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Autore: rosatornavolja    14/10/2015    1 recensioni
Venezia splende come una bellissima, ricca ed anziana signora, ingioiellata e tirata a lucido.
La notte nasconde segreti, protegge i fuggiaschi, i ladri, i malfattori... e gli amanti.
Un racconto breve che parla d'amore, tra i vicoli di una città meravigliosa, ambientato in una Venezia senza tempo, culla di passioni clandestine e di scherzi del destino...
Genere: Romantico, Sentimentale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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Come si muovevano leggeri i miei passi, quella sera. Le luci della sala provenivano tutte dai lampadari colossali che incombevano sulle teste dei ballerini. Questi danzavano e sembravano non voler interrompere nemmeno quando i muscoli dei piedi dolevano. Nello specchio mi vedi, riflessa in una piroetta, senza sapere di essere io. Danzavo sotto le colonne corinzie, sotto le tende di ricchi tessuti, sopra lo sfarzo dei pavimenti, tra le braccia del mio dolce cavaliere.

"Vieni con me", mi disse, fermandosi all'improvviso. Lo seguii interdetta, incuriosita, con la sottana rubizza che frusciava contro la colonna palladiana. Superammo la tavola imbandita delle leccornie più raffinate, senza però avere nemmeno il tempo di prenderne uno una al volo. Guardai velocemente il soffitto barocco sopra alla mia testa acconciatw da cui uscivano dei ricci ribelli. Aprimmo la prima porta davanti a noi, le sue mani morbide sopra la mia. Mi guardai attorno, le pareti di questa stanza si sposavano con il mio abito e con le gemme incastonate sia nei miei monili sia tra i miei capelli. Tra quelle foglie dorate impresse nelle pareti, mi sentivo nel giardino dell'amore, con lui. Sopra di noi, solo la instabile e precaria bellezza di un lampadario enorme, di vetro, carico di fiori. Fiori che si riflettevano nei miei e nei suoi occhi, amanti cortesi in un giardino d'occasione... Un rumore distrasse, la magia si ruppe. Sotto gli occhi vigili della principessa Sissi nel suo ritratto, ce ne andammo, prima che altri piedi violassero la nostra solitaria intimità. E corremmo ancora, dietro di noi gli sguardi severi dei personaggi degli affreschi. Giungemmo, dopo un tripudio di stanze, in un ambiente luminosissimo, la cui luce filtrava dal balcone oltre la porta, nella stanza precedente.

Lui prese le mie mani. Sopra di noi un altro lampadario, più grosso ma meno instabile, sigillava il nostro patto d'amore. Il Giardino Reale portava la sua aria, polmone del palazzo. La copertura ad ombrello che incombeva sulle nostre teste agghindate sembrava incoraggiare il nostro fuggiasco amore. Solo gli occhi guardinghi di un busto di Napoleone ci squadravano rendendo inquietante un attimo così dolce rapito ad una festa, ad un ballo.

Ed ecco di nuovo quel rumore di passi... Una coincidenza? o forse qualcuno ci stava seguendo? Lo presi per mano e sui miei tacchi incerti attraversai altre ed altre sale, immobili nel loro splendido sfarzo. Eccoci dunque: la Biblioteca Marciana. Due mappamondi ci accolsero, sudati, nell'arco di questo sapere. Ci voltammo quasi simultaneamente verso la vista spruzzata di luce serale su Piazza San Marco, con quel palazzo, che sfuggiva all'infinito dai nostri occhi.

Finalmente un po' di tranquillità, pensai. E chiusi la porta mentre la musica e le danze, distanti, non facevano che aumentare la sensazione che cresceva sempre di più nella mia pancia. Ripresi con una mano un lembo del mio vestito, con l'altra risistemai un riccio caduto dall'acconciatura durante la corsa. E poi mi girai, gli ripresi la mano. Finalmente soli, finalmente insieme, dopo tutto quello che avevamo passato, dopo tutte le battaglie che avevamo perso.

