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Autore: r_clarisse    27/10/2015    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 1 - "Origini"


1.1 “Colline e palazzi”
Non credo che quella del mio passato si possa considerare una storia eccitante o particolarmente interessante, anzi è molto ordinaria ed è probabilmente qualcosa che molti altri hanno vissuto prima di me.
Penso tuttavia che valga la pena raccontarla perché infondo, qualcosa da ricordare c’è sempre.
Sono nato e cresciuto su Canceron, precisamente nella cittadina di Eneris che distava circa un’ora di strada dalla capitale, Hades, nell’emisfero Nord.
Eneris era arroccata ai piedi di una collina verde, l’unica collina rilevante del luogo e una delle poche zone di campagna del pianeta lasciate parzialmente libere dall’urbanizzazione – e dove si potesse respirare aria non troppo inquinata.
La cima della collina offriva la possibilità di osservare una vasta gamma di paesaggi: a pochi chilometri, le vaste distese di campi agricoli – considerati tra i più fertili delle Colonie, secondi solo a quelli di Aerilon- ; in lontananza, gli imponenti grattacieli della capitale che dominava sulla conformazione della pianura, e delle cittadine minori nei suoi pressi, solitamente coperte da una foschia grigiastra emessa dagli scarichi delle miriadi di automobili in circolazione; infine, all’orizzonte, quasi evanescenti, le cime delle montagne perennemente innevate per tutto l’anno, dove lo smog non poteva arrivare e fare danni.
Se quella collina fosse stata più alta di cento metri sarebbe stato possibile vedere le vaste e assolate distese di sabbia di fronte all’oceano a Sud: le spiagge di Canceron, rinomate per la loro bellezza e famose per essere le migliori nel cosmo, tanto da attirare tutti gli anni milioni di turisti da ogni angolo dei sistemi solari, portando enormi guadagni al mercato interno.
C’erano giusto tre palazzi ad Eneris che superassero la collina in altezza, due dei quali quasi completamente in vetro e con il tetto obliquo, similmente agli edifici nelle grandi città.
Ricordo una moltitudine di case e palazzine colorate con toni di giallo e di rosa che contrastavano con il grigio delle strade, degli altri edifici e della maggior parte del pianeta, uno dei più edificati ed inquinati dalla nostra società, e ricordo anche un discreto traffico durante molte ore del giorno nonostante il nostro fosse un piccolo nucleo abitato.
La gente del posto non era particolarmente cordiale, non perché fosse cattiva o portasse astio reciproco, ma più che altro perché incarnava alla perfezione l’anima del cittadino, sempre di fretta e senza un secondo libero; non esisteva per loro il concetto di vicinato, ne di cortesia, ne di supporto morale, nulla se non un sorriso stiracchiato che ti rivolgevano quando li incontravi per caso sul pianerottolo del condominio.
Tutti correvano dalla mattina alla sera portando avanti le loro routine di lavoratori senza preoccuparsi minimamente di chi avevessero affianco.
Credo che pochissime persone su Canceron conoscessero qualcosa del loro vicino di casa oltre al nome e ,quand’anche fosse stato così, non avrebbero avuto nessun interesse ad approfondire un rapporto.
Nonostante il via vai generale, non era una zona movimentata per gli standard di quella roccia edificata; gli eventi che facevano più scalpore erano le elezioni annuali del sindaco e il vandalismo sulle pareti delle scuole medie, bazzecole degne delle chiacchiere delle vecchiette di campagna.
Certo, eravamo spesso soggetti a forti temporali e delle volte abbiamo visto qualche tornado piuttosto potente, ma al di là di ciò era difficile che qualcosa nel nostro piccolo contesto facesse notizia sul Canceron Times .
Io non me ne lamentavo, sono sempre stato un ragazzo tranquillo e abitudinario, senza particolari desideri di grandezza e guardandomi indietro, credo che fosse un ritmo già troppo tirato per i miei gusti.


1.2 “Casa in campagna”
Non ho mai avuto una vera famiglia prima di conoscere Steven.
