine avevano fatto? Solo vegetazione spontanea e concorrente o macchie scure di terra incolta ai due lati della strada. Le coltivazione arboree, stessa rappresentazione: vigneti coi tralci lunghi sino a terra e deprivati di ogni pur minima manutenzione; arboreti coi radi frutti ancora sui rami e la presenza evidente di attacchi parassitari di varia genesi. Ma, soprattutto, un senso di “abbandono” come se un demiurgo al negativo si fosse divertito ad eradere ogni traccia possibile di civiltà umana, del suo operare e del suo intervento sulla natura.
 
La strada, la percorre con sempre maggior angoscia: tante volte le sue letture e la filmografia prediletta gli avevano rappresentato scene di un mondo oramai “senza” gli uomini, ove il tempo avesse vinto – come vendetta su una presunzione umana di eternità – ogni loro vestigia, ogni loro ricordo, ogni loro traccia capace di testimoniare che lui, l’Uomo, lì, “c’era stato”!
 
La città, finalmente. O meglio, i primi caseggiati dell’estrema sua periferia. Nel viaggio di “andata” non l’aveva neanche notati, preso come era dalle ultime raccomandazione del personale medico e scientifico sulla su prossima esperienza o dall’ultimo SMS che la sua famiglia gli aveva inviato. Ora quei casermoni anonimi di un’umanità mediocre e modesta sono lì davanti ai suoi occhi. Li percorre con lo sguardo, uno ad uno, quei palazzi, fissando nella mente ogni particolare: dalle finestre,  aperte le più, quasi a voler “comunicare” tra loro un messaggio dall’arcano significato; agli esercizi commerciali a pian terreno, anch’essi aperti e privi di ogni possibile, umano, visitatore.
 
Entra a caso in una lavanderia, la prima che gli capita davanti, mentre certe scene di certi film o di certi libri della sua gioventù gli scorrono, terrorizzandolo viepiù, davanti alla mente. È grande, evidentemente serve anche comunità oltre che singole famiglie. Le grandi lavatrici sono spente e polverose e da una, con ancora il grande oblò aperto, sono caduti a terra vari capi di biancheria, come un osceno vomito di un gigante: orami sporchi, polverosi, macchiati di unto, danno proprio l’idea di sfacelo e di abbandono; anzi, l’immagine che si forma davanti agli occhi è quella di una “fuga” precipitosa. Un cliente ha lasciato sul bancone alcune banconote che nessuno ha mai provveduto a raccogliere o incassare.
 
Quegli oblò delle lavatrici e delle asciugatrici sembrano tanti occhi di un mostro alieno, o di uno di quei ragni giganti che i documentari scientifici mostrano sovente.
 
Su tutto, polvere e solitudine e quell’idea, dapprima minimalista e periferica, di una catastrofe che “DEVE” essere accaduta gli si fa sempre più pressante ed urgente: chi, o cosa, può aver generato tale assenza di umanità, così totale e totalizzante, al punto di farne scomparire perfino le stesse tracce fisiche?
 
Un’edicola poco più avanti è tutto un cumulo di cartacce, una volta giornali e riviste patinate, che il vento ha arruffato e mescolato con perfidia e noncuranza. Sfoglia a caso alcune pagine di quotidiani: strano, sono tutti fermi a pochi giorni dopo che lui si è inabissato nella bolla all’interno della Grotta. Rivive fatti, esperienza, notizie, gossip, annunci a lui già noti: ma soprattutto, non riesce a trovare nessun quotidiano o rivista posteriore a tale data (un mese? un anno? un eone? prima) come se la storia, la vita, il flusso umano si fosse interrotto in quella data.
O Gesù: e gli altri? La strada è tutta un caos di autovetture “parcheggiate” in ogni modo possibile, sui marciapiedi, nelle corsie di marcia, addirittura alcune incastrate una sull’altra, come in un estremo tentativo di sorpasso, rischioso ma disperato!
Qualche cane randagio, con tra le fauci qualche pezzo di cibo raccattato chissà dove, gli attraversa la strada davanti, ringhiando verso lui, un possibile contendente per quel cibo. Io, a contendere al cane il suo osso? Non fa a tempo a nutrire tale assurdo status mentale, che una volpe gli si fa davanti, incuriosita dalla sua presenza, per lei forse inusuale. Il suo afrore selvatico lo si avverte anche a distanza, segno di un inselvaticamento viepiù cresciuto col tempo: ha un ratto in bocca e, dopo un ulteriore sguardo incuriosito, si rintana in un sottoscala.
 
