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Autore: Miriel_93    30/10/2015    2 recensioni
Per poter andare avanti, bisogna riuscire prima a far pace con il proprio passato.
Solo allora il futuro si snoderà davanti ai nostri piedi.
Nota (su consiglio di Solandia -> thank you very very very much): la mia ff si basa principalmente su quanto accade nell'anime dato che, purtroppo, ancora non sono riuscita a leggere tutto il manga per mancanza di tempo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo ventiquattro

-parte seconda-

Kaoru
Che ore sono?
Avverto un suono fastidioso, quasi un lamento, che mi fa arricciare il naso. Mi rendo conto di essere in uno stato di dormiveglia disturbato da un rumore molto vicino. A fatica apro un occhio e mi rendo conto che quel lamento proviene da Kenshin.
Mi giro su un fianco, osservandolo con aria perplessa. Non voglio dire che mi sembra strano che stia sognando, ma l’ho sempre considerato così composto e così stoico che vederlo mugugnare nel sonno come un bambino indifeso mi lascia un po’ incredula.
Sembra davvero un brutto sogno.
«Kenshin…», sussurro, sfiorandogli delicatamente un braccio. Il mio gesto lo fa scattare seduto come una molla. Lo vedo portare istintivamente la mano verso il fianco, in cerca dell’elsa della Sakabatō che, fortunatamente, non c’è. Ritraggo velocemente la mano, rannicchiandomi di lato, presa alla sprovvista e anche un po’ spaventata.
«Mi…mi dispiace», mormora Kenshin, appena si rende conto della situazione, prendendosi il viso tra le mani.
«Va tutto bene», rispondo, sbattendo velocemente le palpebre nel tentativo di riprendermi dalla sorpresa. «Ti stavi lamentando nel sonno e ho immaginato che stessi avendo un incubo», spiegai a mo’ di scusa.
Kenshin sospira con aria rassegnata, quasi sapesse che sarebbe successo.
«Vuoi…parlarne?» Tento, impacciata, recuperando terreno e avvicinandomi a lui.
«Non…non credo sia il caso», risponde, scuotendo leggermente la testa e rivolgendomi un sorriso amaro. Credo di aver intuito.
«Va tutto bene», lo rassicuro, appoggiandogli una mano sulla spalla con fare protettivo, come a volergli ricordare che non sarà mai più da solo. Lui si volta a guardarmi, con un sorriso sulle labbra che quasi mi mozza il fiato.
«Lo so», risponde e io, rincuorata, appoggio la fronte alla sua spalla, sospirando.
Quando sollevo lo sguardo, gli occhi di Kenshin sono lì, pronti ad incontrare i miei. Mi allungo verso il suo viso, fino a posare le mie labbra sulle sue. Sembra quasi che abbiano un sapore diverso.
Non so perché, ma è come se non potessi più allontanarmi da quella bocca dolcemente familiare. A ogni bacio ne segue un altro in una successione che sembra in grado di protendersi all’infinito.
Sento la mano di Kenshin nascondersi tra i miei capelli, attirandomi leggermente verso di lui, come se temesse che potessi porre fine a quel contatto.
Non so nemmeno io quello che sto facendo e, al tempo stesso, ne sono pienamente consapevole.
Circondo il collo di Kenshin con le braccia, mi aggrappo a lui, come a volergli rispondere: “non me ne vado da nessuna parte, resto qui”.
Kenshin mi afferra per i fianchi con delicatezza e decisione e io, istintivamente, mi stringo a lui.
Con la punta delle dita esploro la pelle appena oltre il colletto dello yukata. Sento Kenshin rabbrividire quasi impercettibilmente e questo mi provoca un’inaspettata sensazione di compiacimento. Subito dopo, però, lo sento irrigidirsi.
Sulle prime faccio finta di niente, ma quando Kenshin si allontana dalle mie labbra, con il fiato leggermente corto e uno sguardo vagamente preoccupato, non posso fare a meno di inclinare la testa di lato, cercando di capire.
«Va tutto bene?» Domando, mentre il dubbio di aver fatto qualcosa di sbagliato – ma cosa? – si fa strada nella mia mente.
«Sì…ma è meglio se torniamo a dormire», mi risponde, senza sciogliere il nostro abbraccio. Lo guardo con aria interrogativa, senza capire. Qual è il problema?
«Non capisco…», comincio, finché, da qualche parte nella mia testa, un campanellino tintinna, producendo un suono chiaro e limpido. Che stupida sono. «Oh», mormoro, stupita. Kenshin si schiarisce appena la voce, leggermente a disagio. E io mi sento arrossire.