Mio padre odiava Marco, e Marco odiava lui. Era stato odio a prima vista, astio a prima stretta di mano. Mai avrebbe accettato che io sposassi un uomo rivoluzionario, anticonformista, arrogante, spocchioso ed indisponente come lui. Ovviamente, non era esattamente come la vedevo io. Per me lui era intraprendente, baldo, forte, coraggioso, certo, anche anticonformista, brillante, intelligente... Ah, come è strana la vita. A volte il passato degli uomini storpia la loro vista, il loro udito... Mi dispiaceva che mio padre non fosse in grado di comprendere quanto prezioso fosse quel giovane. Per lui ero solo una ragazzina sentimentale e piagnucolona, capace di farsi raggirare da ogni sorta di persone, tanto ero imbranata. Ma non era così. Io ponevo molta fiducia nei sentimenti, certo, ma dentro di me una passione mi bruciava, mi totalizzava. Quando qualcosa mi piaceva o mi appassionava, per gli altri era finita, non c'era più storia. Mi trasformavo in una tigre. Ed era esattamente ciò in cui mi ero appena trasformata. Con quell'abito rosso, con gli occhi brillanti per la notte passata in bianco a ricevere e mandare messaggi dal balcone, con i ricci che cascavano qua e là per colpa della corsa, e con quelle mani passionali che avrebbero creato un intero universo, solo avessero potuto esprimere quanto ero felice con Marco, lì, sola. Tra tutto quel sapere, ci muovevamo senza indugi: c'erano scritti di ogni genere, dalla filosofia alla fisica. Passavamo scaffale dopo scaffale, mano nella mano, sempre più vicini, tanto che chiunque dall'esterno avrebbe potuto prenderci per una persona sola. Tuttavia, le nostre labbra esistevano ad incontrarsi, per colpa di quella sorta di tensione che aleggiava attorno a noi. C'era qualcosa che non quadra, ed entrambi, inconsciamente, lo percepiva amo. I passi si fecero molto vicini, di nuovo. Erano cadenzati, ritmati, di sicuro non quelli di una donna. No, non era una coincidenza. Ne ero quasi certa. Gli presi la mano, ricominciando a correre. Ma poi mi fermai dietro ad una statua, che rappresentava una donna bellissima (nell'intento di coprirsi le nudità con un panno, come se qualcuno l'avesse sorpresa mentre si lavava) e Marco mi seguì, stringendomi, anche lui accaldato. Il nostro inseguitore (ormai ne ero più che sicura) si guardò attorno velocemente, come per assicurarsi che nessuno fosse dentro quella stanza, ma troppo velocemente per riuscire a vederci. Così se ne andò, ma io riuscii, con un'occhiata, a delinearlo. Biondo, occhi molto chiari, quasi vitrei, alto e con delle spalle enormi. Sembrava uno avvezzo alla lotta, ed aveva un'espressione crucciata, quasi imbestialita, di quelle persone che potrebbero assaltarti per puro divertimento. Non appena il nostro inseguitore fu visibile, sentii Marco sussultare, come qualcuno che riconosce qualcosa di poco gradito. 

"Sebastiano", sussurrò a denti stretti, quasi come un gatto quando rugna.

"Lo conosci?", domandai sorpresa.

"Quel bastardo... È uno degli amichetti di tuo padre. Ha pestato mio cugino, facendogli un occhio nero."

Dal tono in cui mi raccontò il fatto, compresi che quel pestaggio era avvenuto per mano di mio padre. Se solo pensavo al potere che esercitava al di fuori delle mura domestiche e alla cattiveria che riusciva a tirar fuori pur di mantenere il controllo, rabbrividivo. Non riuscivo a realizzare quel lato di mio padre, per me era il solito mercante bonario e amante della cultura. Come di fatto con me era sempre stato, fin dalla mia nascita.