Una volpe in un sottoscala urbano? Ha sentito da tempo notizie circa una progressiva “urbanizzazione” da parte di animali selvatici, per l’eccessiva antropizzazione del loro habitat naturale: ma assistere al fenomeno di una volpe “condomina” di un Condominio, beh questo è davvero troppo! Scherza: chissà che quote millesimali le competano?
 
Man mano che si inoltra nella città, lo spettacolo non cambia. Animali, talora davvero impensabili per  un ambiente urbano, che si aggirano – e non certo furtivamente – tra le strade e i palazzi; arredi urbani evidentemente privi di qualsivoglia manutenzione e non da ieri; vegetazione spontanea che sta orami colonizzando ogni possibile angolo, penetrando nelle fessure, negli interstizi, nelle commettiture, ovunque.
Ma, soprattutto, quel senso di “vuoto” che lo assilla e lo angoscia, ma mano che si avvicina al centro della città.
 
Luci? Arredi ed addobbi degni dell’opulenza economica della città? E quel sapore di “dominio” sul destino che un centro commerciale sa trasmettere a chi lo frequenti, sciorinandogli davanti merci e beni di ogni genere, allusivamente persuasore all’acquisto? Dove sono finiti? Una “mano” gigante sembra averli spazzati via. Non perché siano scomparsi, anzi: le merci, anche le più raffinate e ricercate, le più costose e le più rare, sono ancora tutte lì, ma su di esse sembra essersi steso un “velo” di – appunto – abbandono, noncuranza, assenza.
 
Assenza: ma, di chi o di cosa? Ma di chi quelle merci le usa, le consuma, le desidera, ne fa l’oggetto dei suoi sogni anche proibiti, di chi “vive” quasi per loro: l’Uomo.
 
In un raffinato negozio di elettronica, dove è entrato per connaturata abitudine di curiosare in un mondo che lo ha sempre affascinato con le sue luci, i suoi suoni, le sue esplosioni di colori attraverso i mega schermi TV,  questi caleidoscopi rutilanti ora gli si parano dinanzi, invece, come occhiaie vuote, orbite di teschi senza parola, senza suono, senza colore. Anzi, il silenzio è l’assoluto “Signore degli Anelli” nell’immenso stanzone, una volta (un mese? un anno? un eone? prima) rutilante di suoni e colori, esplosivi e martellanti dagli schermi, dai riproduttori musicali, dalla strumentazione ultraelettronica nella sua più alta ed aggiornata congerie sonora.
 
E se provassi a telefonare a qualcuno?
 
Eccolo, allora, toccare, svogliatamente, quell’ I-PHONE che aveva desiderato da tanto tempo. Bene. Funziona, la sua batteria, intatta, è ancora carica. Ma non riesce ad andare oltre il menù iniziale, o oltre i file in esso allocati per precedente memorizzazione, quella di serie, in default. Tenta la connessione wireless con Internet: mutismo globale. Tenta allora la connessione telefonica col suo numero di casa, col cellulare della sua famiglia, della moglie, delle figlie: Nulla! E, allora, dove sono? La moglie non è al suo solito posto – ormai è pomeriggio inoltrato – di lavoro, nell’ufficio di quel Notaio? E le figliole non sono ai loro posti di lavoro abituali?
L’amico di sempre? Il Rettore? Il suo avvocato? Il suo commercialista’ Tutti “irraggiungibili” e tutti sotto un  manto di silenzio comunicativo. Esce.
 
Evita a stento che un cavallo, lanciato a galoppo sfrenato, lo travolga con la sua mole: poi, prova a rifugiarsi in un lussuoso ristorante del centro, quello dove aveva cenato pochissime volte, visto il costo anche di un solo tramezzino, ammesso che questo “proletario” cibo trovasse allocazione nei menù poliglotti del locale. Il solito senso di abbandono, la polvere ammassata a quintali sui tavoli e sui banchi della cucina: i frigo pieni sì, ma di un ammasso scuro e maleodorante di cibi avariati ed ammuffiti: almeno per oggi, in questo locale a 5 stelle, non si spende nulla!
 
Già, ma cosa mangio io?” l’istinto di conservazione gli reclama questa necessità ancestrale, insopprimibile e da soddisfare ad ogni costo. “Quel supermarket all’angolo avrà pur qualcosa ancora commestibile da consumare prima di morire di fame, dopo che mi sono salvato dall’asfissia
 
Entra.
 
