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Autore: SaintPotter    23/10/2015    9 recensioni
““ Articolo uno. I ragazzi e le ragazze residenti al Palazzo di Forbia hanno il dovere di eseguire tutti i compiti ad essi assegnati. La sveglia è alle sei. La giornata lavorativa inizia alle sette del mattino e si conclude alle ore dodici, quando il sole è allo zenit. Il lavoro riprende alle tre del pomeriggio e si conclude alle sette di sera. I pasti sono tre e fissati rispettivamente per le sei e mezzo, le dodici e mezzo del mattino e le sette e mezzo di sera. […] I due sessi opposti non hanno il permesso di avvicinarsi più del dovuto (minimo trenta centimetri di distanza) se non durante i pasti o a partire dall’orario del riposo (ore ventidue e trenta). […] È severamente vietato uscire dalle proprie stanze durante il coprifuoco ed è altrettanto severamente vietato uscire dall’edificio in qualsiasi momento. Ai residenti del Palazzo di Forbia è negato l’accesso al giardino, all’attico del Direttore ed alle cucine, se non in queste ultime per dei lavori. […] Ogni infrazione delle regole prevede, in base alla sua gravità, una punizione di diverso genere.””
─── Storia Originale; fantasy, romantico, generale. ( SaintPotter )
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ignis et Glaciem.

 


 



 

 
1.

Scopro di avere grossi problemi alla vista.

 
Articolo uno.
I ragazzi e le ragazze residenti al Palazzo di Forbia hanno il dovere di eseguire tutti i compiti ad essi assegnati. La sveglia è alle sei. La giornata lavorativa inizia alle sette del mattino e si conclude alle ore dodici, quando il sole è allo zenit. Il lavoro riprende alle tre del pomeriggio e si conclude alle sette di sera. I pasti sono tre e fissati rispettivamente per le sei e mezzo, le dodici e mezzo del mattino e le sette e mezzo di sera. Il tempo libero deve essere occupato da svaghi silenziosi o chiacchierate innocue ed, eventualmente, da lavori extra o punizioni. Ogni attività è divisa in base al sesso. […]
I due sessi opposti non hanno il permesso di avvicinarsi più del dovuto (minimo trenta centimetri di distanza) se non durante i pasti o a partire dall’orario del riposo (ore ventidue e trenta). Le ragazze non hanno il permesso di svagarsi con il gioco delle carte o con il canto. I ragazzi non hanno il permesso di aiutare le ragazze nei loro lavori extra. […]
È severamente vietato uscire dalle proprie stanze durante il coprifuoco ed è altrettanto severamente vietato uscire dall’edificio in qualsiasi momento.
Ai residenti del Palazzo di Forbia è negato l’accesso al giardino, all’attico del Direttore ed alle cucine, se non in queste ultime per dei lavori. […]
Ogni infrazione delle regole prevede, in base alla sua gravità, una punizione di diverso genere.




 
Sono le dodici e trenta del mattino. L’altoparlante, che io ho la fantasia di chiamare Voce Invisibile, ci chiama al pranzo sostituendosi alla campana, che, ci informa, è fuori servizio. È fin troppo acuta per essere una voce maschile, ma lo è. Mi azzardo a credere che sia una voce più pulita della mia, che il suono emesso sia più soave. Io ho una voce roca e Gideon vuol farmi credere che sia mascolina, da uomo, e che un giorno io finirò per cambiare sesso e diventare un ragazzo, come lui. Sostiene che si possa cambiare sesso. Non gli credo, sono una ragazza con i piedi per terra. Ho smesso di credere alle favole all’età di due anni, da quanto ricordo.
La Voce Invisibile ci richiama, con falsa pazienza.
Centinaia di camici bianchi sono diretti verso la Grande Sala per sedere ai loro posti sulle panche di legno, ai tre lunghi tavoli coperti da tovaglie bianche, di fronte alle squallide portate che solitamente sono pane, broccoli, brodo e acqua; se siamo fortunati, c’è la polenta al sugo. Il sugo, naturalmente, le cuoche lo ricavano dal brodo che ci servono quotidianamente. Non ho ancora compreso come questo sia possibile.
Salgo gli scalini che mi portano dritta alla meta imprecando contro la ragazza che mi precede; cammina lentamente, troppo lentamente per i miei gusti e giuro che, se non si dà una mossa, le do un bel calcio nel sedere. Sbrigati, le intimo nella mia testa. Più veloce.
La fila dei ragazzi scorre più velocemente verso la Grande Sala. Sono sicura che Gideon arriverà a sedersi al tavolo prima di me.
Il mio posto non è riservato, ma ormai sono quattordici anni che siedo lì, sfidando silenziosamente chiunque osi rubarmelo. È accanto a Gideon, che siede alla mia destra, e ad una ragazza mingherlina e dai capelli biondi, solitamente raccolti in una treccia, che, se ho ben capito, è muta. Letteralmente. Forse è per questo che non ho mai sentito la sua voce. Si chiama Prudence, lei. Ha lo stesso nome della ragazza robusta che mi siede di fronte, ai pasti. La seconda Prudence, però, non è altrettanto di poche parole, anzi, credo di averla spesso vista pulire i pavimenti a causa della sua brutta boccaccia.