Sono stato cresciuto da Jennifer Binsky, una singolare casalinga di provincia, amica di mia madre fin dai tempi dell’asilo, tempi in cui le loro madri le vestivano allo stesso modo per andare a scuola.
Aveva dei lunghi capelli castano chiaro che teneva in perfetto ordine piastrandoli quasi ogni giorno, un viso scarno e pallido e due occhi marroni che non truccava praticamente mai.
Lavorava in banca e questo la teneva occupata fuori casa per la maggior parte della giornata, che io passavo da solo o con Mary, la figlia della vicina che mi curava tre giorni a settimana in cambio di cinque cubiti all’ora. Una paga fin troppo alta per il poco che faceva, e decisamente troppo disonesta perché la richiedessi io stesso più avanti.
La cosa più strana del vivere insieme a Jennifer era l’avere a che fare con le sue abitudini assolutamente inusuali: era la persona più ipocondriaca che conoscessi e faceva analisi su analisi ogni mese, continuamente alla ricerca di un male che forse esisteva solo nella sua mente.
Lavava le verdure almeno tre volte consecutive prima di servirle o cuocerle per il timore che qualcuno le avvelenasse per ucciderla –ci feci l’abitudine, ma ripensandoci mi pare ancora agghiacciante-.
Vestiva ogni giorno di un colore diverso e tutti i capi che indossava dovevano essere rigorosamente dello stesso, e ciò faceva si che agli occhi di un bambino di dieci anni sembrasse un gigantesco pastello ambulante; non osava uscire di casa con un maglione blu e le scarpe nere, per intenderci.
Ad ogni modo, sono felice di aver passato quegli anni con lei; era una brava persona e mi voleva bene anche se faticava un poco a dimostrarlo, mentre era troppo presa dai suoi piccoli drammi immaginari.
Non voleva che la chiamassi mamma perché sapeva di non esserlo, anche se faceva di tutto per non farmi mancare nulla.
Fu lei a raccontarmi dei miei genitori, di come andarono le loro vite, di come finirono.
Venivano entrambi da Virgon, come lei stessa, figli di famiglie modeste ed incredibilmente conservatrici che avevano lasciato loro un’inestimabile amore per la vita e per le tradizioni.
Mio padre, Robert Jenkins,  era nato ad Hadrian dove aveva lavorato per otto anni nell’alta moda virgana, disegnando capi di lusso che venivano esposti nelle vetrine dei negozi più importanti di tutti i mondi; scarpe, jeans, giacche, abbigliamento di ogni tipo. Era un uomo di media statura, capelli e barba brizzolati, con una grande passione per la natura; forse fu proprio questo – a detta di Jennifer- a pesargli di più del trasferimento su Canceron, ormai quasi privo di zone incontaminate a cui lui era abituato.
Mia madre, Patricia Mckullister - donna molto bella dalla chioma mossa e tinta di rosso - era una parrucchiera e aveva acconciato e colorato i capelli di molti personaggi della televisione; iniziò a praticare il mestiere appena a tredici anni facendo esperienza in uno dei saloni di bellezza della sua città; con il passare degli anni diventò una vera maestra nel campo facendole guadagnare una certa fama nel settore.
Si conobbero per puro caso in una discoteca famosa, la Aayork, mentre erano insieme ai rispettivi amici; Jennifer era con mia madre e vide nascere la loro storia
“Credo che ci siano persone che sono semplicemente destinate a stare insieme” mi disse una volta “i tuoi genitori lo erano. Credo lo avessero capito quella sera stessa.”
Si sposarono dopo un anno emmezzo e vissero per qualche tempo in una piccola fiaba fatta di viaggi, vacanze e felicità.
“Avevano paura di non poter avere bambini.”
“Perché Jennifer?”
“Perché dopo due anni ancora non riuscivano ad averne” mi raccontava una sera prima mentre mi rimboccava le coperte “eppure, quando non se l’aspettavano sei arrivato tu!”
