È ancora buio, e il mio cammino verso casa è ancora lungo. Ora come ora, la pioggia cade copiosa, e perfino il cielo pare piangere assieme a me. Tengo il capo chino e gli occhi bassi, singhiozzando sommessamente. Il silenzio mi accompagna, ed io mi sento, poiché la mia stessa ombra sembra essere la mia unica amica. Mi sono da poco svegliata, avendo dormito in un sudicio e sporco bugigattolo trovato in un buio vicolo. Non ho tolto i vestiti anche se bagnati, volendo semplicemente conservare parte del mio esiguo calore corporeo. Rialzando lo sguardo, scopro di aver raggiunto la porta di casa mia. Avvicinandomi, la apro lentamente, scegliendo poi di entrare in casa. Con la stessa lentezza, tolgo la giacca che porto. Facendo poi qualche incerto passo in avanti, fui accolta freddamente da mio padre. Era evidentemente confuso e abbruttito dall’alcol, tanto che i suoi occhi apparivano vitrei e acquosi. “Dove sei stata? Hai idea di che ora sia?” mi disse, facendo suonare quelle domande come retoriche e prive di una reale risposta. “Sono solo uscita.” Risposi, con una voce così flebile da somigliare ad un sussurro. “Vieni nella mia stanza, così posso punirti.” Disse, posando su di me il suo malevolo e glaciale sguardo. “Va bene.” Continuai, annuendo lentamente e iniziando inconsciamente a tremare. Subito dopo, lo vidi voltarsi e salire le scale che portavano alla sua camera, e anche se per un misero istante, fui felice di vederlo allontanarsi. Poco tempo dopo, vidi il mio fratellino Sarid raggiungermi e iniziare a saltellarmi intorno come un passerotto, e sorridere alla mia vista. “Non correre. Sai di essere malato.” Lo avvertii, posando il mio ora preoccupato sguardo su di lui. “Ti va di giocare?” mi chiese, tacendo subito dopo, e rompendo il silenzio solo con degli improvvisi colpi di tosse. “Visto? Non stai bene. Ora va a riposare. Dissi, avvicinandomi ulteriormente a lui. “Voglio solo giocare con te.” Mi disse, dando così inizio ad una preghiera da me egoisticamente ignorata. “Ho detto di no.” Risposi, opponendomi al suo innocente volere. “Non è giusto!” si lamentò lui, scuotendo il capo. “Nulla a questo mondo è giusto, Sarid. Dobbiamo abituarci e sfruttare ciò che abbiamo.” Gli spiegai, parlando lentamente e abbandonandomi poi ad un cupo sospiro. “Mi fai paura. Dovresti essere gentile con me, e non comportarti così. Che ti è successo mentre eri fuori?” disse, completando quel suo discorso con una domanda. “Non capiresti.” Mi limitai a rispondere scuotendo il capo. Da quel momento in poi, tutto tacque, e il silenzio cadde nella stanza. Le mie parole dovevano averlo ferito, poiché lo vidi abbassare lo sguardo e fissare il pavimento. Tentai di scusarmi, ma nulla potè prepararmi alla sua reazione. “Sei cambiata, e questa parte di te non mi piace! È perché sono diverso? Sono un peso? È perché non capisco le persone?” gridò, posando poi il suo sguardo velato dalle lacrime su di me. “Faccio del mio meglio, davvero, ma ho sempre paura di qualunque cosa. Ho paura. Ho tanta paura. Rivoglio la mamma e voglio capire.” Continuò, sempre guardandomi negli occhi. “Sarid, io so cosa vuol dire essere diversi.” Risposi, cingendogli un braccio attorno alle spalle e tentando di consolarlo. “Tu non sai niente!” gridò, poco prima di finire preda di uno dei suoi ormai soliti accessi d’ira, che lo portavano ad urlare e contorcersi sul pavimento in preda allo spavento e al dolore. Istintivamente, tentai di calmarlo prendendolo in braccio, e il mio espediente parve funzionare, poiché tale azione lo calmò quasi istantaneamente. “Sono solo! Solo! Perché nessuno vuole stare