«Broccoli» dico io, rigirando la forchetta nel piatto che ormai è sempre lo stesso da tutta la vita. Non che non mi piacciano, ma qualche volta preferirei trovare anche – che so – una carota. Tanto per cambiare.
«E che ti aspettavi?» mi risponde di rimando Gideon. Sono sicura che anche lui non ne possa più dei broccoli, ma mi piace vedere che sul volto ha un’espressione incondizionatamente sorridente. Io non sorrido mai, perciò mi piacciono le persone che lo fanno. I denti bianchi, poi, possono essere considerati il top sul volto pallido e lentigginoso di Gideon. Creano un forte contrasto con i capelli spettinati, rossi quanto i pomodori, i quali sono riuscita a mangiare ben una volta nella vita, e con i vivaci occhi marroni che, mi informa lui, deve aver sicuramente ereditato da sua madre. Non sono nemmeno tanto sicura del significato della parola contrasto; qui non ci insegnano niente ed è stato Gideon, una volta, alcuni anni fa, a spiegarmi che il contrasto è un particolare effetto visivo dato dalla vicinanza forte di due colori totalmente diversi, magari uno caldo ed uno freddo. Imparo in fretta, quando ne ho voglia, ma non posso dire di avere anche una gran bella memoria. Spesso cerco di sforzarmi di ricordare qualcosa, ricordare il passato, ricordare i dettagli. Vorrei poter ricordare i miei genitori. Vorrei conoscere i motivi per cui mi hanno abbandonata in questo inferno quando avevo solo due anni e capire, capire i mille perché che si insidiano nella mia testa. Vorrei ricordare, ma non ci riesco.
Annuisco piano a Gideon e do un morso al pezzo di pane che ho di fronte a me; la monotonia è così tanta che mi vien voglia di inzuppare il pane nell’acqua e definirla la mia nuova ricetta. Ovviamente, vi è dato sapere che non so cucinare. Ai nostri pasti ci pensano le cuoche, come ho già detto, e non è per loro tanto difficile ripetere ogni giorno lo stesso menù. Se vogliamo essere precisi, c’è un giorno in cui si mangia diversamente. C’è un giorno, il 25 Dicembre, in cui alle cuoche facciamo così pena che ci servono il polpettone. Il 25 Dicembre si mangia qualcosa di speciale, qui al Palazzo di Forbia, perché è il compleanno del Direttore. Non perché è Natale. Qui nessuno è cristiano. Oppure, se lo è, non lo dice.
C’è un’unica cosa, oggi, che mi dispiace: è il giorno del mio compleanno e nessuno ha voluto prepararmi un po’ di polpettone. No, figuratevi, non vi disturbate. Non preparate nulla di speciale per me. Non sia mai che un essere vivente, qui, veda per la prima volta nella sua vita l’ombra di una torta.
Non ho mai visto una torta di compleanno e non so cosa sia di preciso, ma ho sentito che è l’ottava meraviglia del mondo.
«Buon compleanno, Galene.»
È molto gentile che Gideon voglia regalarmi il suo pezzo di pane, ma non l’accetto; lo prendo dalle mani forti del ragazzo e lo poso nel suo piatto. Se questo è solo un piano per liberarsi del suo pranzo, deve capire che io sono più intelligente, anche se ho un anno in meno a lui.
Non ho fame, quest’oggi, così lascio cadere la forchetta sul tavolo, davanti a me, per permettere  alle mie dita di essere libere ed intrecciarsi con i miei capelli corvini. Per quanto innocenti siano i miei scopi, riesco solo ad annodarli, i capelli. Forse Gideon ha ragione: un giorno diventerò davvero un ragazzo. Faccio pena come femmina.
Prudence, la ragazza che siede di fronte a me, mi schizza per errore del brodo sul camice. Non fa niente.
L’altoparlante ci avvisa che mancano dieci minuti alla fine del pranzo, dopodiché dovremo sgombrare. Parlando tra noi, se non ci sbrighiamo, ci cacciano a calci nel culo.
Molti ragazzi sono ancora occupati a mangiare il loro brodino di pollo (se non berlo, mi azzarderei a dire), mentre la maggior parte di essi, noto, è immobile al proprio posto ad attendere la fine dell’ora di pranzo.
