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Autore: TemperaGialla    19/02/2009    8 recensioni
E ora dimmi bambino soldato, quanti morti conti da lassù?
Genere: Triste, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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C’era una volta un bambino che viveva in un posto lontano.

Bambino solo fuori, perché dentro di lui non c’erano i sogni di un vero bambino.

Era già un adulto, quel bambino, perché nel posto lontano nel quale viveva non gli era permesso restare bambino.

Perciò il bambino del posto lontano, a causa di leggi a noi forse un po’ strane, diventò ben presto un bambino soldato, e al posto di un bastone o di un semplice gioco imparò a maneggiare un fucile e ad uccider persone.

Il bambino soldato non viveva con la sua famiglia, come tutti i bambini normali.

Viveva da solo, assieme ad altri bambini soldato, in grandi capannoni di legno, sorvegliati da uomini armati, con grandi fucili e medaglie scintillanti, e il bambino soldato a volte si chiedeva se anche lui, da grande, avrebbe avuto una medaglia brillante come quella da appuntare al petto con orgoglio.

Il bambino soldato viveva con gli altri, ma dentro era solo.

Viveva con altri bambini, tutti pronti con i loro fucili, ma era raro che uno di loro parlasse, perciò il bambino soldato stava sempre zitto e si convinse perfino di non saper parlare. Ma ogni occasione era buona per lucidare il fucile, in caso venisse il nemico, perciò per il bambino soldato, parlare o meno non era importante.

Il bambino soldato dormiva in un giaciglio di paglia e fango, stringendo il fucile così come gli avevano insegnato; lo svegliavano all’alba (o forse anche prima) ed era costretto a svegliarsi di scatto, dimenticando il sonno e gli incubi in un angolo, con il fucile in spalla e una magra colazione sullo stomaco gonfio d’aria.

Non esisteva il tempo per il bambino soldato.

I giorni si somigliavano l’uno con l’altro e il bambino soldato non sapeva nemmeno che giorno fosse il suo compleanno. Sapeva solo di essere nato. Si vedeva sempre uguale il bambino soldato: stessi capelli, stessi occhi stesso viso. Era cresciuto il bambino soldato, solo questo aveva notato.

Non aveva mai fatto caso allo sguardo triste che rivolgeva al mondo nel quale era rinchiuso.

Il bambino soldato, tuttavia, osservava gli altri bambini soldato e si chiedeva se un tempo anche loro fossero stati solo bambini.

Si chiedeva se anche loro, come lui, avessero avuto una famiglia, e se anche loro piangessero di notte, quando non c’erano gli adulti dallo sguardo severo pronti a punirli.

Il bambino soldato non sapeva nemmeno cosa fosse la speranza.

Era una parola, certo, ma del suo significato non sapeva nulla.

Anche se ricorda che suo padre gliene aveva parlato, e dai suoi ricordi di bambino, si rende conto che forse la speranza non è poi una brutta cosa, a giudicare dall’immenso sorriso che suo padre gli aveva rivolto dopo avergliene parlato.

Il bambino soldato ogni tanto veniva mandato a fare la ronda, di notte, quando il mondo diventava nero e le sue peggiori paure arrivavano a tormentarlo.

Era in quei momenti che il bambino soldato desiderava essere solo un bambino, ma questi pensieri preferiva tenerli al sicuro nella sua testa, piuttosto che dire agli adulti di avere paura, perché come ricorda bene, una volta un altro bambino soldato aveva provato a dire che aveva paura, e gli adulti con le medaglie l’avevano frustato così forte che lui e gli altri bambini soldato stentavano a riconoscere le grida dai colpi della frusta.

Quel bambino soldato non era mai ritornato all’accampamento.

Non sapeva scrivere il bambino soldato, anche se avrebbe desiderato tanto saperlo fare, anche solo per scrivere una lettera alla mamma per sapere se stava bene. Aveva pianto tanto la mamma al momento della sua partenza e non gli sembrava giusto non farle nemmeno un saluto.

Avrebbe voluto saper scrivere bene come gli adulti dalle medaglie dorate, che ogni giorno dovevano scrivere su quei bei fogli bianchi con la loro elegante grafia.

Ma non sembravano allegri gli adulti, e molto spesso lui si domandava perché, dato che scrivere gli sembra una cosa assai bella.

Un giorno il bambino soldato venne mandato a combattere assieme agli adulti.

Della battaglia ricorda solo il frastuono delle bombe che cadevano a terra, e nuovamente si chiede come facciano gli adulti ad odiarsi così tanto.

Eppure anche i soldati nemici sono essere umani.

Parlano, ridono e piangono.

Ma forse non l’hanno capito perciò gli sparano. Credono che siano diversi solo per il colore della divisa, quando invece, il bambino soldato, è convinto che anche loro abbiano un cuore.

Cadono a terra uno dopo l’altro i soldati nemici.

Cadono sul terreno polveroso come le foglie in autunno e non si rialzano più, e il quel momento il bambino soldato sente di essere un cattivo bambino.

Perciò abbandona il fucile e corre verso il nemico per chiedergli scusa.

Ma per gli adulti non fa differenza che lui abbia queste buone intenzioni, e il bambino soldato e solo uno dei tanti nemici da uccidere per ottenere la pace.

Solo un secondo, o forse un po’ più, e al bambino soldato manca il respiro.

Inciampa, rotola e il viso si sporca di terra, mentre gli occhi si riempiono di lacrime, guardando di fronte a se la pistola fumante che ha appena colpito.

Sente dolore il bambino soldato.

Dolore dappertutto, ma gli occhi si chiudono e non riesce nemmeno a piangere.

Ogni respiro assomiglia ad una coltellata e non sente più nemmeno il tremendo rumore della battaglia, disteso malamente su un campo polveroso consapevole che quella sia veramente la fine.

Chiudi gli occhi bambino soldato.

Li chiudi sperando di riaprirli in un mondo migliore, un mondo dove poter vivere come un bambino assieme alla tua famiglia.

Ma ormai sei qui, piccolo bambino soldato.

Sei soltanto uno dei tanti corpi sconosciuti citati ai telegiornali.

Questa è la tua storia bambino soldato.

Una fine senza lieto fine.

La triste storia del bambino soldato.

 
E ora dimmi bambino soldato, quanti morti conti da lassù?
Quante vite strappate al mondo ora ballano con te in un allegro girotondo?

  
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