Gli scaffali sono tutti ribaltati a terra e moltissime delle confezioni sono state aperte con furia e dilacerate a morsi e  graffi. Il loro contenuto, almeno quello deperibile, è simile al contenuto del frigo del ristorante prima visitato; il resto, gettato – quasi con rabbia – sul pavimento e sugli stessi scaffali, in un caleidoscopio di colori, forme, funzioni, necessità mescolati alla rinfusa, senza un logos raziocinante, senza una parvenza di ordine primevo che ne catalogasse e disponesse la loro presenza in un contesto accettabile.
Il banco dei surgelati? Altra amorfa mescolanza di tutto un po’! Lo scatolame? Ecco, qualcosa lì è salvo, protetto dalla confezione metallica. Apre alcune scatolette di tonno: è ancora buono ed almeno sazia i morsi della fame. Anche la frutta sciroppata è  mangiabile e se ne ciba con piacere. Tante volte era venuto in quel negozio con la moglie a fare shopping settimanale; conosceva quasi tutto il personale e lo stesso direttore era stato suo amico di gioventù, ai tempi del Liceo. Ora, solo caos primevo, puzza di roba avariata e marcia e confusione, tanta confusione.
Ancora una volta, lo angoscia quel senso di “vuoto” umano, quell’aura di assenza che come un mantra da alcune ore gli si è attaccato addosso come una seconda pelle.
 
Sono solo! Sono rimasto solo, solo io. Ed adesso?
 
Si guarda intorno, una volta che è riuscito sulla strada, quella strada, ove (un mese? un anno? un eone? prima) era uso venire a passeggiare, per lo “struscio” del sabato pomeriggio, incontrare amici e conoscenti, scambiarsi saluti, omaggi, gossip, veleni, amori. Lo shopping natalizio? La corsa affannosa degli ultimi momenti per gli ultimi “pensierini” con le litigate e le baruffe di rito, per poi tutto sciogliersi in una risata, frutto della “complicità” derivante da numerosi decenni di vita coniugale ed affettiva insieme?
 
Finito!
Tutto finito!
 
Si è fatta sera e la temperatura è scesa. Perché non recarsi nel più “in” degli hotel al centro? Può darsi che anche lì non si paghi niente. O è meglio andare a casa, la sua, anche se è dall’altro capo della città?
Ma come mi ci reco, se non si muove più nulla e nessuno? – si chiede disperato, volgendo lo sguardo di qua e di là, nella malcelata speranza che l’incubo, quell’incubo, finisca e il solito suo Bus, il 24 rosso, passi per la sua solita fermata e lo rechi a casa, la sua, nel candido liquido amniotico del calore familiare.
 
Familiare, ecco. Ha sempre avuto, forse per la sua primigenia formazione classica (…… e so legger di greco e di latino ….) una naturale “curiosità” per le parole e la loro semantica, filologica, valenza: familiare è usuale e gradevole proprio perché si svolge nell’ambito della famiglia, vocabolo generatore e dominante! La sua famiglia: struggente, viscerale si fa il senso della loro assenza, della loro evaporazione chissà dove, chissà quando, chissà come! La rivedrò ancora è ora la sua unica richiesta e, al contempo, speranzosa volontà. Con disperata mossa si infila nell’hotel, che è li vicino. Anche qui lo stesso senso di fuga, di abbandono, di mancanza del “tratto” umano: polvere dove una volta la lindezza e il glamour più sofisticato erano sovrani, sovrintendenti con perfetta professionalità al funzionamento, oliato sin nei minimi particolari, di ogni pur minimo particolare: le rose che, fresche, ogni mattina dovevano fare pendant cromatico obbligato col colore della stoviglieria che veniva ogni dì cambiata; il personale che al  nutum del concierge o del maitre di sala accorrevano ed eseguivano. Tutto per la più perfetta ed esclusiva soddisfazione del cliente. Del resto, a 870 € a notte e senza prima colazione ………… !
Meglio la suite imperiale o uno qualsiasi dei pur perfetti appartamenti ai piani intermedi? Si va al primo piano, meglio, perché gli ascensori – come ha capito finalmente – e tutti gli altri strumenti elettrici ed elettronici non funzionano più, salvo quelle stupide voci elettromeccaniche registrate che hanno dichiarato “irraggiungibile” l’intero consorzio umano, vicino e lontano!
 