Uscimmo dal nostro nascondiglio, inquietati. Anche qui, mio padre mi aveva fatta seguire. Per mesi avevo programmato questo momento... Il ballo al Palazzo mi era sembrata l'occasione perfetta. Mio padre li odiava e nonnci sarebbe venuto, con la scusa di alcuni affari importanti da sbrigare. Mio zio avrebbe accompagnato me e mia madre, la quale probabilmente sedeva in quel momento, con aria altezzosa, su una delle magnifiche poltrone dallo schienale dorato.

Secondo i piani che avevo escogitato, e come era di fatto andata, Marco sarebbe arrivato al ballo più tardi, ci saremmo avvicinati soltanto quando fossero già iniziate le danze. A quel punto ci saremmo allomtanati di soppiatto, per poter trascorrere per la prima volta qualche istante da soli.

Così doveva essere il piano e fino ad allora aveva funzionato. Ma mio padee era stato più furbo di noi, dovevo prorpio ammetterlo.

"Cosa facciamo, Marco?"

Mi carezzò una guancia.

"Se il Destino avesse deciso fin dall'inizio un futuro felice per me e te, ora tutto sarebbe più semplice. Non rischierei la vita sfiorandoti, come sto facendo ora. Ma purtroppo il Cielo ha altre idee per noi. Possiamo rassegnarci e vivere al sicuro, senza più problemi, ognuno a casa propria, oppure contrastarlo, fuggire e vivere in bilico, per sempre, ma felici."

Comoresi che mi stava mettendo di fronte ad una scelta; stava a me decidere la fine di quella storia. Oppure l'inizio di un'altra. Sentii di non avere alcun dubbio: nemmeno la più bella e più potente città in cui avessi mai vissuto fino a quel giorno mi sarebbe sembrata più accogliente e sicura, senza Marco. E non riuscivo a pensare ad un futuro, senza di lui. Di getto, come sempre, gli buttai addosso la mia decisione. Sembrava quasi non pensassi mai prima di decideee... In realtà ero solo svelta nel pensare.

Mai prima di allora avevo rimpianto qualcosa.

"Andiamocene da qui."

Mi guardò, un po' incerto. Non riusciva a capire le mie intenzioni.

"Per sempre", raggiunsi, ed i suoi nervi parvero sciogliersi tutti assieme, sollevati, quasi come tante corde in tensione in cui i nodi vengono tagliati con una spada. Tutta la mia vita mi passò davanti, la mia infanzia mi strappò qualche ricordo nostalgico, ma io lo ignorai. Era ora di cambiare, subito.

Attraversando sale e sale, sfarzose, esagerate... probabilmente, se ci avessero scoperto lì, avremmo passato dei guai grossi, perciò cerchiamo di sbrigarci ad uscire da quel labirinto di letti e sculture, lampadari ed affreschi. L'aria notturna ci colse alla sprovvista; i soprabiti erano nel palazzo, chissà dove. Accelerando il passo, un po' per l'eccitazione, un po' per il freddo, tagliammo in obliquo Piazza San Marco. Chiunque si fosse affacciato ad una qualsiasi delle finestre del palazzo che davano sulla Basilica avrebbe visto noi due, amanti nella notte, con le braccia nude ricoperte di brividi, con un fuoco negli occhi e tanti progetti tra le labbra, fuggire dietro la Basilica.

Infiniti sembravano i vicoletti disordinati della bella Venezia e alla luce della luna e delle tremolanti lanterne apparivano spietati e pericolosi. Nonostante tutto, con lui mi sentivo al sicuro. L'odore di umidità dei canali alla sera mi costringeva a chiudere gli occhi per il ribrezzo. Incredibile come, una volta calata la notte, tutta la signorilità dei palazzi e delle arcate, delle decorazioni e dei portici evaporasse, come le effimere pareti di un sogno. 

