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Autore: Niagara_R    19/10/2015    1 recensioni
*Halloween tale*
Nella notte di Samhain il portale che divide il mondo degli spiriti da quello dei mortali si apre, la luna sfuma in arancio e la sua forma diventa di zucca. Al cimitero è l'occasione per riunirsi, per rivedere le anime dei cari, degli amici, degli amanti, per gioire e festeggiare una volta all'anno tutti insieme.
Non per Scheletro, però. Lui non ha più amici, più parenti, più nessuno.
Non ha più la sua memoria.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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hallo

Racconto originariamente scritto per il literary-blog SognandoLeggendo in occasione di Halloween 2013.

Lo ripropongo qui perché - beh - perché no?

Spero allieterà quei pochi minuti che vi occorreranno per leggerlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Fino all’alba

 

I lumi, i cerini e le lanterne risplendevano nel bagliore lucido della notte senza nebbia, ondeggiando pigramente e danzando sui rari aliti di vento che si spingevano tra le mura del cimitero.

Il silenzio era assordante, fittizio, bitonale, diviso tra l’ascetica pace della dimensione terrena e la festosa energia risvegliata dall’apertura del passaggio.

La luna alta nel cielo non era piena ma poco ci mancava, ed era arancione. Arancione come il sole al tramonto, arancione come le foglie d’acero in ottobre, arancione come la zucca cui somigliava sempre di più mano a mano che l’ora di mezzo si avvicinava. Il portale si era già socchiuso, i primi spiriti erano scivolati fuori cominciando la baldoria tra i vivi, facendo qualche dispetto e ridendo nella lingua che solo i fauni udivano.

Il cimitero si stava riempiendo di anime, di bolle, di aloni colorati, soffi, mormorii, voci, gli amanti si rincontravano, gli amici si rallegravano, i parenti si salutavano, i genitori si riunivano ai figli, mentre al di fuori, lontano dai cancelli, bambini correvano da una casa all’altra a chiedere dolcetti travestiti da Carnevale, senza sapere che di loro i fantasmi avevano ancora paura.

Scheletro avanzava tra le tombe senza meta, lambendo i crisantemi, le rose, i garofani, i fiori di stoffa e plastica che già in molti erano venuti a depositare al capezzale dei propri cari.

Si aggirava per i sentieri di ghiaino bianco, passava attraverso fuochi fluttuanti, aggirava combriccole di spiritelli che ciarlavano, passeggiava sotto le arcate in stile romanico ammirando le lapidi di marmo, alabastro e ossidiana rifulgere al baluginare innaturale dei defunti che rientravano nella realtà parallela di cui avevano fatto parte come materia organica.

Una volta ogni anno il portale si apriva e le anime scendevano, i due universi diventavano il medesimo, permettendo agli dèi di avere un attimo di respiro, ai morti di rivedere il passato e il futuro, agli umani di bearsi delle strane sensazioni che il contatto inconsapevole coi diavoli e le ombre dava loro.

Era una notte di festa, di ricordi, di bellezza, di emozioni forti, così bizzarramente forti che sembrava dovessero riportare in vita chiunque.

Scheletro aveva un nome. Però non ricordava quale.

Era passato così tanto tempo dall’ultima occasione in cui l’aveva rammentato. Non era normale che i trapassati si dimenticassero come si chiamassero, ma Scheletro sapeva che era possibile, perché non era l’unico del camposanto. Erano in quattro, quattro su duemiladuecento. Una percentuale bassa, ma non era pur sempre l’unico.

Per lui la notte di Halloween non aveva lo stesso significato che aveva per gli altri. Per lui non aveva proprio nessun significato.

Non sapeva chi fosse stato prima di venire seppellito. Non sapeva chi avesse pagato per il modesto ma dignitoso spazio interrato nell’ala interna. Non sapeva da quanto fosse lì. Non sapeva quanti anni avesse quando era spirato. Non sapeva se avesse una famiglia che lo pensasse, non sapeva da dove venisse, non sapeva nulla.

