Penso che potrebbe essere
nostalgia, oppure malinconia, oppure affetto,
oppure tanti sentimenti tutti
insieme
(devi dividerli usando le
dita, altrimenti sono insopportabili)
Put your hand between an aching head
and an aching world
We’ll make them so
jealous, we’ll make
them hate us
Stare
dietro ai
propri fratelli non è mai cosa facile, soprattutto quando si
parla di persone
particolari come Ace e Rufy. Sabo saprebbe dirvi molto a riguardo
– ora sa
trattare benissimo con i bambini, Koala può testimoniarlo.
Quando
erano
piccoli ed erano ancora tutti e tre insieme, però, Sabo non
sapeva tutti i
trucchetti che ora conosce, li ha imparati col tempo e li ha affinati
sulla
pelle dei suoi due fratellini. Da questo punto di vista Rufy ed Ace
sono stati
un po’ le sue cavie, ma non gli hanno mai rinfacciato nulla
– non che ne
abbiano mai avuto il tempo, negli ultimi dieci anni.
In
una sera
estiva, quando il caldo era insopportabile, i tre fratellini decisero
di
trascorrere un po’ di tempo all’aperto, a guardare
le stelle. Osservare il
cielo di per sè non era difficile: magari era difficile
riconoscere le
costellazioni, quello sì; magari scoprire di che cosa
fossero fatte le stelle,
ecco, anche quello era impossibile, per loro. Ma c’era
un’altra cosa che era
estremamente complicata e richiedeva molto sforzo: era accettare il
cielo nella
sua interezza.
All’inizio
Ace lo
guardò senza tanto interesse, ma quando Sabo e Rufy non
accennarono a parlare,
decise di concentrarsi sui puntini bianchi che luccicavano
là sopra; li univa
con delle righe immaginarie e si inventava le costellazioni
più stupide,
ridacchiando di tanto in tanto.
Quando
fu notte
fonda accadde qualcosa in lui: le stelle non erano più solo
stupide lampadine
nel cielo, erano diventate degli altoparlanti che emettevano un suono
assordante. Era la sua solitudine, che lui aveva ricacciato dentro di
sè da
quando aveva trovato Sabo e Rufy; aveva trovato di nuovo un modo per
farsi
sentire dentro al suo cuore. Era come se per ogni battito la
consapevolezza di
essere solo nella propria testa e nel proprio animo cercasse di fargli
scoppiare le arterie.
Quelle
stramaledette stelle lo stavano facendo tornare pazzo: erano
lassù e gli
stavano dicendo che lui era come loro, che lui—lui era solo e
non poteva
comunicare davvero con nessuno.
Poi
sentì un
calore inaspettato sulla propria mano. Con lo sguardo risalì
dalle proprie dita
fino al braccio di Sabo, che gli stava sorridendo. «Ace, va
tutto bene?»
Ace
non gli
rispose subito. Preferì voltarsi dall’altra parte
prima di dirgli: «No.»
«Cosa
c’è che non
va?» Chiese Rufy, lanciandosi – praticamente
– su di lui.
«E
lasciami,
Rufy!»
«Ehi,
ehi, ora non
litigate,» esclamò Sabo, nel suo tono
più diplomatico, «calma. Possiamo
aiutarti in qualche modo?»
«Le
stelle—non
voglio più guardarle. Io me ne vado.»
E
stava per
alzarsi, sul serio. Ma Sabo fu più veloce. Come Rufy, Sabo
gli si lanciò
addosso e mise una mano sulla fronte di Ace e l’altra sul suo
petto,
all’altezza del cuore.
«Vieni,
Rufy,»
disse poi, «fai come me. Una mano sulla fronte e una sul
cuore, come ho fatto
io.»
Ace
era piuttosto
sorpreso – o sconvolto, a onor del vero. Rufy, tutto
contento, imitò il suo
fratellone biondo, che nel frattempo si era sistemato comodo comodo con
la
testa al fianco della zazzera scura di Ace.
«Chiudi
gli occhi,
Ace.»
