Questa storia è stata scritta per una
sfida del Drabble Week-end con il prompt
Daddy!Gale “Qual è la storia del mio nome, papa?” e
per l’iniziativa Ready, Set, Prompt! con una citazione di Zafón segnata qui sotto come prompt.
La storia partecipa anche alla challenge “Banco di Prompt”
indetta da Eireen_23, con il prompt “Orgoglio”.
Ogni tanto mi guardava brevemente e sorrideva. Io la osservavo di sottecchi
e mi accorgevo che bastava guardarla e diventava meno difficile credere che
forse restava qualcosa di buono e decente in questo schifo di mondo e, con un
po’ di fortuna, anche in me.
— C. R. Zafón.
La storia
del tuo nome
“Papà?”
Joel sollevò lo sguardo dai compiti e indirizzò a Gale
un’occhiata pensierosa. La maestra aveva chiesto a lui e ai suoi compagni di
classe di descriversi in un tema e il bambino, un po’ riluttante, aveva
incominciato a scrivere sotto lo sguardo vigile del padre. Quello era l’unico
modo per convincere il ragazzino a fare i compiti. Non che fosse svogliato,
anzi, il più delle volte era talmente obbediente da sembrare un piccolo adulto
più che un bambino di sette anni. Le cose che diceva e le riflessioni in cui si
perdeva di tanto in tanto, poi, erano talmente complesse e profonde da stranire
Gale e le insegnanti del ragazzino. Era molto intelligente, Joel, forse troppo,
ma con i compiti aveva sempre fatto fatica. Li trovava inutili o troppo
semplici e l’unico modo in cui il padre riusciva a convincerlo a farli era
sedendo accanto a lui e sorvegliandolo.
Gale ricambiò lo sguardo pensoso del bambino, prima di guardare
il quaderno. Il bianco della pagina era stato riempito da un’unica frase,
scritta in una calligrafia minuta e ordinata: mi chiamo Joel.
“Che cosa c’è, Joey?”
Il ragazzino si appoggiò la punta della penna sulle
labbra, prima di aggrottare le sopracciglia.
“Qual è la storia del mio nome?”
Il padre gli rivolse un’occhiata sorpresa.
“Ti chiami Joel perché era il nome di mio padre, pensavo
lo sapessi” gli ricordò.
Il bambino si affrettò ad annuire.
“Sì, questo lo so bene. Però…” si strinse nelle spalle,
tornando a fissare il quaderno con aria assorta. “… Mi hai detto che il tuo
nome significa ‘vento forte’ e ‘burrasca’. Quelli degli zii hanno tutti un
significato speciale. E il mio cosa significa?”
Si sistemò in ginocchio sulla sedia; la sua espressione,
adesso, si era fatta incuriosita.
Gale lo osservò per un po’, prima di abbozzare un mezzo
sorriso. Gli piaceva vedere il figlio in atteggiamenti tipici dei ragazzini; in
quei momenti era evidente che fosse ancora piccolo, a differenza di quelli in
cui leggeva in silenzio in camera sua o si perdeva in riflessioni ì complicate.
“Joel è un nome particolare” rispose infine. “Significa
‘colui che ha forza di volontà’, qualcuno che è determinato a far accadere le
cose. Joel è il nome di colui che guida gli altri, che li aiuta a vedere quello
che da soli non riescono o hanno troppa paura di vedere.”
Lo sguardo del ragazzino si fece tutto a un tratto più
luminoso.
“Che genere di cose?”
Il padre si strinse nelle spalle.
“Il valore delle persone, di qualsiasi persona” rispose
poi, sforzandosi di trovare le parole adatte per spiegarsi. “La giustizia, la
libertà.”
Il bambino rimuginò per un po’, rosicchiando il tappo
della sua penna.
“Insomma, era il nome perfetto per nonno Joel” dichiarò
dopo un po’, sorridendo orgoglioso. “Lui voleva che le persone potessero
scegliere che lavoro fare da grandi, vero? E voleva che tutti avessero da
mangiare, non come quando eri piccolo tu e certe persone morivano di fame.”
Il padre annuì.
“Esatto. Tuo nonno era una persona molto forte; si è ribellato fino all’ultimo, perché ci
teneva a fare il possibile per insegnare a me e ai tuoi zii che per essere
liberi non basta aspettare: bisogna fare qualcosa.”
Lo sguardo dell’uomo si rabbuiò , mentre pronunciava
quelle parole. Fin da ragazzo si era sforzato di seguire gli insegnamenti del
padre, ma aveva fallito. Il troppo odio e la sete di ribellione avevano
bruciato con violenza, sfuggendo al suo controllo. L’unica cosa di cui si
sentiva orgoglioso, l’unica cosa davvero bella che aveva contribuito a far
nascere, era seduta di fronte a lui. E lo fissava con fierezza, sorridendo al
ricordo di un nonno che si chiamava come lui, ma che non aveva mai conosciuto.
“Che peccato che il nonno non abbia potuto vedere la fine
della rivolta” commentò a quel punto il bambino, appoggiando una guancia al
pugno chiuso. “Lo sai? Io credo che in qualche modo, però, abbia visto tutto, e
che sia molto orgoglioso di te, perché è anche per quello che hai fatto tu che
io adesso posso andare nei boschi quando voglio e dire che da grande voglio
fare il pilota e non il muratore.”
Lo sguardo vivace del bambino incontrò quello
improvvisamente turbato del padre.
Gale non disse nulla, ma qualcosa dentro di lui sprofondò;
tutto a un tratto si sentì incapace di sostenere l’ammirazione che il figlio
nutriva nei suoi confronti.
“Ho scelto un nome da quattro lettere per te…” proseguì a
quel punto, per cercare di cambiare discorso. “… Perché tuo nonno avrebbe fatto
lo stesso. Il quattro era il suo numero portafortuna e infatti ha avuto proprio
quattro figli. Per questo, assieme a nonna Hazelle ha
scelto per tutti noi nomi da quattro lettere.”
“Gale, Rory, Vick e Posy” snocciolò Joel, sorridendo
sorpreso. “Ehi, è vero! Anche Prim ha quattro
lettere” aggiunse, ripensando al nome della sua cuginetta, la figlia di Rory.
Il padre tornò a irrigidirsi e distolse lo sguardo. Joel,
che se ne accorse, smise di sorridere. Si morse un labbro, sentendosi in colpa:
suo padre non pronunciava mai il nome della nipotina. La sua difficoltà aveva a
che fare con un’altra Prim, una bambina che – Joel lo
sapeva – faceva visita agli incubi del papà diverse notti a settimana,
facendolo agitare nel sonno.
“Ehi, papà…” mormorò a quel punto il ragazzino, scendendo
dalla sedia. Circondò il collo del padre con le braccia e si lasciò prendere in
braccio, affondando il volto nella sua maglietta come faceva quando era più
piccolo. Sentì subito che i muscoli contratti del padre incominciavano a
rilassarsi, mentre la mano dell’uomo gli arruffava con affetto i capelli.
“Papà, secondo te anch’io un giorno sarò forte come nonno
Joel? Forte come dice il mio nome?”
Il padre annuì.
“Lo sei già, Joey” mormorò, appoggiando il mento sulla
testa del figlioletto. Le ombre dentro i suoi occhi c’erano ancora, ma erano
cadute in secondo piano, spinte lontano da una patina di affetto e orgoglio,
prodotte dalla presenza del bambino.
Quando lo guardava così, di sottecchi, diventava meno
difficile credere che forse restava qualcosa di buono e decente in quello
schifo di mondo e, con un po’ di fortuna, anche in lui.
“Lo sei già.”