La vista è sempre la solita: centinaia di camici bianchi che si dirigono frettolosamente ai tavoli, che siedono ad essi per cibarsi ed infine che, seppure vorrebbero far a gara per arrivare prima di chiunque altro fuori dalla Grande Sala, camminano lentamente verso l’uscita. Adesso, mentre tutti sono ancora seduti ai tre grossi tavoli, si intravede lungo il corridoio che vi è fra due di essi, saltellando vivacemente, una bambina di sì e no tredici anni. Ha due grosse trecce bionde e indossa un vestito rosa con merletti bianchi praticamente ovunque. Lei è l’unica che può permettersi di vestire in maniera così privilegiata. È Sandy, la figlia del Direttore. Non abita qui, così come non abita qui il padre, che, seguendo il suo cuore d’oro, ci fa visita nei fine settimana e risiede all’attico del Palazzo. La vedo saltellare vivacemente per il corridoio ed infine tornare indietro, da dove è venuta. Non so cosa ci trovi di divertente a fare ciò, ma più la vedo con quei suoi vestitini da bambola curata e più vorrei strapparglieli di dosso. E strapparle i capelli. E la pelle dalla faccia. Forse è per questo che anche lei ci viene a trovare: per farci arrabbiare. Dopotutto, qui al Palazzo di Forbia, siamo costretti a lavorare come  muli, senza un briciolo di libertà, di diritto, fino a quando non raggiungiamo i vent’anni. Come ci sono finita, in questo posto, me lo sto ancora chiedendo. Allo stesso modo, mi chiedo che fine farò. Forse vogliono trattenere qui noi poveri orfanelli per mostrarci quanto brutto e crudele sia il mondo, là fuori. O forse vogliono farci morire perché gli abitanti della Terra sono troppi e questo è un buon metodo per fare pulizia. Non lo so e non deve interessarmi; so solo che voglio prendere a pugni Sandy ed il suo paparino. So che odio stare qui e che non vedo l’ora di andare via, di uscire all’aria aperta e vedere per la prima volta nella mia vita la neve. Ah, la neve, quanto deve essere bella!
«Ripetimi come è fatta» chiedo a Gideon, ma abbastanza forte da farmi udire dalle altre persone a me vicine, guardando con improvviso fare sognante il mio piatto, ancor pieno, anzi, intatto. Come se improvvisamente i broccoli fossero tramutatisi in polpettone!
Il mio migliore amico sa che sono testarda e che sarebbe inutile consigliarmi di mangiare qualcosa, ma decide di rispondere alla mia richiesta con un’affermazione che mi avrebbe lasciato intendere il seguente: così morirai di fame. Corruga la fronte, pronunciando un incerto «la forchetta? Appuntita, dovresti usarla per uccidere quei broccoli.»
«La neve, cretino
Mi piace sentir parlare della neve. È bianca, è candida, morbida, fredda… chissà che forma abbia, di preciso! A Forbia, dice il Direttore, non nevica mai. Se nevicasse, comunque, nessuno dei ragazzi lo saprebbe perché siam tutti rinchiusi come una principessa in un castello. Solo che qui ci sono draghi sputafuoco e zero principi disposti a salvarci.
Devo ancora ben capire l’utilità del Palazzo; una scuola non è, ma non può essere un semplice orfanotrofio poiché i docenti sono tutti troppo severi e crudeli per interessarsi a minorenni senza famiglie.
Grace Cantervane una volta ha chiesto al Direttore cosa fosse di preciso il Palazzo di Forbia. Lui, per punizione, l’ha frustata sulle mani nude con ben dieci colpi. Inutile dire, inoltre, che lei non abbia mai ottenuto una risposta, allora.
Credo che i ragazzi che hanno un’età maggiore ai sedici anni ne sappiano qualcosa di più, anzi, ne sono sicura; Gideon ha diciassette anni ed io so che lui è al corrente di qualcosa. Così i ragazzi e le ragazze dai sedici ai diciannove anni.
Ma da oggi sono una sedicenne anche io. Ho il diritto di sapere perché sono qui e non farò la stessa fine dolorosa di Grace Cantervane. Perché lo sappiate, a proposito, lei ora ha diciotto anni e la sua preziosa risposta deve averla avuta.
Un giorno pregai Gideon di raccontarmi cosa fosse successo quando lui compì i suoi sedici anni. Perché successe qualcosa. Venne chiamato, insieme ai suoi coetanei, dalla Voce Invisibile, quella che oggi sostituisce il suono della campanella dei pasti. Lui non volle dirmi niente ed io mi arresi al suo silenzio. Sono cocciuta, ma credetemi se vi dico che anche lui sa esserlo.
Sento nuovamente il suono dell’altoparlante. D’istinto, mi alzo per dirigermi al mio dormitorio, pronta a godermi i miei meritati tre minuti di pausa. Stavolta, però, la Voce Invisibile non annuncia la fine del pranzo. Questa volta, chiede ai sedicenni di raggrupparsi e raggiungere l’atrio del Palazzo.
Io ora ho sedici anni. È anche me che la Voce Invisibile sta chiamando.
 