È stata una notte d’inferno!  Dormire? Neanche parlarne; rumori, ma non quei soliti di una città – e del suo centro soprattutto – quali traffico veicolare, persone che passeggiano, ridono, piangono, parlano, si amano. No: questo occupa il silenzio “umano” che lo travaglia dalla mattina precedente e che non sa (e non vuole, forse) spiegarsi per paura della risposta che piano, piano sta cominciando a formarsi nella sua mente, soprattutto quello dello scienziato, che sta iniziando la sua lotta schizofrenica con l’uomo che ancora alberga in lui. Altri rumori – anzi, rumori “altri” - e diversi, non sconosciuti del tutto ad onor del vero, ma mai sinora sentiti (e neanche mai supposti per l’invero!) nel cuore della città.
 
Anzitutto, gli ululati dei cani: tanti, forti, ossessivi, cattivi. Non l’ululato del cane, compagno dell’Uomo da migliaia di anni, del cane che ulula alla luna, che abbaia per dichiarare la sua territorialità spaziale, che ulula per un richiamo sessuale. No. È un ululare ed un abbaiare mai sentito prima, carico di latenti minacce, come di una specie aliena che accampa diritti sul “tuo” territorio. Ma non sono stati solo gli ululati a rendergli impossibile un pur minimo riposo.
 
Accanto e, talora, con aggressività superiore, ai versi dei cani si sono aggiunti altri versi animali, non sconosciuti del tutto per l’invero, ma mai supposti possibili al centro di una città metropolitana perché ritenuti possibili solo in habitat specifici, tipo savane o foreste pluviali: non certo al 45° parallelo Nord, nel cuore di una metropoli del moderno ed opulento Occidente!
 
Latrati di iene, ruggiti di felini di ignota natura, barriti di elefanti! In città? Tra il traffico? Ma quale traffico! In mezzo agli uomini? Ma quali uomini? E che ci fa questa fauna esotica in Via Garibaldi o in Piazza D’Azeglio?
No, no, un momento: e lo zoo cittadino? La “scomparsa” degli uomini e di chi li accudiva li avrà resi ”liberi” ed ora scorazzano indisturbati tra le vie cittadine in cerca di un territorio ove stanziarsi.
 
Ed io – pacifista ed animalista convinto ante marcia e da tempi non sospetti - come mi ci confronterò? Non ho mai usato un’arma che fosse un’arma. Ho difeso le foche monache e il panda gigante cinese con scritti, apologie scientifiche, dibattiti acri ed accesi. Ora sono il loro invito a cena?”  
 
Dorme. Dorme? Brancola tra incubi e sprazzi di razionale acquietarsi dell’angoscia che sembra, a tratti travolgerlo. Poche ore di un sonno confuso e poco riposante e poi di nuovo in via.
Un’arma, occorre un’arma. Sa di un negozio di armeria lì vicino; vi ci si reca. Stesso squallore silenzioso, stessa coltre di polvere, anche se regna uno strano ordine tra gli scaffali: sembra che non ci sia passato nessuno, anche se il registratore si cassa ha emesso uno scontrino per 607,45 € servito all’acquisto di una rivoltella Beretta, da come dichiara il tagliando bianco, che sembra sputato dall’apposita feritoia, in attesa di una mano che lo stacchi e lo consegni al cliente.
 
Pistole, fucili, rivoltelle: ogni apparato armigero è a sua disposizione. Solo, non sa cosa scegliere, non avendo mai neanche toccato uno di quei strumenti di morte. Un pensiero ridicolo gli frulla in un angolo remoto della testa.
E se facessi come tanti eroi dei film, che – superpalestrati – in un deposito d’armi arraffano di tutto, dalle mitragliatrici agli obici di Desert Storm, alle granate multi esplosive, sino ad un cannoncino a 50 bocche? E se mi dipingessi anche il viso, come un commando pronto ad entrare in azione?
 
Pensiero stupido, lo sa bene. A stento tocca una rivoltella, poi accarezza – con un brivido addosso – un fucile di cui ignora persino l’utilizzo, per poi decidersi per un piccolo mitra, forse un UZI israeliano, che ha visto usare in molte pellicole e che ha sempre apprezzato (si fa per dire!) per la sua apparente maneggevolezza ed apparente facilità d’uso. Ma, le sue munizioni? Quali e quante saranno quelle giuste? Lo scienziato che alberga sempre in lui lo induce  a leggere con attenzione – tanto di tempo ne ha a iosa! – ogni etichetta, indicazione, istruzione presenti sull’arma per poi rivolgersi allo scaffale delle munizioni per cercare l’accoppiata corretta tra arma e munizioni. Scardina con uno sgabello il vetro ed inizia la sua anamnesi tecnico/militare tra le numerosissime scatole ivi presenti. Alla fine, una certa “coincidenza” di grammatura e di calibro lo spinge verso una particolare congerie di scatole; ne prende alcune (basteranno?) e le infila in uno zaino paramilitare che giace a terra, lì vicino. Qualche arma “bianca” potrebbe essere giovevole? Ma sì, prendiamo anche quella: un coltellaccio di molti decimetri, con una lama affilatissima ed una cremagliera dentata sull’altro versante lo attira e se ne impossessa.
 
