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Autore: MaiaWarren    29/10/2015    5 recensioni
Maia Warren è una ragazza diciassettenne di Seven Sisters, un quartiere nella periferia di Londra, dove risiede insieme a suo fratello e a sua madre. Maia è cresciuta come un’adolescente introversa e insicura essendo sempre stata vittima di bullismo da parte dei suoi compagni, invidiosi principalmente della sua straordinaria intelligenza. Inoltre ha perso tragicamente suo padre, assassinato in dubbie circostanze, e per questo diffida degli altri ed è spesso paranoica. La sua vita trascorre abbastanza tranquilla cercando di lasciarsi alle spalle il dolore del passato concentrandosi principalmente sulla scuola, sulla famiglia, e passando il tempo con la sua migliore amica, Audrey Lambert, che oltre a starle vicino essendo una dei pochi che l’ha sempre accettata per come è, cerca anche di conquistare il cuore del ragazzo più ambito fra le adolescenti del luogo, Christopher. L’apparente equilibrio che sembra aver finalmente raggiunto nella sua vita, è però destinato a non durare a causa di strani eventi che si verificheranno, a partire dai suoi ambigui sogni, alle visioni, e alla conoscenza della misteriosa Elektra, grazie alla quale comincerà a prendere piena consapevolezza di se stessa e degli uomini delle stelle …
Genere: Introspettivo, Science-fiction, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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BLUE MIND
L’alba del destino

 
 
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SI RICOMINCIA.

 
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Era inutile, qualsiasi posizione sperimentassi per stimolare il sonno non aveva alcun effetto. Da circa un’ora andavo avanti in quel modo ormai, e ad un certo punto avevo solo una gran voglia di alzarmi da quel dannato letto e urlare, così mi sarei tolta di dosso almeno un po’ di quell’ansia che mi assaliva al pensiero che domani sarei dovuta tornare a scuola. Sì era questo il motivo per cui tutto ad un tratto avrei preferito sparire nel nulla, senza possibilità alcuna di esser rintracciata, perchè per me significava dire addio alle mie giornate tranquille. Le vacanze estive passavano sempre così in fretta, lasciandomi l’amaro in bocca ogni volta che il ricordo di quegli attimi felici si faceva spazio prepotentemente nella mia testa, per poi farmi rimpiangere ogni singolo istante passato fuori dalle pareti di quell’edificio. Avrei dovuto di nuovo guardarmi le spalle da tutta quella gente, avere di nuovo a che fare con tutto quel risentimento che avevano nei miei confronti. Io non ero diversa da loro, non mi sentivo diversa, eppure trovavano sempre il pretesto per emarginarmi e umiliarmi quasi come fossi stata una fiammella che andava spenta prima che potesse ingrandirsi e recar danno a tutto ciò che le si trovava intorno.  Ero già consapevole che sarebbe andata di nuovo a finire così, non vedevo affatto alcuna ragione per illudersi che quest’anno tutto sarebbe cambiato, perché era ciò che accadeva esattamente ogni anno da quando cominciai a frequentare la scuola in generale. A nulla erano valsi tutti i miei tentativi passati e presenti per farmi accettare, e un essere umano normale avrebbe dovuto gettare la spugna, imponendosi di trovare serenità altrove, lontano da quella vecchia vita che non cessava mai di metterti duramente alla prova. Ma il punto era proprio questo. Io non ero affatto un essere umano normale.

L’unica cosa che riusciva a darmi ancora un po’ di forza per andare avanti e non scappare, oltre a quel che restava del mio orgoglio calpestato e tormentato, era il sapere di avere al mio fianco la mia migliore amica Audrey. Quando trascorrevamo il tempo insieme sembrava che tutti i miei problemi e tutte le mie altre afflizioni sparissero nel nulla, quasi come se non fossero mai esistite o le avessi solo immaginate. Lei infatti era una di quelle poche persone che riusciva sempre a capirmi anche nelle più svariate circostanze, e forse era dovuto al fatto che dopotutto siamo caratterialmente molto simili. L’ho sempre considerata come la sorella che non ho mai avuto, persino con mio fratello non sono mai riuscita ad andare così d’accordo! Insomma, se non l’avessi mai conosciuta, probabilmente mi sarei sentita persa già alle prime difficoltà che avrei dovuto affrontare.