con me? Perché sono diverso? Perché?” si chiedeva, urlando e riuscendo a ferire perfino me con tali domande. Ad ogni modo, comprendendo perfettamente i suoi sentimenti, soffrivo per lui, ben sapendo che ai suoi occhi il mondo non rappresenta che un’angusta trappola. Poco dopo, sentii mio padre chiamare il mio nome dal piano di sopra, e sospirando, decisi di salire le scale e raggiungerlo. “Mi dispiace davvero Sarid. Giocheremo più tardi.” Dissi poco prima di andare, mentendo sia a lui che a me stessa dandogli una falsa speranza. Iniziai quindi a salire le scale, raggiungendo poi la stanza di mio padre. Chiamando a raccolta le mie forze e il mio coraggio, vi entrai senza dire una parola. “Lasciami stare.” Lo pregai, tremando inconsapevolmente. Alle mie parole, mio padre non rispose, quasi a volerle ignorare. Fu poi questione di un attimo, e uno schiaffo mi colpì in pieno volto con una forza tale da rendermi temporaneamente incapace di ragionare. Indietreggiando lentamente, speravo che la sua ira si placasse, ma sbagliavo enormemente. Difatti, ben presto mi ritrovai con le spalle al muro, e fu allora che gli schiaffi divennero pugni sul mio viso, sferrati con forza inaudita. Gli stessi, mi procuravano lividi e lesioni sanguinanti, che non potevo certamente evitare. Nel tentativo di proteggermi, mi schermivo il volto con le mani e urlavo evitando accuratamente di piangere, ma ogni sforzo era inutile. Per mio padre non significavo nulla, e per tale ragione, continuava strenuamente ad infierire su di me. Poi, per mia pura fortuna, mio padre decise di fermarsi, e lasciò la stanza non curandosi di me. Ero esausta, e le gambe mi facevano così male da impedirmi di alzarmi da terra. Provandoci, fissai il mio sguardo sulle mie mani, le stesse mani che avevo usato per tentare di difendermi, e che ora sanguinavano. Ad ogni modo, dopo vari tentativi andati a vuoto, riuscii finalmente a rialzarmi, e raggiunsi subito il bagno di casa, con la precisa intenzione di lavare via il sangue dalle mie fresche ferite. Una volta lì, barcollai fino a ritrovarmi seduta sul bordo della vasca da bagno. Rimasi in quella posizione per alcuni minuti, concedendomi del tempo per respirare e riprendermi dall’accaduto. Subito dopo, mi lavai accuratamente le mani, scoprendo che il sangue sembrava non scivolare via con la solita facilità. Esaminandole, scoprii che la colpa di tale situazione era da imputarsi a delle ecchimosi violacee ed evidenti. Quando ebbi finito, lasciai il bagno, raggiungendo il piano inferiore e andando subito alla ricerca del povero Sarid, che si era prontamente rifugiato nella sua camera. Era nascosto dietro alla porta, e tremava incontrollabilmente. Alla mia vista, sembrò calmarsi, ma la situazione sembrava destinata a peggiorare. Un misero attimo svanì dalla mia vita, ed io mi ritrovai svenuta e priva di forze sul suo letto. Non saprei stimare la durata della mia incoscienza, ma una cosa era certa. Quella non era affatto la prima volta che mio padre osava ferirmi a quel modo. Era tutto iniziato nel giorno del mio quindicesimo compleanno, ovvero quando mio padre aveva deciso di trasformarmi in donna. Secondo il suo pensiero, avrei presto dovuto imparare a difendermi da sola, e a suo dire, quello era l’unico modo per insegnarmelo. A volte, mi interrogo silenziosamente, chiedendomi cosa abbia fatto per meritare tale vita. Inoltre, mi capita spesso di immaginare di essere in un posto isolato, e lontano da questo modo di vivere. Un posto dove gli alberi sono in fiore e il cielo ha un colore opaco ma al contempo piacevole ed accogliente. So bene che un posto