Eppure, nonostante l’imbarazzo, non voglio allontanarmi da lui e rimettermi a dormire come se nulla fosse.
Mi schiarisco la voce a mia volta, prima di farmi coraggio e parlare.
«Kenshin, se…»
«No», mi interrompe, con un tono dolce ma deciso. «Te l’ho già detto, non c’è bisogno di forzare le cose. Quando sarai pronta…»
«E se io fossi pronta?» Questa volta sono io a interromperlo, con le guance in procinto di prendere fuoco.
Rimaniamo in perfetto silenzio per qualche istante. Posso quasi sentire il mio cuore battere rumorosamente nel petto.
«Non puoi aver cambiato idea nel giro di una manciata di ore…», protesta Kenshin, deciso a rispettare la parola data e a farmi ragionare.
«Lo so…però…», tento, senza sapere nemmeno io che cosa dire. Ha ragione, è assurdo che fino a poche ore fa tremassi anche solo al pensiero di dormire nella sua stessa stanza, mentre ora cerco di convincerlo che sono pronta a fare l’amore con lui. È assurdo…però…non so come spiegarlo, ma sento di esserlo, di essere pronta. Ci sono cose che non possono essere spiegate a parole.
«Non c’è fretta», mi ripete, sfiorandomi una guancia con la punta delle dita. Quel gesto dolce, delicato e premuroso mi scatena dentro una lieve ondata di indignazione. Mi sta trattando come una bambina. Lo so che me la sono cercata, ma ho deciso. Io voglio essere sua moglie, la sua donna. Non una sposina spaventata e infantile.
«Kenshin, dico sul serio», insisto, coprendogli la mano che tiene sulla mia guancia con la mia. Lo guardo negli occhi con aria decisa. Ad essere sincera un po’ di paura ce l’ho, ma so che di lui posso fidarmi ciecamente.
Kenshin mi guarda, studia il mio sguardo, cerca di prendere una decisione. Lo vedo, glielo leggo nel blu dei suoi occhi che è confuso, combattuto, anche un po’ spaventato.
Allungo il viso verso di lui, sfiorandogli delicatamente le labbra con le mie.
Sento che sta per scoppiarmi il cuore.
Kenshin – mio marito – ricambia il mio bacio, ma è titubante.
Mi allontano da lui, increspando le sopracciglia mentre scandaglio le profondità marine dei suoi occhi.
«Sei sicura?» Mi chiede, facendo lo stesso, cercando delle incertezze nel mio sguardo.
Annuisco, stringendo appena la mano che mi tiene ancora posata sulla guancia.
«Sei proprio sicura?» Incalza, fissandomi negli occhi con più insistenza.
«Sì», sussurro decisa, senza evitare quel suo sguardo indagatore.
Stavolta sono le sue labbra a sfiorare le mie. Mi bacia dolcemente, con delicatezza, come se volesse lasciarmi altro tempo per cambiare idea. Ma io, imperterrita, mi aggrappo a lui, cerco di spiegargli che sì, sono davvero sicura.
E, forse, stavolta ci riesco.
Le mani di Kenshin si spostano di nuovo sulla mia vita, mi stringono al suo corpo.
Torno a circondargli il collo con le braccia, con il cuore che martella insistentemente nel bel mezzo del mio petto.
Dopo un tempo indefinito, le mani di Kenshin cominciano ad armeggiare delicatamente con l’obi che chiude il mio yukata, sfilandomelo lentamente.
Mi ritrovo a trattenere il fiato mentre il fruscio lieve prodotto dall’accasciarsi del mio yukata sui tatami increspa l’aria.
Sono di nuovo nuda, e stavolta sotto gli occhi attenti di Kenshin.
Arrossisco lievemente, ma invece di coprirmi imito i suoi gesti, liberandolo dallo yukata. Mi sento un po’ goffa, ma cerco di ignorare quella sensazione.
«Kaoru…», inizia Kenshin, tentando per l’ennesima volta di farmi capire che non sono obbligata.
«Sono sicura, Kenshin. Davvero», ripeto, dolcemente, prendendogli il viso tra le mani.
«Shinta», risponde lui e io mi ritrovo a fissarlo in volto con aria interrogativa. «Kenshin è il nome che mi ha dato il mio maestro, Seijūrō Hiko. Il mio vero nome è Shinta», mi spiega, con un sorriso leggero. «Sosteneva che fosse un nome troppo dolce per un guerriero, così me ne ha dato un altro», aggiunge, mettendo a nudo anche la sua anima.