Mia madre rimase incinta di me alla fine dell’estate e questo fu una gioia per entrambi, ma tuttavia le cose belle non sempre vengono accompagnate da altre cose belle; mio padre perse il lavoro senza preavviso ritrovandosi con niente in mano, mentre mia madre era già disoccupata da mesi prima per via del fallimento del negozio in cui esercitava.
“Dissi al tuo papà che mio zio era titolare di un’impresa bancaria qui, su Canceron” Diceva mentre la ascoltavo disteso sotto le coperte
“Gli consigliai di trasferirsi qui, almeno avrebbe avuto un buon lavoro e avrebbe potuto mantenere te e la mamma.” Sentivo del rammarico nella sua voce, in qualche modo si vedeva responsabile di quello che era accaduto.
Così, i miei genitori lasciarono tutto quello che avevano per ricominciare da capo sul pianeta più sovraffollato delle Dodici Colonie, sperando che la fortuna potesse stare dalla loro parte.
Comprarono una piccola villetta nella periferia di Eneris: il giardino era circondato da una staccionata bianca che con il tempo e lo smog sarebbe diventata grigiastra ed era pieno di piccoli alberi che in primavera fiorivano, donando colore all’abitazione.
Ne ricordo le finestre ampie e luminose, la luce gialla arancione che entrava nei pomeriggi di autunno e si proiettava sul pavimento della sala, di fianco al televisore.
Naqui sei mesi dopo il trasferimento.
“Loro ti amavano moltissimo, eri ciò di più prezioso avessero..” Jennifer sospirò “Per il poco tempo che avete avuto insieme sono stati due buoni genitori.”
Avevo un anno quando morirono, una sera, all’improvviso: i freni si guastarono e la loro auto andò a finire contro un albero. Quanto è ironica la vita, quanto è fragile.
Quanto è ingiusta.
“Pensai che siccome ero la migliore amica della tua mamma dovessi prendermi cura di te, piccolino.”
Jennifer si trasferì su Canceron dopo poche settimane, aiutata dallo zio ed iniziò le immediatamente le pratiche per l’affidamento
“Non avrei mai lasciato che crescessi in un orfanotrofio”
Così iniziò la nostra vita insieme e così la donna sicura di se che era Jennifer si trasformò nella maniaca delle medicine e dei complotti che è stata poi, fino alla fine.
In parte me ne sento colpevole, so che parte delle manie che le frullavano in testa sono state causate dall’impegno che si prese con me; lei non era pronta, forse non era nemmeno portata per crescere un bambino, e di certo da ragazza non avrebbe mai pensato che avrebbe dovuto farlo per la sua migliore amica morta. Ma infondo, l’amore può tante cose, se non addirittura tutto.
Credo non ci sia limite alle sue possibilità, credo la sua forza pervada l’universo e lo tenga integro nel suo ineieme, qualunque sia il modo in cui lo chiamiamo.
Ad ogni modo, Jennifer è stata quanto di più vicino ad una madre abbia avuto, sebbene non lo fosse realmente ne la considerassi tale.
 
1.3 “Per sempre a scuola”
Frequentai la Persephone’s Sacred Heart dalla prima elementare all’ultimo anno di liceo; era una delle scuole pubbliche più famose su Canceron, in nome della dea Persefone alla quale erano dedicati innumerevoli monumenti nel globo , oltre ad Efesto, Dio patrono del pianeta.
La sede principale dell’istituto stava nel centro di Hades, mentre la succursale in cui mi trovavo io era nella cittadina di Leudan, a mezz’ora di strada da casa mia.
Ho ricordi molto vividi dei miei anni nella scuola primaria, tanto da poterli descrivere nei dettagli: la mia maestra, Elizabeth Rott, era una donna molto interessante; mentre attraversavo la porta della classe, il primo giorno di scuola, mi si presentò  poggiando una mano sulla mia spalla e dicendo con un tono dolce ma deciso “Ciao! Io sono la tua maestra!”. Quell’immagine è rimasta impressa a fuoco nella mente: stava in piedi accanto allo stipite della porta e mi sembrava altissima –avevo sei anni-;  aveva i capelli mechati a caschetto medio-corti; indossava un golf panna con delle fantasie triangolari alla vita e con le maniche rimboccate; portava un paio di pantaloni neri e fini che terminavano con un piccolo spacco angolare a livello delle caviglie, dove esibiva della scarpe in finta pelle a tacco largo.