Alla fine fra un pensiero e l’altro quell’interminabile notte riuscii finalmente a trovar sonno. Prima di addormentarmi non avevo nemmeno guardato che ore fossero, malgrado tutto non avevo il coraggio di vedere quanto avessi fatto tardi. La notte trascorse inspiegabilmente tranquilla, nessun rumore, nessuna preoccupazione, ricordo unicamente che mi svegliai nel pieno di un avventuroso sogno su un campo coltivato illuminato da un’accecante anonima luce, ma purtroppo rammentai solo quell’insignificante particolare. Per buona sorte ero riuscita se non altro ad alzarmi in orario, di solito avevo il sonno pesante e non sentivo mai la sveglia, ma chi può dirlo, forse questo era davvero il mio giorno fortunato, lo affermavano anche  i tarocchi che avevo consultato il giorno prima.

Dopo aver fatto una modesta colazione, per prepararmi non ci misi chissà quanto visto che non dovevo perder ulterior tempo anche nel scegliere il vestiario del giorno. Questo perchè la mia era una scuola privata ed era d’obbligo indossare l’uniforme che per noi ragazze consisteva nel classico completo giacca nera, che all’occorrenza poteva essere rimpiazzata da un maglione, sempre nero, camicia bianca, cravatta, e gonna in tinta con la giacca. La differenza fra la nostra divisa e quella dei ragazzi erano solo ed esclusivamente i pantaloni. La ritenevo una grande fortuna poterci vestire tutti allo stesso modo perché non avevo vestiti all’ultima moda, i miei indumenti tipo erano essenzialmente comodi e poco appariscenti. Ma non lo erano per caso. Il fatto non era che io odiassi la moda, certo non è che me ne importasse chissà quanto di non aggiornarmi come le altre al passo coi tempi che correvano, ma il vero motivo fu che tutto era calcolato per un particolare scopo; meno mi avrebbero notato e meglio era. Inoltre al contrario delle mie coetanee, non perdevo neanche molto tempo a truccarmi, giusto nelle occasioni speciali mi dilettavo un po’ a migliorare il mio look con quelle quattro cose che avevo, ma solitamente uscivo quasi struccata. In poche parole ero una di quella che non seguivano la moda, e mi piaceva ancor meno truccarmi, tanto non dovevo far colpo su nessuno, perché nessuno aveva mai fatto colpo su di me.

L’unica cosa a cui davo un po’ più di attenzione erano i capelli, neri come la pece, che portavo talmente lunghi ed erano così lisci che erano in perfetto contrasto col viso, a forma di cuore e dalla pelle candida, incorniciato da un paio d’occhi azzurro cielo dal taglio orientale. Quel che veniva fuori da questo miscuglio era un perfetto Yin e Yang, un po’ come lo era anche la mia personalità. Dopo essermi acconciata alla bell’e e meglio con una semplice coda alta, la pettinatura che più mi appagava e che mi permetteva di non far apparire la mia folta chioma come una specie di coperta, che comunque mi sarebbe stata utile per nascondermi da occhi indiscreti, indossai il parka verde militare mi misi lo zaino in spalla e mi chiusi la porta di casa alle spalle senza far troppo rumore.

Anche mio fratello sarebbe dovuto uscire di li a poco, ma conoscendolo lui si alzava sempre dopo i fuochi ed arrivava abitualmente in ritardo. Frequentavamo la stessa scuola e lo stesso anno, l’ultimo per l’esattezza, ma facevamo parte di case diverse poichè io stavo con l’Aldrin e lui con la Collins. Erano rare le volte in cui ci andavamo insieme, proprio per questa sua brutta abitudine. Mia madre invece non era ancora sveglia, ed era del tutto normale visto che si stava godendo la sua prima giornata di ferie, al contrario mio che invece non sarei più stata libera almeno per un bel po’, e non mi riferivo di certo allo studio. Lei non sapeva che ero vittima di bullismo, sono sempre stata brava a nasconderle quello che passavo durante l’anno scolastico. Questo perchè ero consapevole che dopo la morte di mio padre si era ritrovata sommersa da tante responsabilità che prima condivideva con lui, e la sua precoce mancanza l’aveva fatta soffrire così tanto che era ancora in terapia da una psicologa. Non avrei mai potuto sopportare di poter essere anch’io una delle cause della sua sofferenza. Quella era la mia battaglia e avrei dovuto combatterla da sola.