di quel genere non esiste, ma facendo uso della mia immaginazione, lo visito nei miei sogni. Ad ogni modo, mi risvegliai dopo un tempo che non riuscii a definire, sentendo che il mio corpo era ancora martoriato dal dolore, e desiderando che mio padre avesse l’occasione di provare la stessa sensazione di malessere da me sperimentata negli anni. Due mesi passarono veloci, ed io tornai come di consueto a scuola. Sembrava essere un giorno come tutti gli altri, e l’insegnante di educazione fisica aveva proposto una lezione di danza. Ad essere sincera, non ne avevo alcuna voglia, e mi limitavo a restare ferma in un angolo della palestra guardando Bailey e le sue amiche danzare al mio posto. Le fissavo controvoglia, trovando le loro movenze da bambola assolutamente patetiche. Le ragazze si rivolgevano complimenti e parole di incoraggiamento che non ascoltavo, sentendomi disgustata da quell’odioso spettacolo. “Malika, stai ascoltando? Fatti avanti e mostraci cosa sai fare. Mi disse l’insegnante, invitandomi a prendere il posto di Bailey e delle amiche. Onestamente, speravo che si dimenticasse di me e lasciasse spazio agli altri, ma ciò sembrò non accadere, ed io mi ritrovai costretta ad obbedire. Così, provai a muovere qualche passo di danza, ma caddi non appena ci provai. “Una ragazza come te non farà altro che metterci in imbarazzo. Perché non scegli di morire? Sibilò Bailey nel vedermi faticare a rimettermi in piedi. A quelle parole non risposi, fissandola con sguardo truce. Di fronte alla mia caduta, le mie compagne risero, non curandosi del dolore che provassi o di come mi sentissi fisicamente. “Smettetela.” Dicevo, sperando di convincerle ad evitare di denigrarmi. “Ottimo lavoro.” Mi disse Darcy, non riuscendo poi a trattenere una risata. “Vi ho detto di smetterla.” Continuai, rimettendomi finalmente in piedi e raggiungendo l’esatto centro della palestra. “Ora basta ragazze, tutti commettono degli errori.” Disse l’insegnante, prendendo le mie difese. “Sì, ma lei ne fa di continuo! Non è fatta per questa scuola!” Rispose Bailey, posando il suo sguardo su di me. “È vero! Dovrebbe solo restare a casa e desiderare di non essere nata!” continuò Dawn, dando manforte all’amica. “Non capite. Nessuno di voi capisce.” Dissi, abbassando lo sguardo al solo scopo di controllarmi. “Calmatevi. È diversa, e non ha talento.” Proruppe la professoressa, facendomi inconsapevolmente infuriare. “Ne ho abbastanza.” Pensai, volendo solo dare un netto taglio alle loro maldicenze. “Esatto! Lei non è come noi, non riesce a fare nulla! Perché viene a scuola con noi? Non è giusto!” si lamentò nuovamente Dawn, guardando l’insegnante con disappunto. “Non c’è nulla di giusto in questo mondo, sciocca viziata!” gridai al suo indirizzo, non riuscendo ad avere il controllo della mia reazione. “Come osi!” mi rispose lei, indignata. “Torna da quell’ubriacone di tuo padre, vuoi?” Continuò Darcy, volendo unicamente tentare di difendere l’amica. “È vero. Ho un padre ubriaco, una madre morta, una sorella che sta per raggiungerla e un fratellino che devo crescere perché quell’idiota di mio padre non può!” urlai, perdendo nuovamente il controllo. “Poi ci siete voi, pronti a denigrarmi in ogni singolo giorno della mia vita! Vedete la mia faccia? È diventata così a causa delle notti insonni e degli abusi che subisco!” aggiunsi, gridando con quanto fiato avessi in gola e stentando a trattenere le lacrime. “Ci dispiace, ma non è colpa nostra se hai una vita tanto orribile. Perché non vai in orfanotrofio?” Sentenziò Eloise, deridendomi e continuando ad avere, assieme alle perfide amiche, il