Ace
li chiuse, ma
era terrorizzato – e poi Sabo, come al solito, aveva le mani
caldissime. Aveva
paura perché si sentiva terribilmente scoperto, come quando,
a nascondino, lui
si mimetizzava come un camaleonte, eppure Rufy riusciva sempre a
scovarlo.
«Ace,
tu non sarai
mai da solo. Certo, ognuno è da solo nei propri pensieri, ma
se penserai a Rufy
o a me, promettiamo che riusciremo sempre a farti sentire insieme a
noi. O mi
sbaglio?»
«No,
Sabo, non
sbagli. È una promessa!» E Rufy
ridacchiò, felice. «È vero che siamo
tutti
soli: come faccio a sapere che il colore che vedi tu è lo
stesso che vedo io?
Come faccio a sapere se il sapore che sento io è lo stesso
che senti tu? Non
posso saperlo. Ma sarò qui ad ascoltarti quando me ne vorrai
parlare,
fratellone!»
«Rufy
ha ragione.
Quando ti sentirai triste o solo, metti una mano tra te e il resto del
mondo e
pensa alle persone che ti rendono felice. Ai posti che ti mettono di
buonumore.
Ai profumi che ti fanno venire voglia di mangiare.»
A tutto quello che ti fa venire voglia di
vivere.
Rimasero
in
silenzio a lungo. Poi Ace mise le proprie mani su quelle dei suoi due
fratelli,
sul cuore. Prese un profondo respiro che gli fece rivoltare lo stomaco
come una
tempesta fa capovolgere una nave. «Il mondo fa
male,» sussurrò, «non riesco a
guardare il cielo e ad essere in pace. Come si fa? Come ci
riuscite?»
«Io
ci convivo,»
rispose Sabo, «ma fa male lo stesso.»
«Nelle
stelle io
vedo il mare,» rispose Rufy, «e allora penso a
quando saremo pirati e saremo i
più liberi di tutti. Il cielo non mi fa male!»
«Tu
sei solo un
bugiardo, il cielo fa male a tutti!»
«Non
è vero! Sei
sempre così cattivo con me, Ace!» Rispose Rufy,
mettendo su il broncio. «E poi
è il mondo che è malato, non io! Io non ho la bugigite!»
Ace
non ebbe
bisogno di aprire gli occhi per sapere che stava piangendo –
che anche Rufy e
Sabo stavano piangendo. Non per la tristezza, ma per la condivisione di
qualcosa di inesplicabile, che taglia il cuore con un coltello
seghettato, che
lascia l’amaro in bocca come una chitarra che spezza i suoni
a metà.
Quei
tre
marmocchi, inconsapevolmente, si erano trovati di fronte alla bellezza
mozzafiato dell’infinito e
all’impossibilità di comunicare perfettamente
quello
che si prova e si pensa. Non c’è un metodo
collaudato per sbloccarsi dallo
stallo in cui si cade davanti a un sentimento impronunciabile. Esiste
la voce,
esiste la musica, esiste la pittura, le arti esistono perché
c’è un ingranaggio
segreto, nel cuore delle persone, che davanti al mondo intero si
inceppa e
blocca qualsiasi pensiero razionale. Esiste l’amicizia;
esiste il rapporto che
Ace ha con Rufy e con Sabo – un rapporto che non ha un nome
preciso, ma è
fortissimo e trascende ogni difficoltà.
Esistono
emozioni
che è impossibile definire, in qualsiasi lingua del mondo. A
volte si mostrano
come una sorta di nostalgia, a volte come struggimento, a volte come
feroce
mancanza. Si mostrano come una finestra da aprire, che una volta
spalancata fa
entrare un intero dannato universo nella stanzina del proprio animo, e
l’impatto tra un nuovo cosmo e le pareti del proprio io
è tale da soffocare il
respiro.
Il
modo che Rufy e
Sabo avevano per sbloccare Ace era fargli sentire che non era da solo
– o
meglio, che l’essere soli era condiviso da tutti loro.
Piansero
a lungo.
«Senti,
Ace,»
sussurrò poi Rufy, mezzo addormentato, «ma se il
cielo ti fa questo effetto,
come farai, quando sarai per mare?»