Poi, si va.
 
Già, ma dove? Verso  cosa? Verso chi? Verso l’università, sì verso l’università che, peraltro, non è molto lontana da dove si trova adesso.
 
 Lo sgomento angoscioso e l’annichilimento della giornata precedente stanno, piano piano, lasciando il passo ad uno stupito e rassegnato, ancorché dolente in modo subliminale, stato di intorpidimento, meccanicistico nel suo profondergli le energie sufficienti a procedere, passo dopo passo. Uccelli di cui ignorava persino l’esistenza e il nome passano a stormi nel cielo, in alto, in un azzurrino pulito, sì pulito, come non ricorda da bambino. Rumori animali o, meglio, animaleschi sono gli unici suoni da cui è circondato; occhio vigile, orecchio intento: gli sembra che i suoi sensi si siano acuiti con una soglia di sensibilità naturale, superiore all’abitudinario ottundimento in cui siamo immersi, profusi e pervasi dal rumore “meccanico” della moderna tecnologica società.
 Ecco, naturale. È l’aggettivo che gli frulla in un angolo della mente da quando è uscito dalla Grotta (un mese? un anno? un eone? prima) perché la sua cultura raziocinante e metodologica, abituata a cogliere l’universale dal particolare, e da molti decenni vincolata alla deduzione cartesiana e galileiana, gli ha permesso di cogliere subito la “differenza” più icastica tra il mondo in cui  è piombato dopo l’esodo dalla Grotta e quello precedente al suo ingresso nella bolla. L’assenza, alienante ed angosciante, dell’umano sembra aver rimesso in circolo energie biologiche, essenze vitali, forme pur presenti nel vastissimo caleidoscopio della “vita” ma sinora periferiche, marginali ed emarginate dal predominio del genere Homo Sapiens (due volte) e dalla sua tecnologia antropocentrica. 
 
Ora la vita, anche nelle sue forme più semplici e meno valutate, sembra essersi presa la,  o almeno una, rivincita: scomparso (già, ma come e perché?) l’Uomo ecco che le forme viventi “altre” si sono fatte avanti, reclamando quel ruolo, quel posto che l’antropocentrismo tecnologico e culturale aveva loro tolto negli ultimi diecimila anni.
 
Pensa e cammina, pensa e rimugina: un cervello, il suo, abituato alla riflessione metodologica per i numerosi anni passati a fare ricerca, sperimentare, supporre, vagliare, analizzare, dedurre.
Ho capito – si auto/comunica, guardandosi intorno con cautela, pur camminando tra palazzi e negozi a lui noti da decenni – che per qualche causa ancora da scoprire di uomini in giro non ce ne sono, o almeno non qui, nella mia città. Ma a questo penserò, se possibile, dopo. Ma mi fa maggiore meraviglia e stupore la totale ‘assenza’ anche dei loro eventuali cadaveri. Dove sono finiti, vivi o morti che siano? Voglio andare all’Università, perché lì – o in qualche redazione giornalistica – posso almeno sperare di trovare una pur  minima risposta a questo cataclisma cosmico che sembra aver investito la Terra!
 
Anche l’Ateneo, cui giunge dopo aver respinto brandendo il coltello una coppia di cani ringhiosi e minacciosi, presenta lo stesso aspetto di abbandono frettoloso, di assalto agli scaffali, di rovesciamento a terra di ogni possibile documento; anche i laboratori sono un disastro, con un profluvio di provette, strumentazioni, computer a terra, rotti, infranti e coperti di feci di ogni dimensione e colore.
 
Entra nel suo studio, che versa in condizioni non dissimili dal resto dell’edificio e dei suoi vari padiglioni. Documentazioni scientifiche sparse in terra, con segni di artigli, zanne, denti e mandibole dappertutto. Il suo diario, gelosamente conservato nel cassetto, strappato e dilacerato al pari del resto dei suoi libri e delle sue carte.
 