Non sono preoccupata, ma Gideon crede che lo sia. Lo capisco dal modo in cui mi guarda. Vuole dirmi con i suoi occhi che andrà tutto bene e che qualcosa di bello sta per accadere, che devo fidarmi. Bisogna dire che i suoi occhi sono bravi ad incoraggiare le persone. Tento di sorridergli. Forse dovrei esercitarmi a farlo, non credo di essere molto brava. Non importa. Smetto di guardarlo. Adesso non devo preoccuparmi di Gideon. Piuttosto, devo concentrarmi sulla camminata, devo seguire il ragazzo dai capelli dorati senza calpestargli per la quinta volta i piedi e ricordarmi che la regola dice che devo distare da lui minimo trenta centimetri. Nessuno per fortuna si accorge della mia goffaggine. Tranne lui, che ovviamente si volta verso di me e mi incenerisce con lo sguardo quando gli calpesto il piede per la sesta volta. Mi si gela il sangue. È strano, perché riesco a vedere il fuoco in due occhi del colore medesimo del ghiaccio. O sto bruciando, oppure mi sto ghiacciando. La fronte del ragazzo è aggrottata, sembra che lo sia anche il mento. Si tratta, invece, di una piccola fossetta su quest’ultimo. Ha la carnagione più chiara di Gideon, il suo volto non è spruzzato di lentiggini. Non ci sono imperfezioni. In effetti, non credo di aver visto un volto tanto perfetto. Il naso ha la forma esatta, la bocca la dimensione giusta, gli occhi non distano troppo fra di loro e sono di un grigio che non ho mai visto a nessun altro. Le sopracciglia non sono troppo folte e, se anche lo fossero, nessuno se ne accorgerebbe, dato che sono bionde come i capelli che poco disordinati stanno sulla sua testa, il volto perfettamente ovale. È un peccato che un volto tanto bello possa guardarmi tanto male. Non mi piacciono le persone che hanno sempre espressioni cattive in viso. Io sono sempre imbronciata, è vero, ma è diverso. Insomma, io sono io. Io posso. Lui non può. Nessuno può.
Il ragazzo dai capelli biondi si volta di nuovo avanti e adesso io prego di non essere più tanto goffa e di non pestargli i piedi. Non vorrei finire per beccarmi un calcio nel sedere, soprattutto perché da parte sua dovrebbe fare male: è alto, questo vuol dire, per come la pensa la seconda Prudence, che ha anche i piedi grossi. Per fortuna non è troppo robusto, altrimenti li avrebbe ancora più grossi. Almeno credo, questo ragionamento non fa una piega. Non posso saperlo, non ho mai visto i piedi di nessuno, oltre i miei, anche perché tutte le mie compagne di dormitorio dormono con i calzini. Sempre. Comunque, non avrei mai potuto vedere i suoi, di piedi. In realtà, non ho mai visto tanto da vicino questo ragazzo; di solito, se la memoria non mi inganna, durante i pasti se ne sta al tavolo più lontano dal mio, accanto a una ragazza dalla pelle nera. Alla sua sinistra non c’è nessuno, il tavolo finisce. Non ho idea di quale sia il suo nome e per ora non mi importa neanche. Piuttosto, mi dovrebbe importare di più il suo numero di scarpe.