Dovevamo arrivare a casa di Marco, dove lui avrebbe preso tutto ciò che di prezioso aveva e mi avrebbe dato qualcosa di più comodo per viaggiare. Un abito di sua madre, ormai defunta, sarebbe stato di sicuro più utile del frusciante ed elaborato vestito di seta che avevo scelto per quella sera. Non avevo nemmeno immaginato quanto la mia vita sarebbe cambiata, dopo quella notte. Pochi metri mancavano, quando udii una corsa, in lontananza. All'inizio non vi avevo prestato molta attenzione, ma poi fui costretta a ricredermi. Altri non poteva essere che il nostro inseguitore.

"Zitta!", mi sussurrò Marco, e mi infilo sotto un portale scuro e buio. Trattenendo il respiro, l'uno schiacciato contro l'altra in un nascondiglio così precario. Pregai di passare inosservata, ma il Destino, che non era dalla nostra parte, trovò il modo di farcela pagare per esserci opposti al suo disegno. Un alito di vento mi scostò le sottane, in un fruscio che solo la sera prima avevo trovato dolcissimo, e che ora suonava come un canto di morte. Sebastiano fu attirato dal rumore e si voltò. I miei ed i suoi occhi si incontrarono nell'oscurità ed io avvertito una paura ghiacciata pugnalare mi il basso ventre. Con fare minaccioso e con il volto impassibile si diresse verso di noi. Era ufficiale: ci seguiva. Marco fu più veloce di me.

"Scappa Miriam!"

Mi spinse dietro di sé e mi indicò la direzione da prendere. Verso il Ponte di Rialto, lì dove ci saremmo rincontrati, mi sussurrò. E così mi buttai nel vicolo che odorava di feci e di notte, il volto avvampato e le labbra strette per l'agitazione. Pregai tutti i santi che Marco ne uscisse vivo... Negli occhi di quel Sebastiano non avevo intravisto un minimo di pietà. Persi anche le scarpe, ma non mi fermai. Le perle che avevo al collo sobbalzavano, sulla mia pelle spuntava bianca rugiada fresca di sudore.

Il Ponte di Rialto era senza peso, nel suo candore e nella perfezione della sua architettura. Sembrava rimanere su da solo, quasi come il dorso bianco di una mano divina che permetteva il passaggio sul Canal Grande. Udii il terrificante rumore di passi, di corsa, di lotta. Dopo poco da un angolo sbucò Marco, con un occhio nero, le mani insanguinate. Scendemmo assieme i gradini in una corsa senza limiti di velocità, quasi ci schiantammo contro il palazzo alla fine della Scala. Il canale era leggermente increspato, le gondole si cullano beate in quelle danze infinite, lagunari. E dietro di noi i bagliori delle lanterne illuminavano i capelli biondi e lisci del nostro inseguitore, a cui usciva del sangue dal naso. Marco mi bloccò.

"Dobbiamo attraversare il Canale, è la nostra unica possibilità. È venuto per uccidermi, e ho paura che voglia mettere le mani addosso pure a te."

"Ma cosa faremo, se salta anche lui? Cosa faremo, se l'acqua ci porterà via?"

Prese il mio viso tra le sue mani, mentre Sebastiano incespicare va, cadeva e si rialza va, per cadere poco dopo. Doveva aver preso un grosso pugno nello stomaco da Marco il dolore gli serrava gli occhi.

"Se l'acqua ti prende, rimani a galla, fatti trascinare, poi appena trovi un appiglio ritorna sulla strada. Qualunque cosa succeda ci vediamo alle porte della città."

Feci per obbedire, ma lui mi bloccò di nuovo.

"Comunque vada, io ti amo, e mai amerò nessuna come te. Lascia almeno che rubi un ricordo di te, nel caso in cui qualcosa vada storto."