Quel giorno fu forse uno dei più soleggiati fra tutti i due di settembre di cui avevo memoria, erano da poco passate le otto ma c’era già così tanta luce che non sembrava nemmeno di stare in Inghilterra. Stonebridge Road non solo appariva diversa ma anche meno monocromatica del solito! Nonostante la bella giornata però, erano ancora evidenti i segni dell’acquazzone del giorno prima. La mia macchina, una Chevrolet Spark nera, parcheggiata all’uscita del vialetto di casa e affiancata sul retro da quella di mia madre, una Ford Station Wagon di colore grigio metallizzato, unici ed ultimi “gioielli” di famiglia ereditate entrambe da mio padre dopo la sua morte e sopravvissute alla svendita totale di quasi tutti i nostri beni per permetterci di ricominciare la nostra vita in tre, non era scampata per niente a tutta quell’acqua, ed anzi erano più che evidenti i segni della pioggia sulla vernice nera, e le foglie appiccicate sul parabrezza. Avrei fatto volentieri a cambio con la sua macchina, che stranamente era ancora linda e pinta, ma purtroppo a diciassette anni non mi era permesso, secondo l’ordinamento britannico, di guidare auto di grande cilindrata. Per questa volta sarei dovuta partire con la macchina ridotta in quello stato.

Prima di partire, ed anche durante la guida, avevo sempre l’abitudine di mettere musica house, lo facevo soprattutto per coprire i pensieri che a volte, e forse come frutto della mia fantasia, li percepivo fin troppo rumorosi. E cosa c’era di meglio di musica rumorosa per coprire pensieri rumorosi? Non si può certo dire che era il tipo di musica che si addiceva a una ragazza dall’aspetto fine e delicato come il mio, e tra l’altro nemmeno mi piaceva poi così tanto non essendo assidua frequentatrice di discopub e discoteche, ma non so perché la trovavo orecchiabile in quelle occasioni; e dopo aver rischiato di passare la notte in bianco, proprio a causa dei miei stramaledetti pensieri, direi che quella era esattamente una di quelle occasioni per scacciarli a suon di frastuono.

Dopo aver messo in moto ed essermi immessa nel traffico cercai di arrivare lentamente a destinazione dato che ero in perfetto anticipo, e poi anche se avessi avuto fretta non avrei potuto lo stesso sbrigarmi più di quanto non volessi, visto che si erano già formati parecchi ingorghi. La mia scuola, l’Armstrong High School, era piuttosto lontana da casa mia, si trovava in pieno centro di Londra mentre io abitavo molto più in periferia, nel quartiere Seven Sisters, che si trovava nella zona nord est. Anche tutte le altre scuole che avevo frequentato fino ad allora erano situate sempre a svariati chilometri da casa mia, dunque ero senz’altro abituata a questo estenuante via vai, tant’è che la cosa quasi non mi pesava più così tanto come quand’ero bambina. Ma al di là di questo piccolo inconveniente ero più che soddisfatta di poter frequentare proprio quella scuola, perché era quello che mio padre aveva sempre desiderato per me e per il mio futuro, poiché una volta diplomata, avrei trovato le porte aperte delle migliori università del Regno Unito. Anche lui si era diplomato li, e tuttora veniva ricordato come uno dei migliori alunni che avesse mai messo piede in quella struttura, quindi ero onorata di poter seguire le sue orme, e volevo a tutti i costi che un giorno, ovunque lui si trovasse, sarebbe stato fiero di me.

Arrivata nelle immediate vicinanze, parcheggiai la macchina in una via posta pressappoco in prossimità dell’istituto e da li proseguii a piedi verso l’entrata della scuola. Erano più o meno le otto quando scesi di casa, impiegando all’incirca quindici minuti per arrivare a destinazione, ma mancavano ancora la bellezza di trenta minuti al suono della campanella. Sicuramente molti altri alunni dovevano ancora arrivare, mio fratello pienamente compreso causa i suoi ritardi cronici, quindi avevo deciso di dare un’occhiata da fuori e se la situazione lo permetteva, avrei trascorso l’attesa a modo mio, anziché avere lo “straordinario piacere” di veder arrivare Penny e i suoi discepoli scortati, naturalmente, dai loro autisti che ormai non potevano nemmeno più essere considerati tali, visto come venivano schiavizzati alla grande dai soggetti in questione.

Come sospettavo infatti nel cortile non c’era anima viva, eccetto alcuni ragazzini che a giudicare dalla pallidezza dei loro volti e dalle divise ben sistemate e in ordine, come nessun altro ragazzo più grande avrebbe mai indossato, dovevano essere sicuramente delle matricole del primo anno. Avevo quindi tutto il tempo che volevo per andare allo Starbucks Coffee, dove credevo, anzi ne ero sicura, che avrei incontrato Audrey, perché questo era indubbiamente ciò che faceva parte delle nostre routine giornaliere di tutti i primi giorni di scuola. Avevamo entrambe la superstizione che non si iniziava bene l’anno scolastico se il primo giorno non avremmo avuto la nostra buona dose di muffin e ciambelle. Al diavolo la dieta, tanto nessuna delle due aveva mai preso un solo chilo in diciassette anni di vita, ma questo ce lo tenevamo rigorosamente per noi. A parer mio avevamo già abbastanza iella addosso. Percorsi il breve tratto che mi conduceva al locale ascoltando la musica dal mio cellulare con le cuffiette, rischiando non poche volte di scontrarmi contro l’accozzaglia di impiegati che correvano in lungo e in largo ognuno diretto al proprio ufficio. Giunta alla meta, non appena aprii la porta dell’ingresso, rimasi sorpresa di quanta poca gente ci fosse, di solito la mattina e in particolar modo a quell’ora, ci si poteva ritenere fortunati se capitava di riuscire a prendere l’ordine e trovare anche un posto a sedere senza aver ricevuto gomitate o spallate.