Finalmente decido che i piedi non sono più un argomento troppo interessante, quindi, compiendo in avanti qualche passo, più attento dei precedenti, mi giro a guardare Gideon. Riesco a guardarlo solo per dieci secondi, poi Anne, dietro di me, mi spinge intimandomi di muovermi. Davanti a me, il ragazzo dai capelli biondi ha mosso ulteriori passi ed ora la distanza fra noi è maggiore. I due passi che compio mi fanno uscire dalla Grande Sala, quindi devo sognarmi di aspettarmi un ultimo incoraggiamento dal mio amico, ancora dentro. Ci vediamo dopo, Gideon.

Arriviamo in pochi secondi nell’atrio e puntiamo sulla destra, verso la scalinata che è sempre stata proibita a me, poiché il cartello giallo che v’è davanti dice “vietato”. I caratteri sono grossi e neri. Alzo gli occhi e vedo che mi aspettano un minimo di duecento scale. Li abbasso e osservo per un istante velocissimo la macchia di brodo sul camice bianco. La massa continua a camminare, capeggiata adesso da un uomo sulla quarantina, ed io non posso fare altro che imitarli. Nessuno osa parlare, chi rompe il silenzio rischia di lavare i pentoloni per una settimana. Al centoventunesimo scalino (sì, li sto contando) vorrei aprire la bocca e dire che sono già stanca, ma non mi azzardo a farlo. Posso solo lamentarmi con me stessa, nella mia fantasiosa mente. Non solo ho paura di finire in punizione, ma il ragazzo biondo che mi precede mi inquieta alquanto. Se venissi fulminata con lo sguardo una nuova volta, credo che me ne vergognerei parecchio. E mi arrabbierei, perché, anche se avrà sì e no venti centimetri d’altezza in più, non è superiore a me e non ha nessun diritto di mettersi a fare l’antipatico. Io posso essere antipatica quanto e quando voglio, naturalmente. Si chiama regola di Galene, consiste nel fare ciò che si vuole nei limiti stabiliti dal Direttore.

Sospiro, sollevata, quando noto che il duecentosedicesimo è l’ultimo scalino da salire e mi ritrovo su un piano che, per la felicità di tutti, deve essere l’ultimo. Il primo ed unico dell’Ala Est, direi. Non ci sono mai stata, quindi potrei scoprire di star sbagliandomi. Non che ora mi interessi. Voglio solo riprendere fiato. Inspiro ed espiro e cerco di essere più silenziosa che posso. Il mio petto si alza ed abbassa in fretta.