Fugge via, disperato: anni e anni di ricerca gettati al vento, mangiucchiati da qualche ignaro - ed  ignoto -  animale selvatico o inselvatichito. Anche l’ultimo studio, cui attendeva da mesi e che lo aveva spinto ad accettare l’esperimento bio/geologico della Grotta, anche quello era stato “oggetto” di un pasto frettoloso da parte di qualche roditore o di chi sa chi altro! Solo poche pagine erano sopravvissuta alla furia, quasi iconoclasta, dell’animale che aveva sì divorato qua e là, ma con “scientifica” precisione, tant’è che era stato in grado di rendere incomprensibile il contenuto del documento. Solo il CD-rom su cui era stata riversata la massa dei dati della ricerca era sano ed intonso: ma su quale supporto lo andrei a leggere, visto che ogni elemento elettromeccanico è inservibile, per assenza di energia.
L’energia! Ecco il primo dei problemi. Come era scomparsa? Chi l’aveva succhiata o trasferita altrove, svuotando il “sistema” circolatorio della civiltà umana, ossia la produzione e la trasmissione dell’energia elettrica? Anche i grandi computer della sezione informatica erano riversi a terra, spesso spaccati, come se un gigante avesse su di loro rivolto la sua rabbia repressa.
 
“Ora capisco cosa dovettero provare gli studiosi, i filosofi, i sacerdoti della Biblioteca di Alessandria nel 391 d.C., dopo l’incendio dettato da Teodosio! Che ‘spreco’ di risorse culturali, incommensurabili ed irripetibili, svanite per furia ideologica, integralistica e fideistica. Ma qui sono state forze naturali, animali in primis, a ricreare lo stesso senso di inane sciagura, contro cui nulla è possibile!
 
     Non ha trovato la risposta la cui ricerca lo aveva condotto all’Università: è solo, non sa, non capisce, non può prevedere o organizzare nulla. Quella facultas che lo ha sempre retto e guidato, ossia sforzarsi sempre e comunque di vedere “oltre la collina” cercando di anticipare le mosse della vita e del destino, ora sembra essersi spenta o rivolta altrove. Ed allora vuol dire che è davvero solo, solo con se stesso, un se stesso minore, periferico. Forse, alla redazione del giornale ai trova qualcosa. Si aggrappa a questa residuale speranza e si incammina verso l’edificio del quotidiano locale, anche esso non molto lontano dall’Università. Un bar sulla strada gli offre uno spuntino, sotto le spoglie di alcuni croissant ancora incartati e, pertanto, intatti: la scadenza parla di un certo 12 novembre (ma è  “avanti”o “dietro”? E rispetto a quando?): quel “digiuno che poté più del dolor” lo stringe, perciò li ingolla voglioso ed affamato. Mai colazione in un lussuosissimo bar centrale, tra after/hour ed aperitivi lunghi, gli era parsa così voluttuosa. Una busta di latte ancora intonsa, rende meno avara questa colazione d’accatto: il sapore è un po’ acidulo ed egli, per esorcismo gastrico, evita di leggere la scadenza della confezione: del resto o questa minestra …..  o la finestra dell’edificio di fronte, su, al settimo piano!
 
Il “Gazzettino” lo accoglie con il solito, previsto, spettacolo di distruzione, scompiglio, sporcizia, ammasso inerte di mobili, scrivanie, fogli e risme intere di carte: telefoni, computer, stampanti, monitor costituiscono una “artistica” composizione d’arte informale, messi - così some sono - alla rinfusa. Non ci fa più caso, ormai: cerca nel marasma che lo circonda una possibile chiave d’accesso al “file” misterioso che sembra aver inghiottito la vita umana, la sua vitalità, le sue espressioni, quelle cui l’Uomo da millenni è avvezzo e che gli scorrono addosso quasi inavvertite, ma di cui ne sentiamo subito la dolorosa assenza appena esse vengono a cessare.
 
Una scrivania, stranamente “intatta” ed ancora in ordine, attrae la sua attenzione: la mente si rivolge sempre a qualcosa che sappia di nuovo o di diverso, specie se all’interno di una monoforme normalità. Ironia della sorte: una scrivania ordinata (cosa c’è di più “normale”?) ora è un isola di unicità assoluta ed emergente in un caos uniforme e quasi ordinario di caotico assommarsi di elementi accatastati in modo disordinato e illogico!
 
È la scrivania di un redattore di cronaca, uno dei tanti che fanno il lavoro “sporco” raccogliendo news, gossip, fatti di cronaca per poi o vergare qualche articolo relegabile avanti nella fogliazione del giornale, o permettere alle “penne” di spicco del quotidiano di trarne spunti per elzeviri, articolesse, corsivi ed editoriali degni dei salotti buoni del talk show televisivi!
 