E mi baciò, le sue labbra e la sua lingua carezzavano le mie labbra e la mia lingua. Rubammo un bacio alla notte, una promessa alla vita. Sigillammo così il nostro patto d'amore, in un primo bacio che non avrei mai, mai dimenticato, nemmeno dopo tutte le vicende della mia vita futura. E così mi buttai nel canale, con gli occhi fissi a quei capelli castani, a quegli spruzzi di barba irriverente, a quegli occhi che mi mangiavano con il loro amore totalizzante. Tutto si confuse, i bordi sensuali della città di Venezia si confusero con quelli misteriosi della notte, ed un'oscurità senza aria mi ingoiò.

Il brusio fastidioso di tutta quella gente mi innervosì, svegliandomi. Aprii gli occhi pesanti e passai le mani sui miei capelli ricci, ribelli, per poi passarle sulle palpebre arrossate dalla notte in bianco. Infilare le mani nelle tasche dei jeans, rendendomi conto di essermi addormentata su una delle sedute nella sala da ballo del palazzo Correr. D'un tratto le immagini di una notte che non avevo nemmeno vissuto mi ha salirono e riempirono i miei occhi. Ricordati ogni scena del sogno, mi alzai in piedi. Chissà che cosa mi aveva portata a segno sognare così profondamente. Stiracchiandomi, indietreggiai per vedere meglio le sale dove qualche secondo prima, con un abito rosso meraviglioso, avevo danzato con Marco...

Marco, mio Dio! Avvertii una fitta. Ma è possibile sentire la mancanza di un sogno?, mi chiesi.

Urtai contro qualcosa di alto e solido. Quasi convinta fosse una colonna, mi voltai in fretta, la schiena dolorante. La prima cosa che vidi furono due liquidi occhi castani, brillanti. Una barbetta di pochi giorni, una testa piena di capelli disordinati, scuri e lucidi.

"Scusami", mi disse, con un italiano aperto e musicale.

"No, scusami tu! Ero distratta", risposi imbarazzata.

"Da dove vieni?", mi chiese sempre con quel suo accento melodioso.

"Da Verona. Tu?"

"Io son di Venezia, ma lavoro a Milano. Sono qui per vedere le bellezze che ho lasciato per andare a studiare a Milano."

Adoravo quella erre liquida e quel saliscendi tipici veneziani, proprio come i ponti che attraversavano i canaletti. 

Ci incamminammo assieme per la sala, parlammo poi per ore.

"Scusami, ma come ti chiami?", mi domandò alla fine, prima di lasciarmi, quasi di fronte all'uscita.

"Miriam", dissi.

Mi lasciò un biglietto da visita.

"Vieni a cercarmi, mi farebbe piacre rivederti."

"Certamente, grazie. Ciao!"

"Ciao, ci sentiamo... O almeno, lo spero!", disse infine, facendo uscire l'ultima parola attraverso un meraviglioso sorriso, per poi allontanarsi.

"Ehi, fermo! Ma come ti chiami?"

Urlò un nome, camminando spedito, ma il frastuono della folla se lo inghiottì.

Terminai la mia visita breve alla città, di cui ero ora follemente innamorata. Il sogno, poi, l'aveva resa più viva, più vera, più vicina alla mia essenza di artista... Camminando silenziosa e beata sul ponte di Rialto, le mie mani che si infilarono in tasca, mentre una Venezia dolce, appisolata, come un mostro marino che quieto si immerge nell'acqua fino all'altezza degli occhi, mi riempiva l'anima di pulsazioni. Toccai il biglietto da visita e lo tirai fuori immediatamente. D'un tratto mi ricordai del misterioso quanto affascinante ragazzo, e morii dalla voglia di sapere il suo nome. Di certo sul biglietto c'era scritto. 

Un po' agitata, lo avvicinai al viso. Quasi sobbalzai quando, accanto a delle immagini di un piano di costruzione di un palazzo, sorpresi il nome "Marco", forte, sicuro, quasi irriverente, vagante nel bianco sfacciato di quel biglietto da visita. 

Come amavo Venezia.
   
 
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