Con la morte era ricominciato tutto. La croce che gli faceva da stele commemorativa era vecchia, consumata, l’iscrizione si era erosa e nessuna foto vi era incastonata. Eppure non sembrava così vetusta. I fiori che venivano posati sul suo tumulo erano di persone buone che gli regalavano un mazzolino di tanto in tanto, e talora - pressappoco due, tre volte l’anno - vi aveva trovato mazzi di gerbere vermiglie con tanto di sottovaso e acqua a nutrirle, ma non aveva mai visto chi si fosse dato tanta pena. Chi poi si occupava di quei doni erano i custodi, non un uomo o una donna si erano mai fatti avanti per mantenere floridi quei regali, quindi era incerto su cosa credere.

Forse si trattava di gentilezze casuali e disinteressate, o forse c’era qualcuno che nutriva un qualche legame con Scheletro, ma la sfortuna aveva voluto che fosse sempre o inerte o lontano dalla sua dimora materiale per svelare l’arcano.

A ogni modo, non aveva molta importanza.

Intravide qualche folletto bardato di verde e oro e un Garmr aggirarsi mansueto tra i cespugli di bossi, annusando saltuariamente l’aria per essere certo che la situazione fosse tranquilla. Scheletro gli andò appresso, sperando quasi che gli azzannasse un femore e lo sgranocchiasse a mo’ di pannocchia. Distese un braccio per carezzarlo, e il cane infernale lo fiutò senza muovere le pupille scarlatte come sangue.

Dopo pochi secondi questi sbuffò e riprese a trotterellare lungo i filari di cipressi potati, ignorandolo. Era successo anche il precedente Halloween. Il regno degli spiriti non reclamava la sua alma.

Continuò a ciondolare percorrendo i passaggi elegantemente curati dal custode anziano, chiedendosi cosa avesse di sbagliato.

Aveva perso il conto del tempo che era trascorso da quando era spirato, ma a giudicare dai fattori a sua disposizione doveva essere parecchio. Le sue ossa erano bianche, in numero di duecentosei, tre costole presentavano lievi incrinature e una rivelava una frattura perfettamente calcificata, e una leggera crepa sul cranio che però poteva essersi causata dopo la sepoltura. Era morto a tutti gli effetti, tuttavia la sua anima continuava a rimanere aggrappata alle spoglie mortali con una tenacia che non si spiegava.

Era colpa sua? Di qualcosa che aveva fatto in vita? Era la sua essenza astratta a essere allacciata a quel concentrato di calcio deambulante o erano gli dèi a non permettergli di ascendere - o di discendere? Dove stava il problema?

Non gliel’aveva spiegato nessuno, nessuno era mai giunto a pretenderlo né a porgli un chiarimento. O forse era accaduto prima di decedere e la memoria si era cancellata, scioltasi prima del cervello?

Chissà. Stava di fatto che pareva che dall’altra parte nessuno lo stesse aspettando con particolare frenesia, indi per cui tanto valeva che non si angustiasse troppo.

La luna aveva assunto un colorito acceso e sfavillante, segno che le porte si erano spalancate. Fino all’alba demoni, mostri, entità e creature di ogni sorta avrebbero potuto scorrazzare sulla terra al fianco dei respiranti, i quali ormai non avevano più idea di come fare ad accorgersene. Soltanto gli animali vi avrebbero badato: i gatti avrebbero fatto le fusa alla categoria dei praticanti di magia, i rapaci avrebbero volato rasoterra nel tentativo di ghermire gli sciocchi folletti, i topi sarebbero usciti dalle loro tane a compiacersi dello spettacolo.

Scheletro era annoiato, e triste pur non volendolo ammettere. Quella non era la sua festa.

Raggiunse l’ala più vecchia del cimitero e tagliò per l’area delle cappelle che l’avrebbe condotto rapidamente al proprio sepolcro dove avrebbe dormito il sonno dei raminghi nel limbo.