La stampante è, ovviamente, spenta ma è riuscita, al momento del Grande Black Out (ormai ne è fermamente convinto, che qualche colossale, cosmico blackout, anche se ancora ignoto, c’è stato, deve esserci stato!)  a sputare fuori alcune pagine, le ultime che l’anonimo giornalista sia stato in grado di ideare e stampare.
 
Le strappa furiosamente dal vassoio ove la stampante le ha depositate in un ultimo, disperato, atto di vassallaggio all’intelligenza creatrice dell’Uomo. Forse un messaggio, forse un ultimo SOS, forse …………..
      Ne scorre le righe, le legge e le rilegge istupidendosi su quelle parole che come chiodi martellano la sua intelligenza ed il suo cuore. Forse ………
 
 
“Sono ritornato in ufficio, al giornale: del resto dove posso andare? Sono solo, tutti sono scomparsi. Anche quelli morti per le strade sono stati portati via, tutti. È arrivata improvvisa, veloce, totalizzante, la vera Eguagliatrice, come la chiamava quasi con affetto Guido Gozzano: la Morte.
Voglio descrivere, anche se a sommi capi, cosa credo sia successo, almeno per quello che le abbottonatissime Autorità del mondo intero hanno finora fatto sapere ai loro concittadini, circa questa catastrofe davvero universale.
 
Dapprima, alcune avvisaglie in Africa e Sud Est asiatico, ove i batteri presenti nell’apparato  gastrointestinale, da milioni di anni nostri compagni di vita, coadiutori nelle funzioni metaboliche, hanno subito un rapida mutazione genetica, forse per l’inquinamento atmosferico o per l’alimentazione sempre meno legata a cibi naturali e sani, e hanno assunto una virulenza incontrollabile, pandemica, pan-antropica. I malati di questa nuova epidemia, che la vulgata mondiale ha battezzato subito L’ira di Dio, ha colpito con progressione geometrica prima ed esponenziale poi l’umanità: collassi intestinali, occlusioni o scariche diarroiche tremende, emorragie interne irrefrenabili hanno subito condotto l’organismo alla morte, rapida, atroce, improvvisa. Nessun farmaco conosciuto è stato in grado di opporsi all’epidemia e meno che mai di debellarla. Inutili le raccomandazioni e gli inviti dell’OMS: ben presto, anche per colpa del turismo intercontinentale e del commercio globalizzato l’epidemia ha raggiunto l’Europa e l’Occidente: e sono morti tutti. Io stesso sono – per ora (ma fino a quando?) – un po’ immune perché sono sempre stato vegetariano ed assuntore di poco cibo, oltre che seguire un regime di vita molto austero, sano e con numerose ore di esercizio fisico e ginnico. Ma sento già qualche sintomo, come le prime epistassi dal naso e le forti scariche diarroiche; avrò solo inconsciamente ritardato l’arrivo e la pervasività del contagio.
 
Ah, ecco perché sembra che io sia immune: la dieta ultra-light che ho seguito per chissà quanto tempo nella bolla e l’ambiente ultra-settico in cui ho vissuto per chissà quanto tempo……! potrebbero avermi protetto (questo aggettivo verbale gli provocò uno scoppio interno di ironica auto-derisione) –
fu il suo pensiero (l’ultimo…..?), residuale categoria di una razionalità ormai espunta dalla fisicità primordiale in cui si era trovato a “vivere” (vivere     ??????) da quando era uscito dalla bolla. Continua, incredulo ed angosciato a leggere, mentre la bile residua in lui gli sale alla gola.
  •  
Un ultima cosa: non cercate i cadaveri delle vittime, neanche quelli che le Autorità non sono riuscite a bruciare sommariamente, a mo’ di prevenzione anti contagio: ma poi anche loro hanno dovuto smettere in questa operazione di pulizia, che definirei “etnica” se non fosse ridicolo solo pensarlo. Sono morte anche le Autorità e chi doveva ottemperare ai loro diktat politico/sanitari! Non cercateli, allora, quei cadaveri!
Perché? ecco il perché!
 
Sono arrivati!
 