«Shinta…», dico, assaggiando quel nome, cercando di associarlo al suo viso, alla sua coda di capelli rossi, alla cicatrice che gli solca il viso, a quegli occhi profondi come l’oceano.
Mi ci perdo, in quegli occhi.
Perdo contatto con la realtà, comincio a galleggiare in un mare solcato da onde immobili, attraversato di tanto in tanto da nastri rossi che mi accarezzano il viso.
Un istante sono seduta davanti a Kenshin, davanti a Shinta, e l’istante dopo la mia schiena poggia sul futon.
Kenshin, Shinta, mi sovrasta, guardandomi negli occhi. C’è una luce strana in quelle due perle blu, una scintilla che mi fa accartocciare lo stomaco in maniera quasi dolorosa.
Lo vedo prendere fiato per parlare e comincio a scuotere il capo, sorridendo.
Ti prego, non dire nulla. Non chiedermi di nuovo se sono sicura. Non farlo.
«Sssh», mormoro, prendendogli il viso tra le mani, allungandomi in cerca delle sue labbra, stringendo a me il suo corpo.
La sensazione della sua pelle sulla mia mi fa girare la testa.
Sento il suo corpo insinuarsi nel mio, farsi strada con delicatezza e decisione, ritagliandosi il suo spazio dentro di me.
Nascondo il viso contro la sua spalla, mordendomi il labbro inferiore.
Fa male.
Brucia.
Pare proprio che anche il mio corpo voglia assicurarsi che io sia convinta della mia scelta. Mi mette alla prova, mi chiede di dimostrare la mia determinazione. Ma ci vuole più di questo, per farmi cambiare idea.
«Scusa…», ansima la voce di Kenshin al mio orecchio, dispiaciuta per quell’effetto collaterale tanto naturale. Il mio viso riemerge dall’incavo del suo collo e ondeggia prima verso destra, poi verso sinistra. No, niente scuse.
«Va bene così», gli assicuro, in un soffio, rivendicando quelle labbra tanto premurose.
Pochi istanti di esitazione, il tempo di far accettare al mio corpo quel nuovo stato di cose e Kenshin, o Shinta, quasi avesse recepito il messaggio, comincia a muoversi sopra di me, dimenandosi dolcemente nell’abbraccio in cui l’ho imprigionato.
Il dolore è sparito. Completamente. Se n’è andato e ha lasciato il posto a un piacere sottile, invitante, che serpeggia nel mio essere come la nebbia che s’insinua nei cortili durante le notti autunnali.
Sospiro, sorpresa e appagata, stringendo le gambe intorno alla vita di Kenshin che sospira a sua volta, aumentando il ritmo di quella danza antica e meravigliosa. E più si lascia trasportare da quel movimento, più il piacere s’intensifica, spingendomi a inarcare la schiena verso di lui. Un mugolio soddisfatto mi fa vibrare la gola.
Sono bombardata da mille sensazioni, così tante che la testa mi gira. La pelle di Kenshin sulla mia, il suo respiro contro le mie labbra, i suoi gorgoglii di piacere, il suo corpo imprigionato nel mio, il suo profumo che m’inebria. Ho come l’impressione di poter perdere la ragione da un momento all’altro. Dovrei essere spaventata all’idea di uscire di senno, e invece non riesco a far altro che bearmi di quegli attimi infiniti.
Mi stringo al suo corpo, al corpo di Shinta, di Kenshin, di mio marito, mi stringo a quel corpo che mi sovrasta, che ora più che mai mi appartiene.
«Kaoru…», mugugna Kenshin, o Shinta, non importa chi sia, resta comunque l’uomo che amo.
Rispondo con un mugolio, incapace di articolare una parola qualsiasi.
Le labbra di Kenshin trovano di nuovo le mie, mentre i nostri corpi si fondono, dando vita a un corpo solo, a un’anima sola.
Il piacere che prima aveva la consistenza di una sottile nebbiolina ora inizia a farsi più intenso. Si espande nel mio essere come l’acqua che gonfia il letto del fiume durante la pioggia, minaccia di travolgermi, di sommergermi.
Mentre il respiro mi si blocca, sconvolto da quell’ondata violenta, mi aggrappo al corpo di Kenshin, come se fosse l’unica cosa in grado di salvarmi dalla potenza distruttiva di quel piacere che mi è montato dentro lento e inesorabile fino a esplodere in tutta la sua violenta prepotenza.
Sento Kenshin stringersi a me, trattenendo a sua volta il fiato, affondando nel mio corpo come se non avesse altra scelta, come se fosse l’unico modo per salvarsi.