Dall’interno delle cappelle provenivano rumori, chiacchiere, risatine, feste private per chi voleva rimembrare in intimità, per chi si voleva nascondere, per chi voleva trovare una nicchia personale che gli permettesse di rimpiangere e commuoversi lontano da sguardi estranei.

Scheletro avanzò senza fretta, godendosi le percezioni leggermente acuite che la ricorrenza di Samhain regalava. Il fresco dell’aria, il profumo di terriccio umida e foglie bagnate, legno che bruciava e castagne arrostite, il lieve pizzicore della ghiaia appuntita sotto i calcagni induriti.

Lasciò scorrere il palmo sulla superficie di una tomba matrimoniale in granito rosa, i cui cristalli irregolari brillavano sotto i riverberi delle candele e delle fiaccole elettriche. Era liscia, levigata, lo sfregarvi le ossa produceva un suono raschiante, un poco sgradevole, fischiante, che avrebbe fatto venire la pelle d’oca a chi aveva la pelle.

Quando Scheletro si ritrovò sull’aiuola trapezoidale che ospitava alcuni tumuli recenti disposti lontano, sulla sinistra, notò uno spettro.

Una presenza lattescente sospesa a un metro e passa d’altezza, avvolta in lunghe spire di nuvola azzurrata che vibravano, tremavano, strisciavano e si adagiavano con morbidezza. Era raro che uno di loro si aggirasse nei cimiteri piuttosto che preferire il vagare in luoghi dove erano avvenuti fatti importanti.

I normali fantasmi non possedevano un’aura nebulosa ma erano anime nude, fonti splendenti e spoglie che pulsavano come nove, e indifese, che potevano essere allontanate o momentaneamente spente anche da un banale refolo. Quando invece erano protetti dal cosiddetto lenzuolo significava che erano anime antiche. Ataviche, ancestrali, spiriti apolidi formati da abbastanza energia da gettare le loro catene sia nel mondo dei vivi che in quello dei morti, rimanendo sul confine per motivi che alle comuni entità sovrannaturali non erano dati sapere.

Scheletro si grattò l’osso parietale, dubbioso. Era la prima volta che ne vedeva uno all’interno dei cancelli. Nell’arco di quell’anno avevano seppellito qualcuno di rilevante per giustificare il cospetto di una simile celebrità? Stava seguendo qualcuno venuto in visita ad altri? O semplicemente aveva deciso di recarsi in uno dei tanti luoghi di riposo eterno dove l’energia era così poca che non invogliava nemmeno i ragazzini a entrarvi di notte come prova di coraggio?

Scheletro era incuriosito da quell’insolita distrazione, ma era sua abitudine essere discreto e non ficcare il suo virtuale naso in faccende altrui, né tantomeno disturbare chi cercava un briciolo di serenità. Quindi riprese a camminare sereno, avvicinandosi e pronto ad avvertire l’aura fredda che emanava il lenzuolo per poi passarvi oltre. Ma avvenne qualcosa di strano.

Un lembo si allungò e gli sfiorò l’ulna, facendolo rabbrividire fino ai denti - tutti e trentadue. Spettro gli parlò.

Disse qualcosa che Scheletro non riuscì a capire. Era sempre stato certo che qualunque essere ultraterreno adoperasse lo stesso linguaggio, ma a quanto pareva non era così.

Si voltò, incontrando il bagliore velato che sembrava lo stesse osservando. Spettro ripeté il fruscio, e Scheletro scosse la testa, allargando le braccia. Spettro non parve sorpreso, anzi, sembrò che se lo fosse aspettato. Fluttuò di fronte a Scheletro, solleticandogli le costole con fiochi spirali di gelo. Respirò.

Un respiro glaciale che tuttavia sapeva di autunno, di fiori, di neve, di frutta, di mare, di biscotti, di persone. Un respiro che per un attimo fece credere a Scheletro di avere dei ricordi che lottavano per riemergere.

Ma l’impressione scomparì rapida quanto era arrivata, e non seppe se si fosse trattato di una reazione normale o se davvero ci fosse altro.