L’unico problema era che fra quei pochi presenti non mi sembrava affatto di scorgere anche la chioma bionda e ribelle della mia amica, nè ai tavoli nè al banco delle ordinazioni. Forse si era svegliata tardi e aveva deciso di andare direttamente a scuola, ma era strano che succedesse proprio a una persona puntuale e diligente come lei. Era più probabile che succedesse a una con la testa fra le nuvole come me.

Ciò nonostante, dato che ormai mi trovavo li, mi avrebbero preso per matta se fossi entrata e uscita come se non sapessi io stessa cosa stessi facendo, tanto valeva prendere la palla al balzo, così infine presi lo stesso il mio ordine che contrariamente alle mie previsioni questa volta consisteva in un semplice cappuccino sul cui bicchiere il mio nome, tanto per cambiare, fu scritto anche sbagliato. Che orrore, mi ritrovai a leggere Maia con la “y”. In altre parole, ero delusa per il fatto che Audrey mi avesse dato così sfacciatamente buca, e quel semplice cappuccino rispecchiava in pieno il mio stato d’animo, aggiornato al passivo. Ero sicura che non lo avesse fatto di proposito, ma mi sentivo terribilmente giù di morale a dover seguire la nostra tradizione da sola. Anche se avesse avuto un contrattempo avrebbe potuto almeno avvertirmi!

Non sapevo più cosa pensare, e proprio quando mi stavo scervellando sulle più svariate e inimmaginabili cause della sua assenza, ecco che i miei occhi si posarono su un ragazzo che aveva appena messo piede nel locale. Era un ragazzo che sembrava avere circa la mia età e che indossava anche la stessa divisa della mia scuola, ma che comunque non mi era mai capitato di vedere da queste parti, e in primis nella mia scuola, doveva trattarsi sicuramente di un forestiero. Rimasi molto colpita, dire che era bellissimo non era niente, era alto e con il fisico palestrato che ben si scorgeva sotto quell’uniforme così coprente che dava ampio spazio all’immaginazione, aveva i capelli lisci di un colore che si avvicinava molto al castano dorato, e li portava tutti spettinati verso destra in un modo che solo a lui poteva star bene! Per non parlare del viso, il naso dritto, le mascelle scolpite, le labbra carnose, gli occhi marroni e intensi, e quello sguardo serio e autoritario, che gli conferiva un aria terribilmente attraente e ben più matura della sua reale età. Le mie fantasie tuttavia si sciuparono in un battibaleno.

A giudicare da come se ne infischiò della fila dirigendosi direttamente al bancone  doveva essere proprio un tipo egocentrico e menefreghista. Rimasi di stucco quando i presenti non fecero neanche nulla per impedirglielo, limitandosi addirittura a spostarsi per farlo passare, ma chi diavolo si credeva di essere per comportarsi così? La faccenda si stava facendo talmente interessante che presi ad osservare attentamente la scena  che mi si poneva dinanzi agli occhi. Quando arrivò davanti al ragazzo delle ordinazioni proferì parola per dire solo «Il solito.», e quello gli obbedì come un cagnolino, senza nemmeno dirgli di rispettare la fila, rispondendogli con un sonoro «Certo signor Connor.» Ci mancava solo un “Si signore!”. Aspetta, Signor Connor? Ora mi era tutto più chiaro. Quello era sicuramente Hank Connor, figlio del miliardario Richard Connor. Avevo sentito molto parlare di lui, e dei suoi modi da ragazzino viziato, soprattutto riguardo al gossip che girava sul suo conto, ma non lo avevo mai visto in faccia prima d’ora, per questo non lo riconobbi. A quanto pare quel ragazzo così dannatamente bello era un pallone gonfiato che si dava tante arie solo perché era un figlio di papà a cui tutto era concesso. Già mi dava sui nervi, e speravo con tutta me stessa di non averci mai a che fare con uno così. 

CONTINUA CON LA SECONDA PARTE DEL PRIMO CAPITOLO.

 
   
 
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