Era una figura molto materna che sapeva sia rassicurare che incutere un profondo senso di rispetto e di ammirazione;  non esitava ad alzare la voce e rimproverarci se necessario, ma tutti noi bambini ne eravamo innamorati. Era sicuramente una delle maestre più capaci dell’istituto.
Figlia di una importante famiglia aristocratica di Caprica, si trasferì sul nostro pianeta dopo la laurea, a ventisette anni, fresca di matrimonio e piena di timore per l’avvenire.
Ne parlava molto spesso durante le sue lezioni, facendo trasparire senza troppi veli la sua nostalgia per quel mondo così ricco e florido che l’aveva vista crescere nei suoi anni d’oro:  a volte indicava con una penna in mano fuori dalla finestra, in alto nel cielo, la posizione del suo sistema solare, e gli occhi le si riempivano di tristezza per un momento.
Non so per quale ragione lasciò la sua patria per venire su Canceron, ancora oggi mi chiedo quali potessero essere i motivi che non ci ha mai voluto spiegare. Doveva esserle successo qualcosa per indurla a lasciare Caprica.
Ah, la bella Caprica.
Non ero sicuramente il bambino più intelligente o più veloce o più brillante della classe, ma ricordo molto bene quanto mi piacesse andare a scuola; scienze, geografia, linguistica, grammatica, musica; guardavo i miei quaderni con gli occhi luccicanti quando tornavo a casa nel pomeriggio.
Al terzo anno ci fecero scegliere uno strumento musicale da approfondire ed io scelsi il pianoforte; una decisione forse molto comune ma unica ed importantissima per me.
Credo che suonare fosse una delle cose che più in assoluto mi facessero sentire vivo, allora come oggi.
O almeno come fino a quattro anni fa…
Jennifer non poteva permettersi un vero pianoforte, così comprammo una tastiera che divenne per me la migliore amica, per lei il peggiore incubo domestico; molto spesso si svegliava nel cuore della notte sentendomi suonare di nascosto –per quanto appunto sia possibile suonare di nascosto in una casa nel cuore della notte- e mi ricacciava a letto stizzita.
Le feci invocare mezzo Pantheon in quegli anni, poverina, ma la resi altrettanto orgogliosa: ho ben in mente quanto le mie insegnanti fossero felici di parlarle ai colloqui generali; a volte mi sembrava quasi che mi lodassero in modo esagerato, che mi facessero complimenti che non meritavo, forse per pietà nei confronti della mia situazione. Ma ad ogni modo, qualche piccola soddisfazione ogni tanto non fa male.
Fu alle medie che iniziai ad avere problemi: ero un ragazzino fin troppo pacifico e in un mondo caotico come quello in cui vivevo i ragazzini crescono in fretta. Fin troppo.
Sono stato fortunato infondo, il bullismo che subì in quegli anni non era poi così pesante e di certo non ho molto di cui lamentarmi, visto che alcuni miei coetanei hanno visto e vissuto di peggio.
Al liceo presi la scelta decisiva che avrebbe determinato l’andamento della mia vita: scelsi di frequentare il lato delle Scienze Umane e della persona nella Persephone; una parte di me era indecisa su cosa avrei fatto dopo, ma nel profondo sapevo fin da quando ero un ragazzino che avrei voluto insegnare.
Non so cosa effettivamente mi colpisse di più in quella professione, cosa me la facesse amare così tanto, ma ero stato così ammaliato dal modo in cui parlava la mia maestra e dal rapporto che aveva con noi che avevo capito fin da allora che era ciò che desideravo nel mio futuro.
Terminato il liceo mi presi un anno di pausa per riflettere su cosa volevo fare della mia vita; sapevo di voler continuare gli studi ma sentivo come se mi mancasse qualcosa.
Come se quel qualcosa sarebbe arrivato da lì a breve.
E fu così.


Continua…
   
 
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