Scheletro cercò di osservarlo meglio, sforzandosi di vedere sotto il lenzuolo iridescente che galleggiava nell’etere offuscando anche la sua vista interiore, impedendogli di distinguere qualunque cosa. C’era una faccia lì sotto? Erano lineamenti disegnati nel chiarore quelli che intravedeva, o era soltanto il gioco di tenebre notturne? C’erano occhi che potevano guardarlo?

Spettro lo toccò ancora, pizzicandogli le clavicole, restituendogli la sensazione di vaga rimembranza. Una sensazione attutita, distante, scolorita. Una sensazione umana.

Scheletro non immaginava cosa l’altro volesse. Non lo conosceva - non credeva - non si erano mai incrociati, e non aveva mai avuto nulla a che fare con esseri della sua classe.

Cosa voleva dirgli?

Spettro cominciò a girargli intorno.

Svolazzò con lentezza, dietro di sé lasciava una scia di pulviscolo traslucido che disegnò una sorta di frastagliato cerchio attorno a Scheletro, che nel frattempo valutò seriamente la possibilità di darsela a gambe. Spettro emanava freddo, un freddo spirituale che entrava nel midollo e nell’anima, un freddo che avrebbe potuto ghiacciarlo e rischiare di romperlo come lunghe stalattiti. Era quello lo scopo? Spezzarlo? Frantumarlo?

Scheletro tremò, sentendosi inglobato in quelle due strane sfere che credeva di scorgere al di là del lenzuolo, passaggi che forse trasportavano in un altro reame, o forse soltanto illusioni ottiche.

Forse era così che succedeva.

Forse quel fantasma aveva raggiunto il cimitero per condurre finalmente la sua parte incorporea nel sito che gli spettava. Forse ciò che era in atto non era altro che un rituale.

Scheletro volle convincersene, anche se ciò cui riusciva a pensare era che Spettro lo stesse studiando. Con interesse. Con un inspiegabile interesse.

Scheletro si trovò in imbarazzo.

Spettro emise l’ennesimo verso - parole? Un’esclamazione? - e tornò a piazzarglisi davanti, fissandolo con quella che somigliava ad attenzione. Nonostante si fosse fermato, intorno a Scheletro il gelo continuava a levarsi insieme alla cortina fumosa che gli si arricciava intorno all’astragalo per poi risalire, infilandosi dello spazio tra tibia e perone, e ancora più su in una scalata lenta che gli ricordò orribilmente l’essere sommerso dall’acqua. Ma non solo quello.

Ricordò. Senza precisione.

Un tuffo nell’ignoto, l’avvertire il tempo scorrere all’indietro e cadere, scivolare come sabbia che si infilava nelle fessure del metacarpo e gli sfuggiva impedendogli di focalizzare. Pian piano qualcosa prese forma, ma erano linee sfocate, rumori remoti, sfumature sgargianti che non credeva di aver mai visto. La consapevolezza di aver vissuto, di aver parlato, di aver fatto, ma senza definire come, cosa, chi.

Un sussurro gli si infilò nel meato esterno e Scheletro si rese conto che quel suono gli era familiare. Scrutò il lenzuolo di foschia tentando di identificarvi un volto, ma nulla, la risacca del passato andava e veniva rimescolando e portando via.

Spinto da un’emozione atavica cui non diede nome, allungò l’avambraccio. Le dita scarne si brandirono nel vuoto polare, il vapore lo artigliò innocuo, e poco dopo una falda di Spettro gli circondò il polso. Imitò una stretta affettuosa.

Scheletro non poté distinguere consistenza, ma la corposità intrinseca che gli venne trasmessa lo  fece sentire come se gli stesse battendo il cuore che non aveva più. Quella stretta, quella vicinanza, quell’energia, Spettro comunicava con la sua parte assopita e lei lo riconosceva.

Quella consapevolezza causò a Scheletro una dolce vertigine di trasporto. Parlò scadendo le sillabe nell’idioma dell’aldilà, ma l’altro non diede segno di averlo compreso. Non diede segno di averci neanche provato.