Con le braccia allacciate intorno alle sue spalle, lo trattengo contro di me, come se stessi consolando un bambino in lacrime. Il respiro di entrambi riprende a strappi, i nostri polmoni protestano e cercano di ottenere l’ossigeno di cui hanno bisogno per mandare avanti tutta la baracca.
Il corpo di Kenshin si fa lievemente più pesante sopra il mio, ma non mi dispiace. Ad occhi chiusi cerco di memorizzare ogni singolo particolare. Il peso del corpo di Kenshin, il suo respiro affaticato, la sua pelle sudata sulla mia, il suo corpo ancora dentro il mio, i suoi capelli che ricadono di lato, solleticandomi la spalla, la sensazione di completezza.
Faticosamente, Kenshin fa leva su un braccio e cerca di liberarmi di parte del suo peso. Punta gli occhi nei miei. Rispondo al suo sguardo con occhi stanchi ma profondamente soddisfatti, appagati. Porto le mani sul suo viso, scosto una ciocca di capelli e gli accarezzo le guance.
«Va tutto bene?» Mi chiede in un soffio, studiando la mia espressione con uno sguardo preoccupato.
Sorridendo, annuisco.
«Benissimo», rispondo.
Kenshin, Shinta, chiunque sia, sospira con aria sollevata, come se avesse temuto il peggio.
Scivolando lentamente di lato, si sistema di fianco a me, fissando il soffitto con aria pensierosa. Osservo il suo profilo, le labbra sottili, il naso regolare, gli occhi puntati verso l’alto, le sopracciglia corrugate, qualche ciocca di capelli rossi sparpagliata sulla fronte.
«Va tutto bene?» Chiedo a mia volta, preoccupata, girandomi su un fianco.
«Benissimo», risponde lui, voltando il viso verso di me per mostrarmi un sorriso così sereno da non sembrare nemmeno suo. Quanto avevo sperato di vederlo sorridere anche con il cuore, non solo con le labbra! Ed eccolo lì, quel sorriso che volevo.
«E allora cos’era quella faccia?» Incalzo, ritrovandomi a recitare la parte della mogliettina paranoica. Ci avevo messo meno del previsto ad adattarmi a quel ruolo.
«Stavo pensando», risponde, riportando lo sguardo verso il soffitto. Con uno schiocco contrariato della lingua lo informo che quello l’avevo notato anche da sola. Sorridendo, davanti alla mia reazione, Kenshin torna a puntare i suoi occhi nei miei. Quanta pazienza aveva, con una come me. «Stavo cercando di decidere se voglio che continui a chiamarmi Kenshin o se preferisco tornare a essere Shinta», mi spiega e, di colpo, la mia paranoia svanisce, impalpabile come il fumo che si alza da un bastoncino d’incenso.
«È una decisione che spetta a te, questa. Io sarò sempre e comunque tua moglie», gli rispondo, posandogli una mano sul petto nudo. Sento che il cuore rischia di esplodermi per la felicità.
«Credo che questa vita sia più adatta a Shinta che a Kenshin», aggiunge, dopo un po’.
«Allora sarò la moglie di Shinta», rispondo io, sorridendo di nuovo. 



***L'angolo di Miriel_93***
E rieccomi qua!
Vi chiedo scusa per l'ennesima volta, ma il 19 mi sono finalmente laureata (non ci credo ancora, ve lo giuro) e quindi sono stati giorni luuuunghi, lunghiiiiiissimi, infiniti (parenti e mica parenti, feste e mica feste, amici e mica amici, un delirio, come potrete immaginare =.=), per non parlare poi dei problemi di connessione (ancora). Alla fine della storia, insomma, sono riuscita a trovare il tempo di finire questa seconda parte del capitolo solo tra ieri e oggi. 'Na fatica.
Ovviamente mi sono anche dimenticata quello che volevo precisare a proposito =.=
Mi verrà in mente? Mah, lo spero.
In ogni caso spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo ^^
Come avrei inteso, ormai siamo agli sgoccioli. Non vorrei che fosse una doccia fredda, ma penso proprio che il prossimo capitolo sarà l'ultimo. Non ci credo, finalmente ce l'ho fatta a scrivere questa ff ç_ç Mi viene da piangere.
Ma rimandiamo le lacrime al prossimo appuntamento, che con i miei tempi biblici rischiamo di allagare tutto, altrimenti =w=" 
Detto queeeeesto, alla prossima!
Tanti baci dalla Dott.ssa Miriel *W* (Fa troppo figo!)
Baci baci uwu
 
  
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