Sì, sono arrivati, sono Loro; quelli che abbiamo cercato – e temuto di trovare – per migliaia di anni: i nostri “vicini” di casa nell’Universo. Poche settimane dopo che l’Ira di Dio ha cominciato a colpire villaggi e città dell’Africa o del Sud Est asiatico, sono comparsi nei nostri cieli, con le loro astronavi, propulse da energie da noi sconosciute: e si sono messi lì, a pochi chilometri di altezza,  sulle nostre teste, beffardi, invincibili, sardonicamente tesi ad aspettare.
Hanno cercato di abbatterli, ma niente: Loro sono ancora lì, freddi, glaciali, indifferenti a quanto di disastroso si sta verificando sulla Terra!
Nessuno li ha visti, nessun Incontro di terzo Tipo si è verificato: sono lì, freddi, glaciali, indifferenti a quanto di disastroso si sta verificando sulla Terra!
I nuovi “Cristoforo Colombo” sono arrivati: e come Cortes e Pizarro domineranno gli indios, alla cui condizione di sub-cultura noi umani siamo ormai ridotti, rispetto ad una civiltà capace di superare gli spazi intergalattici.
Poi, pochi giorni fa, una strana corrispondenza è arrivata dal Costarica, utilizzando quelle residue vie di comunicazione ancora funzionanti, le Onde Corte e le Onde Medie. Il coraggioso e sconosciuto corrispondente, certo Juan Pablo Mezor, ha descritto – praticamente in diretta – cosa stava avvenendo nel suo villaggio, aggiungendo che peraltro la stessa scena era riportata da altre numerose fonti relative ad altre zone del paese. Cosa stava succedendo?
Niente, si direbbe con intercalare giovanile odierno – che essi usano anche di fronte a catastrofi immani. Niente, se non che dalle astronavi, ferme e minacciose nei cieli, si erano staccate altre, più piccole, che scese al suolo, con strumenti di captazione, “raccoglievano” i cadaveri per le strade, nelle case, ovunque fossero caduti nell’attimo della morte.
 
E li hanno presi tutti! Li hanno presi tutti!
 
Tutti!
 
Ma, cosa sta succedendo? Un folata di vento, un odore di ozono sta entrando nella Redazione. Un braccio meccanico sta raccogliendo i poveri resti dei miei colleghi, morti in ufficio. Sta avvicinandosi a me. Farò in tempo ad inviare il comando per stamp…………………………………..”
 
 
 
 
      Incredulo, agghiacciato da quanto appreso, si siede su una sedia: rilegge per l’ennesima volta le pagine, che ora gli sembrano avere il sapore amaro di un’antica profezia, proveniente da chissà quale antico sapere, ermeneutico, dalle leggende degli Hopi, dal Codice Maya di Dresda o dalla stessa cultura cabalistica nella/della Bibbia, sino ai testi veghiani; dall’epopea di Nakidu o di Gilgamesh sino al più “adatto” alla bisogna Libro dei Morti egizio.
 
Allora era tutto scritto, tutto previsto, sin dall’alba dei tempi. Piange, piange per tutti gli uomini, per sé, per i suoi cari, per quelli che non ha conosciuto e che ora vorrebbe averlo fatto, i suoi “fratelli” tutti fratelli, materiale da utilizzare adesso per fini alieni, è il caso di dirlo. Questi “spazzini” galattici hanno voluto compiere un’azione di pulizia spaziale o hanno perseguito un loro fine “alimentare” o altrimenti rivolto?
 
E, quei batteri che ci avevano salvato dalle invasioni spaziali – anche se in una fiction letteraria, radiofonica, cinematografica – ora per una beffarda nemesi vendicativa della Natura, della Sorte o di chi diavolo altro vuoi (come hai detto? Diavolo? E se c’entrasse anche lui?) , hanno invece decretato la nostra fine, completa, universale e globalizzata. Loro, così piccoli, avevano fermato gli invasori alieni ed ora, sempre piccoli, avevano ribaltato quel risultato, come in un secondo tempo di un incontro di calcio, e hanno vinto per la seconda volta, eliminando quelli che una volta avevano salvato!
 
Biologia, mistero senza fine bello!
 
Un momento, ma cosa c’è scritto in basso, sull’ultimo foglio stampato dall’anonimo cronista di un quotidiano di provincia?
Ah, è la data della stampa: si vede che il programma di scrittura aveva in default la funzione di inserire su ogni documento la data della stessa. La legge, incuriosito, perché almeno così può venire a sapere in che giorno siamo o stavamo qualche giorno/settimana/mese/anno/secolo/eone “prima”.
 
Il ghiaccio gli si forma nella schiena, sotto forma di un rivolo gelido che la percorre tutta:
 

venerdì, 21 Dicembre 2012
 
 
 
 
   

 
      
 
[1] KOCH, Howard: Invasione da Marte – liberamente tratto da “La Guerra dei Mondi” di H. G.  WELLS – in “Il secondo libro della Fantascienza – pag. 122 - a cura di Carlo FRUTTERO & Franco LUCENTINI – Einaudi  Editore S.p.A. Torino – 1961 – Quinta Edizione   
   
 
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