Spettro avanzò di un anelito, finché Scheletro non ravvisò il solletico che gli causava la nebbia cristallizzata all’interno delle cavità oculari. Altre gocce di coscienza piovvero ed evaporarono, lo mandarono in confusione, sfocati flash gli invadevano la mente ma fuggivano, pareva ridessero di lui e della sua incapacità di catturarli.

Il lenzuolo lo avvolse come una coperta dalla funzione contraria, e quel palloncino opalino che era Spettro sembrava esortarlo. Esortarlo a cosa?

Altre schegge di ricordi, altre sensazioni filamentose, e pian piano un richiamo che partiva dall’interno del suo spirito che si unì a quello di Spettro.

Fidati, fidati e basta.

Tentennò un istante.

Poi permise a Spettro di penetrargli l’anima. E fu fortissimo.

Avvertì. Percepì. Captò. Presagì. Intese. Riconobbe.

Riconobbe un viso, magro, pallido, piacevole. Riconobbe una voce, tumultuosa, musicale, virile. Riconobbe un’affinità tangibile che andò a colmare i suoi vuoti e a ricomporre i suoi pezzi, una complicità irridente e sfacciata, infantile e pantagruelica, tragica e passionale, potente, potente quanto l’occhio destro di Balor o il respiro di Mog Ruith, travalicante, vorticoso, frastornante, e bello.

Talmente bello da spazzare via la morte e costringere la vita a isbocciare in ogni singola particella di sostanza mortale o immortale vicino a loro, e in quell’attimo Scheletro rammentò il passato, l’esistenza, il nome, i nomi, il sole, l’ossigeno, il sangue, il sudore, il cemento, il sesso, la rabbia, l’amore.

Aprì gli occhi. Guardò come se li avesse ancora. Fissò le fattezze di Spettro, quelle di allora, e il frastuono assordante che udì proveniva da sé, da dentro, dalla cosmogonia di emozioni che non erano mai state inventate e che ribollivano e crescevano uroboriche, scatenando un battito impossibile e formando lacrime d’azoto.

Sei tu... Desiderò dirlo, desiderò parlare e gridare, fare, agire, desiderò picchiarlo e fargli male e amarlo fino a consumarsi come lingue del glorioso fuoco di Belenos. Sei vivo. Vivo era un vocabolo inesatto, ma lo ignorarono entrambi. Sei qui. C’era davvero.

C’era davvero.

Come aveva promesso.

Sono qui. confermò sfoderando quel sorriso che in vita gli aveva mozzato il fiato, e che ora era in grado di restituirglielo. Ci sono sempre stato.

Scheletro dapprima non capì, ma poco a poco le spire che scivolavano lungo la sua coscienza gli illustrarono. Gli trasmisero. Gli profusero conoscenze ataviche, trascendentali, equoree, quelle che non era mai stato capace di comprendere. Ora le comprese.

E ciò che provava per Spettro si acuì ancora di più, si dilatò e sia approssimò pericolosamente al confine tra le dimensioni.

Spettro sollevò un orlo - una mano - e ripeté il gesto che per anni aveva dissolto le distanze tra loro, carezzandogli gli zigomi con l’espressione di miele che non si curava dello scorrere delle ere.

Scheletro distinse il calore. L’impronta del calore impressa nel tessuto osseo, il suo profumo, la sua intensità. Avrebbe voluto coprire quella mano con la propria, ma sapeva che non era  il caso di farlo adesso.

Finirà? domandò Scheletro, ingenuamente e seriamente.

Deve ancora cominciare. garantì Spettro, inalterato nella sua intraprendenza, irresistibile per la sua irrefrenabilità. Tornerò.

Scheletro non aveva bisogno di quella rassicurazione, ma lo sfarfallio di felicità lo colse impreparato, consolidando la completezza che lo faceva vacillare tanto era abbacinante, tanto era meravigliosamente inalterata.

Ti amo. L’ultima frase pronunciata prima di spegnersi. Struggente come sempre.