coltello dalla parte del manico. “Non ho mai scelto di avere questa vita. Non ho mai deciso come sarebbe stata, non ho neanche chiesto di frequentare questa scuola! È successo, e non posso controllarlo! Ma voi! Voi potete decidere come comportarvi, quindi perché non mi lasciate da sola anziché continuare ad insultarmi?” sbottai, sapendo che il mio autocontrollo aveva ormai raggiunto il suo limite. “Non puoi dirmi cosa fare! Tu sei quella che urla e ci accusa! Non ti abbiamo fatto niente, e ricorda che tu mi hai attaccata!” urlò Bailey, volendo con quelle parole difendere sé stessa e il resto della classe. “Non capite.” Mi limitai a rispondere con voce flebile, per poi abbassare il capo e nascondere il volto e le lacrime con le mani. Subito dopo, scappai via dalla palestra, ignorando le urla dell’insegnante, che intanto cercava di riportare alla calma le ragazze. Correndo, raggiunsi l’atrio della scuola, non accorgendomi che Matthew mi aveva seguita. “Cosa vuoi? Dirmi di smetterla di accusare Bailey? Se è così sbrigati, non ho tutto il giorno.” Gli dissi, non curandomi del tono che utilizzai nel parlargli. “No! Non ti fare mai qualcosa del genere! Volevo solo…” Fare cosa? Picchiarmi? Darmi dell’inutile?” continuai, iniziando a piangere e sentendo le lacrime solcarmi il volto, non dandogli quindi modo di terminare quella frase. “Non piangere, mi fa male vederti così.” Mi pregò, arrossendo e posando il suo sguardo colmo di preoccupazione su di me. “Fai piangere le ragazze? Sei patetico.” Disse una voce alle mie spalle che inizialmente non riuscii a riconoscere. Voltandomi, scoprii in Calvin il mio nuovo interlocutore, e con gli occhi ancora velati dalle lacrime, lo guardai. “Avevo idee migliori su di te, Matthew.” Disse, guardando quel povero ragazzo negli occhi e volendolo quasi redarguire. “È un malinteso! Non le farei mai del male! Si difese lui, tremando come una foglia. “Ti aspetti che ti creda?” chiese Calvin, sarcastico. “Sto dicendo la verità! Non le mentirei mai perché…” la frase gli morì in gola, e non trovò mai una fine né un reale completamento. In quel preciso istante, Ben e Jacob fecero il loro ingresso nell’atrio scolastico. “Bravo Matt! Dille quanto vogliamo che se ne vada, che lasci questa scuola e quanto sia fastidiosa! Dille quello che ci hai detto stamattina! Disse Ben, incoraggiando l’amico. Non so di cosa parli.” Tentò di giustificarsi Matthew, mentre la sua voce era tradita da un tremore evidente. “Fa come dice!” lo incalzò Jacob, obbligandolo in tal modo a rivelare una verità forse inesistente. “Prenditela con qualcuno della tua taglia! Urlò Calvin, avvicinandosi a me al solo scopo di difendermi. “Andiamo Malika, ignora questi idioti e vieni con me.” Disse poi, invitandomi a seguirlo e cingendomi un braccio attorno alle spalle. Mantenendo il silenzio, accettai quell’invito con un cenno del capo, per poi iniziare a camminare al suo fianco. Camminando, raggiunsi assieme a lui il parco cittadino, ed entrambi ci sedemmo ad uno dei tavoli presenti vicino al chiosco dove Luke mi aveva accompagnato tempo prima. Sinceramente, ero davvero curiosa circa ciò che Matthew avesse voluto dirmi, ma in quel momento la questione non appariva importante. Probabilmente non voleva che denigrarmi come tutti gli altri. “Non voglio lamentarmi, ma non devi comportarti così con me. Posso farcela da sola.” Dissi a Calvin, mentre camminavamo. “Sei stata da sola per troppo tempo, Malika.” Mi rispose, guardandomi negli occhi con fare apprensivo. Anche i diffidenti hanno bisogno di compagnia.” Aggiunse, sorridendo debolmente. “Nessuno è mai gentile con