Lidia fluttuava senza alcun peso tra le poche
stelle che
illuminavano un paesaggio a lei del tutto estraneo. Montagne ombrose e
cupe
torreggiavano, in un contrasto quasi irreale, sulla grande città che si
distendeva disarticolata e caotica in un intreccio di suoni, luci e
ombre.
Lidia sapeva che era un sogno, ma non riusciva a scrollarsi di dosso la
fastidiosa sensazione che il paesaggio sotto di lei acquisisse sempre
più
consistenza man mano che si avvicinava ad osservare le vie della città.
I
dettagli diventavano sempre più nitidi: non percepiva solo quelli
visivi, ma
anche i suoni e gli odori. L’unico senso che non sembrava connesso era
il
tatto. Pur essendo a contatto con il ruvido asfalto non sentiva
l’attrito sui
suoi piedi nudi, né tanto meno il peso del suo stesso corpo. Era
libera, ma
anche sperduta in una città che non conosceva. La paura si insinuò
vigliaccamente nel suo corpo paralizzato, e per un attimo ritornò ad
essere la
bambina di cinque anni che si era persa al mercato. Per calmarsi aveva
bisogno
di distrarsi. Si guardò attorno e, non appena vide una panchina, vi si
sedette in
silenzio guardando i passanti sfilare sul marciapiede. Osservare le
persone in
uno qualsiasi dei momenti quotidiani era un hobby che non aveva mai
saputo
rimuovere, nonostante le numerose volte in cui la madre le ricordava
che
fissare a lungo gli estranei era un gesto rude.
Trovava sempre nelle loro pose qualcosa che valeva
la pena
disegnare, qualcosa che legava sia le sue emozioni che quegli estranei
al suo
album da disegno. Anche in quello strano sogno trovò il suo soggetto e
inconsciamente prese a seguirlo, dapprima solo con lo sguardo, poi, in
un
secondo momento, affiancandolo. Lo aveva scorto quasi subito, e, tra
tutta
quella folla, sapeva che lui sarebbe stato il soggetto di
quell’osservazione.
Si sentiva una calamita attratta dalla sua figura schiva, ma non per
questo
meno notabile tra le altre. Perciò allungò il collo per poter scrutare
a fondo
ogni dettaglio del suo aspetto e per ritrarre insieme ad esso anche
quello
dell’animo. Una forza più grande di lei la fece dissolvere e mescolarsi
all’essere del ragazzo. Adesso non era Lidia Dono, ma era lui. Ogni sua
emozione le apparteneva, ogni suo gesto lo comprendeva, ma la sua
presenza era
solo passiva non interferiva con la volontà del ragazzo in alcun modo.
Camminava lentamente tra sorrisi, chiacchiere,
passi
frettolosi e silenzi. I suoi occhi cupi e scuri avrebbero potuto
trovare
un’anima affine nelle acque del torbido lago, che lento scivolava dalla
profondità oscura dell’orizzonte fino alla costa, sulla quale colori e
suoni si
mescolavano in un tipico scenario notturno ed estivo. Tuttavia, il
ragazzo non
rivolse mai lo sguardo verso il lago. L’unico oggetto della sua
distratta, se
non del tutto assente, attenzione era il suolo del ponte che stava
attraversando. Manteneva le spalle curve per permettere alle mani di
restare
nelle tasche dei jeans scuri. Il cappuccio della felpa copriva i
capelli
disordinati e le cuffie, con le quali stava assordando la mente pur di
non
pensare e di scacciar via la rabbia, la solitudine e il senso di colpa
che lo
avevano tormentato negli ultimi giorni con particolare insistenza.
Avevano
messo radici salde e penetranti, martellavano, picchiavano la
coscienza,
facendo ora accelerare il passo, ora muovere il braccio in un gesto di
stizza.
Pochi passanti fecero caso al ragazzo, ancora meno
si
chiesero cosa gli passasse per la testa, ma nessuno si fermò a
chiederglielo.
Perché quel dolore? Perché quella rabbia continuava
a
scuotergli l’anima come se il dio della guerra fosse sceso a patti con
Nettuno?
Perché la rabbia veniva mitigata dal senso di colpa, ma non smorzava il
dolore?
E perché la solitudine lo faceva sentire così indifeso, così arrabbiato
e così
vuoto? Non c’erano né una risposta, né un vera causa. Sapeva solo che
gli
prudevano le mani, che le sue corde vocali erano in fiamme, perché
volevano
urlare contro il mondo e le persone che non gli avevano insegato a
comunicare,
a rendere più facile quel gioco fragile di parole.
L’unico momento di pace era durante un rissa. La
rabbia
scacciava il resto. Non c’era più posto per la ragione. Mentre
combatteva,
sentiva solo il respiro affannato, le ossa che si rompevano sotto le
sue
nocchie e un punta di insoddisfazione. Non aveva mai avuto difficoltà
nel
buttarsi nella mischia e darle di santa ragione a chiunque avesse avuto
il
fegato di irritarlo. Un occhiata storta, dei commenti poco apprezzabili
ed era
fatta: lo scontro iniziava. Neanche la rissa di quella sera si era
lasciata
supplicare per essere fomentata. Quel gruppetto sgangherato di soli tre
coetanei, appena uscito da un bar, lo aveva preso di mira non appena lo
vide
camminare lentamente sul marciapiede difronte.
“Ehi, amico! Come mai quell’aria truce?” Chiese con tono derisorio il ragazzo che sembrava il leader, mentre gli sfilava le cuffie. In pochi secondi si vide circondato e, sorridendo a quell’opportunità di sfogare la sua rabbia, sferrò un pugno al ragazzo che gli aveva rivolto la parola. Il setto nasale del ragazzo si spezzò sotto il colpo e il dolore lo costrinse a piegarsi in due, mentre le lacrime gli sfocavano la vista. Una volta a terra, infierì su di lui con un calcio sulla mandibola che lo fece sdraiare supino. Uno degli amici del ragazzo dolorante cercò di reagire e di sorprenderlo alle spalle, ma ormai quell’uragano di rabbia seppellita dentro di lui era stata liberata dal guinzaglio e non poteva più essere fermata. Alla fine non rimase altro che sudore, sangue e quell’odiosa insoddisfazione. Il ragazzo si rimise le cuffie alle orecchie e riprese a camminare sempre con la stessa andatura e sempre senza alzare lo sguardo, neanche quando aveva cominciato a piovere. A quel punto Lidia riprese possesso della sua identità e per la prima volta realizzò che lui gli ricordava il nuovo arrivato, Luca. Era un animale ferito, chiuso in una gabbia con nessuna consapevolezza di come uscirne. Una lacrima solcò le guance di Lidia e, al posto del ragazzo, per la prima volta in quella sera, guardò il cielo: era nero e carico di nuvole.