Spettro lo cinse in un abbraccio incorporeo che rafforzò ognuna delle sensazioni che li congiungevano nell’indissolubile, Scheletro si trovò in pace. La pace che non sapeva di aver perduto, la pace che non sapeva di aver cercato, la pace che derivava da due che divenivano un intero.

Abbi un po’ di pazienza. mormorò. Sto venendo a prenderti.

Scheletro inalò un improvviso sentore, una fragranza sottile, insospettata, rigogliosa, aroma di gerbere. Lo amò. Sentì di amarlo al di là della luce e del buio, dell’ora e dell’allora, dell’ivi e dell’altrove, sentì di essere ricambiato, sentì che l’equilibrio protettivo ed esclusivo entro cui si erano mossi era perdurato solido e incorruttibile, e gli sembrò la cosa più stupida e meravigliosa che potesse esistere.

Ti amo. sussurrò Spettro, mentre una spera aranciata invadeva loro la vista, annunciando qualcosa che decisero di trascurare. Ancora un po’. Ancora un po’ e non ti lascerò più andare.

Scheletro distinse la condanna, la malinconia, la sofferenza in quel tono ieratico che si affievoliva pian piano. Avrebbe voluto cancellarlo, eradicarlo, convincerlo che non aveva nessuna colpa da espiare, ma sapeva che non sarebbe stato facile, e oramai la notte era terminata.

Scheletro fece per allontanarsi, e Spettro lo baciò, estemporaneo.

Un’eterna fiamma divampò tanto alta che avrebbe potuto accecare e sciogliere chiunque vi fosse nei paraggi, le loro anime si schiusero e si fusero provocando lunghe scintille di stelle che solcarono rapide il cielo, e un silente giuramento fu stretto per l’ennesima volta, e l’assioma che l’avrebbe visto rispettato si rinnovò.

Un ultimo sguardo, un’ultima stretta e si separarono nel silenzio sepolcrale che aveva rimesso i confini tra il mondo dei morti e quello dei mortali.

Scheletro barcollò con un brivido diffuso, alzando la testa per vedere la luna ridotta a una massa chiara e butterata, che recava tracce di rosso soltanto ai bordi che stavano svanendo con l’avvento di un’alba fosca e grigia.

La calma era tornata. Non era pace.

I dimoranti del cimitero stavano tornando ai loro loculi, stanchi e stinti dopo un Halloween di bagordi, pochi facevano caso a lui, pochi ricordavano se e cosa avessero visto. Anche Scheletro stava iniziando a scordare. Dense stille di memoria stavano affondando e inaridendo, portavano via il volto, la voce, le mani, i ricordi, i nomi. Non le emozioni. Quelle le avvertiva, avevano raggiunto il centro per osmosi, e per quanto facesse sempre più fatica ad associarle a un contesto rimanevano, e Scheletro era certo che fossero la verità. Una verità che lentamente dimenticò di aver capito, ma che gli permise di fidarsi. La sua condizione di errante aveva un senso, e pur non conoscendolo gli bastò.

Qualcosa nel suo spirito gli diceva che avrebbe avuto una fine, che prima o poi sarebbe mutato, che quel percorso sarebbe stato spezzato e sarebbe finito su un altro, totalmente diverso, e sospirato. Sapeva di bramarlo, di attenderlo. Sapeva che l’avrebbe reso felice.

Tornò al suo fazzoletto di giardino lontano dall’entrata, pacifico, dimenticando ogni cosa tranne l’essenziale che gli si era depositato nello spazio occupato dal cuore invisibile.

Arrivato di fronte alla propria tomba, sfiorò con le falangi le gerbere che qualcuno aveva portato giusto uno o due giorni prima, sgargianti e bagnate dalla rugiada su cui si infrangeva il difficoltoso riflesso del crepuscolo mattutino.

Odoravano di libertà ed era come se su ogni petalo vi fosse incisa la parola aspettami.

 

 

 

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Grazie per essere arrivati alla fine e per aver letto questo mio scritto. u.u

Un commentino mi rende sempre felice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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