Ace
tirò su col
naso – odiava piangere. «Non sarò da
solo.»
Sabo
sorrise e si
strinse ai suoi due fratellini.
Rufy
avrebbe
incontrato presto i suoi compagni e amici a Sabaody dopo due anni di
lontananza.
L’idea lasciava l’impronta di un sorrisone sulla
sua faccia – con grande gioia
di Boa Hancock.
«Sono
l’ultimo.
Come al solito Sabo e Ace mi hanno lasciato indietro, ma questa
volta—questa
volta è un bene che io sia ancora qua.»
I
suoi due
fratelloni erano stati i fratelli migliori che avesse mai potuto
desiderare.
Gli avevano insegnato così tanti modi per scacciare la
tristezza e tutti quei
sentimenti malinconici che ogni tanto cercavano di chiudergli la bocca
dello
stomaco!
Sì,
perché quando
Rufy è da solo (quando non c’è nessuno
attorno) e sente che qualcosa sta
cedendo, che quell’ingranaggio, per colpa del cielo o del
mare o del mondo
intero che è malato, sta per incepparsi; ecco, allora Rufy
mette una mano sulla
fronte e una sul cuore e pensa a Ace e Sabo. Pensa a tutti i giorni
durante cui
ha avuto la fortuna di vivere con loro. Li ringrazia, sorridendo, a
volte
piange, a volte non ce n’è bisogno, ma riesce
sempre a trasformare quel grumo
di sentimenti incomprensibili nella voglia di vivere più
pura a cui riesce ad
arrivare.
Quando
Rufy perde
di vista se stesso e si trova in un momento di dubbio o di stallo, i
suoi due
fratelloni riescono sempre a ricondurlo in un angolino sicuro del suo
animo: lo
acchiappano per i capelli, lo riportano a casa,
lo abbracciano e cominciano a dirsi una serie di parole che
probabilmente non
hanno senso, ma che gli fanno sentire che hanno condiviso insieme tante
cose;
così tante, al punto che stanno condividendo ancora assieme
la nostalgia –
benché loro siano morti e lui sia ancora lì,
lasciato indietro nel mondo malato
dei vivi, malato ma bellissimo.
Ammalato
e
bellissimo, forse ci sono parole migliori per descrivere il mondo, ma
Rufy non
le conosce.
Note Autrice:
Oh,
non so come
sono arrivata a scrivere questa storia. Cioè,
l’ispirazione
è stata “It’s Not a Side Effect of the
Cocaine, I Am Thinking It Must Be Love”,
come al solito dei Fall Out Boy. È
una canzone che mi piace moltissimo: sinceramente non so se ho reso
giustizia
alla voce di Patrick e al testo di Pete, ma pace, questo è
venuto fuori, e a me
non dispiace.
Il
tema
dell’incomunicabilità di certi sentimenti
è qualcosa su cui ho già ragionato in
altre storie (e nella mia tesina, anni fa. La vecchiaia!). Lo trovo
estremamente affascinante e difficile. Combinarlo poi con questi tre
marmocchi
non è facile e temo di scadere continuamente nel banale
– in realtà non c’è
nulla di banale nei sentimenti, però... è una mia
sensazione.
Quello
dell’essere
da soli nella propria mente è una delle idee alla base dei qualia. Sono concetti molto interessanti
– se ne avete voglia, date
un’occhiata su Wikipedia o sulla Treccani, credo che entrambe
saranno in grado
di darvi notizie migliori di quelle che potrei darvi io. C: (Poi io ho
una
relazione di odio profondo con la filosofia, quindi... non sono una a
cui
chiedere. Ehm.)
Rufy
è una persona
adorabile e sa che il mondo è bello perché
è avariato.
Spero—spero
di
avervi emozionato.
Il
titolo – il
titolo credo che, in qualche maniera, si spieghi da solo. Spero che non
abbia
spaventato nessuno, sinceramente, visto quanto è lungo, lol.
Grazie
per aver
letto. C:
claws_Jo
Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Eiichiro Oda; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.