L’uomo sulla quarantina finge di non accorgersi che tutti i sedicenni stanno ancora cercando di riprendersi da questo piccolo shock (ehi, non sono state mica poche, le scale!) e ci sorride in maniera finta. Almeno, a me pare. Ci informa che si chiama Azur Masmal e che, da adesso in poi, dovremo soltanto fare come lui ci dice. Continua affermando che oggi, 31 Dicembre, la nostra vita ricomincerà da zero. Il mio cervello, come i miei polmoni, lavora in fretta e capisco perché, di qualsiasi cosa si tratti, sia stato scelto questo giorno: è l’ultimo giorno dell’anno, l’ultima possibilità che un quindicenne diventi un sedicenne. Il mio è l’ultimo compleanno, sono la più piccola di tutti questi ragazzi. Non so, poi, se qualcun altro sia nato in questo giorno. Il signor Masmal dice anche che dobbiamo prestare molta attenzione alle sue prossime parole, dato che saranno davvero importanti, ma il suo parlare termina improvvisamente. Felicia Snouck deve aver regolato male la voce quando ha detto, giusto un minuto fa, che quest’uomo è pazzo, se ha fatto fare a ognuno di noi tutte quelle scale. Qualcuno ha riso piano, me ne sono accorta. Trovo sia strano che, con una cinquantina di ragazzi troppo vicini persino per le regole volute dal Direttore, lui abbia subito compreso chi abbia parlato e si sia avvicinato a passi sicuri a Felicia. Intorno a lei e l’uomo, improvvisamente, si crea il vuoto: evidentemente spaventati dal signor Masmal, tutti i sedicenni vicini a Felicia gli fanno spazio e lo lasciano fronteggiare la ragazza. Lo vedo corrugare la fronte e sono certa che potrebbe mettersi a urlare da un secondo all’altro. I secondi, tuttavia, passano e le labbra del signor Masmal rimangono immobili. La sua mano destra, però, no: si infila dentro la giacca e fruga dentro quella che deve essere una tasca; ne tira fuori una bacchetta e ordina alla ragazza di mettere in avanti le mani. Vuole picchiarle. Non ne ha alcun diritto. O forse sì, magari anche scritto, ma non può fregarmene. Gideon mi aveva fatto capire che sarebbe successo qualcosa di bello e il quarantenne persino ha voluto dircelo. Adesso non può fare del male a una mia coetanea, non per una stupidaggine del genere. Lei ha solo fatto un commento e sì, posso capire che non sia stato molto carino, ma sono certa che chiunque, in quel piano, abbia pensato la stessa cosa. Anche io l’ho pensata ed il cuore batte ancora troppo velocemente per le molte scale che abbiamo dovuto salire. Anche io credo che lui sia pazzo, sebbene l’abbia conosciuto da poco, pochissimo tempo. Ora, non sono un’eroina e non mi piace neanche mettermi a difendere le persone, in più non ho troppo coraggio di andare contro quell’uomo, ma non ho intenzione di mettermi a ragionare su cosa sia meglio fare, voglio fermare quest’uomo.

«Non può farlo!» ribatto quindi. La mia voce sembra più mascolina del solito. Mi accorgo che non è la mia, non sono stata io a parlare. Mi volto a sinistra, scopro che a contraddire il signor Masmal è stato il biondo che in fila mi precedeva, poco fa. Non ho il tempo di immaginare in quale modo possa assassinarlo l’uomo, ché lo vedo voltarsi verso di lui. Sorride amaramente. Al diavolo le persone che sanno sorridere, mentre io non so farlo! È così vicino al biondo, a lui dinanzi, che adesso sento il cuore salirmi in gola. Batte più forte. Sicuramente lo punirà, dando a lui la bacchettata sulle mani o chissà che altro. Quando sembra che stia per allungare la bacchetta verso il viso del ragazzo, strizzo gli occhi, ma non odo il rumore di nessuno schiaffo.

«Molto bene» dice invece. Che cosa? Apro gli occhi. No, li strabuzzo. Non è possibile che non lo voglia punire. Non riesco a crederci. Forse l’uomo, questa, se la legherà al dito e deciderà di punirlo in un altro momento. Però, anche se non credo che sia finita qui, un grosso sospiro di sollievo esce dalle mie labbra. Anche da quelle di Felicia, ne sono parecchio sicura. È stata fortunata che qualcuno abbia deciso di difenderla. Avrei potuto farlo anche io, comunque. Penso.
«Come stavo dicendo – riprende Masmal, come se si fosse dimenticato improvvisamente di tutto ciò che è appena avvenuto – oggi è un giorno davvero speciale. Capirete cosa ci fate al Palazzo e capirete perché proprio voi siete qui, anziché altri. Capirete perché siete stati tolti dalle vostre famiglie, capirete perché abbiamo aspettato i vostri sedici anni. Capirete il senso di ogni cosa, ne son certo. Dovete avere pazienza, però, e fare piccoli passi alla volta.»

Se abbia detto dell’altro, poi, posso dire di non saperlo. Le mie orecchie hanno smesso di funzionare quando ha detto che siamo stati portati via dalle nostre famiglie. Non capisco. Credevo che i miei genitori fossero morti. Credevo che i genitori di tutti fossero morti. Per la milionesima volta mi chiedo cosa sia davvero questo posto, ma ora sento che, se non mi arriverà una risposta, mi arrabbierò sul serio. Perché nessuno può essere allontanato dalla propria famiglia. Sento che voglio prendere a pugni tutti quanti, il Direttore per primo.
Mi pongo domande su domande, mentre le labbra dell’uomo continuano a muoversi. Riesco a concentrarmi ancora su di lui non appena un improvviso fascio di luce attira la mia attenzione. Un fascio di luce uscito… dalle mani di Masmal. Da quando ho problemi alla vista?
   
 
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