me senza ragione. Subito dopo accade sempre qualcosa di brutto. Mia sorella è in coma, mia madre è morta, due dei miei fratellini se ne sono andati e il signor Norton mi ha abbandonato per la sua ragazza.” Dissi, abbassando lo sguardo e aggrottando la fronte. “Perché dovresti essere diverso? Finirai per lasciarmi come tutti gli altri.” Aggiunsi, dando inizio a quel discorso con una domanda. A quelle parole, Calvin non rispose, limitandosi ad avvicinarsi e scegliere di abbracciarmi. “Ne hai passate tante, e non riesco a credere di essere stato uno di loro. Istintivamente, mi lasciai avvolgere dal suo abbraccio ed iniziai a piangere. “Ti fa bene.” Mi disse, mostrandomi un sorriso e lasciando che mi sfogassi. Piansi fra le sue braccia, sentendolo poi pronunciare una frase che ricorderò finchè avrò vita. Quello fu possibilmente l’autunno più lungo della storia, ma finalmente arrivò la neve. Inoltre, il giorno passato con Calvin è ad oggi ancora prezioso, poiché mi sono sentita amata da qualcuno di diverso da mio fratello. A lui importava davvero di me, ed io lo sapevo. Per tale ragione, decisi di fidarmi. Mi rividi con lui in un giorno nevoso, divertendomi a giocare in sua compagnia nella neve, e tornando per una giornata ai miei cinque anni d’età. Dati i miei trascorsi, la mia infanzia non era certamente stata rose e fiori. Ad ogni modo, dopo aver passato parte del suo tempo con me, Calvin decise di riaccompagnarmi a casa. “Sto gelando.” Dissi una volta raggiunto la porta di casa mia. Tremavo come una foglia, ragion per cui Calvin si offrì di farmi indossare il suo giaccone. “Lo credo, non hai un cappotto. Tieni, puoi avere il mio.” Rispose, privandosene e aiutandomi ad infilarlo. “Non mi serve, non ho più freddo.” Mentii, mentre la mia voce tremava assieme al mio corpo. “Non mi inganni. Nessuno dovrebbe uscire di casa senza un giubbotto.” “Sembro un ragazzo.” Osservai, ora avvolta dal suo giubbotto. “Non è vero.” Mi rassicurò, mostrando un debole ma convincente sorriso. “Te ne serviranno degli altri ora che è inverno.” Mi avvertì, tornando improvvisamente serio. “Non ne ho nessuno.” confessai, continuando inconsciamente a tremare. “Cosa? E perché mai?” mi chiese, apparendo sorpreso e confuso dalle mie parole. “Mio padre dice che costano troppo, e che l’aria fredda mi fa bene.” Dissi, abbassando lo sguardo per la vergogna. Che razza di persona! Se la vedrà con me!” affermò, in tono deciso. “No! Ti prego, non avvicinarti a lui.” Lo avvertii, spaventandomi di colpo. “Perché? Che succede? Perché hai così paura?” chiese, apparendo ora stranito e preoccupato. “Fidati di me, e promettimi di stargli lontano.” Dissi, tornando a guardarlo negli occhi, sapendo che i miei erano pieni di terrore. “Non capisco.” Biascicò, preoccupandosi sempre più seriamente. “È la cosa migliore.” Chiarii, sperando che smettesse di pormi domande. “Grazie di tutto, ma ora devo andare.” Dissi poi, dandogli le spalle e allontanandomi da lui. Mentre ero nell’atto di farlo, sentii la sua voce in lontananza. “ Malika, aspetta! Perché scappi dai tuoi problemi?” mi chiedeva, attendendo invano una risposta che non ricevette mai. “Mi spiace Calvin, ma non puoi aiutarmi con questo problema.” Quella fu l’unica frase che riuscii a proferire prima di essere troppo lontana per sentirlo gridare il mio nome. In quel preciso istante, le mie emozioni turbinavano nel mio animo così come faceva il vento. la mia vita non sembrava essere cambiata neanche di una misera virgola, eppure qualcosa mi appariva diverso. Ero stata umiliata, ma al contempo salvata dall’affetto che un amico provava per me.