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Autore: Inheritance    30/10/2015    6 recensioni
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"Voglio dire, quando gli era passato per la testa che Genetica potesse essere qualcosa di interessante da seguire? Doveva essere stato ubriaco. Possibile, pensò. Probabile, decise.
In ogni caso, se n’era pentito. Oh, se se n’era pentito. Alla fine, comunque, la cosa non fece molta differenza, perché se la sua paura era quella che avrebbe finito per addormentarsi durante le ore di lezione, ciò che non aveva programmato era che sarebbe arrivato ad addormentarsi ancor prima che esse iniziassero."
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Emma Frost, Erik Lehnsherr/Magneto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Lori, senza la quale non esisterebbe questa storia, quindi se dovete avercela con qualcuno, prendetevela con lei <3  Ti voglio bene, gioia.
E niente, è in assoluto la mia prima Cherik. Ho iniziato a scriverla un po’ per scherzo e doveva essere una cosa piccola, ma sono diventate nove pagine non so neanche come… E boh, spero vi piaccia.
 
Un bacio ed un abbraccio,
Her.
 
Ps. Poche note alla fine, leggetele pls <3
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Can’t sleep love.
 
 

“A professor is one who talks in someone else’s sleep.”
 
Non sapeva neanche come c’era finito a quel corso, si disse Erik sfogliando il libro che aveva appena acquistato. Cioè, sapeva il motivo per cui si trovava a dover affrontare una lezione che con il suo corso di studi non c’entrava proprio nulla, aveva disperatamente bisogno di quei crediti extra, ma per quanto si sforzasse la cosa che proprio non riusciva a comprendere era perché esattamente avesse scelto quella materia.
 
Voglio dire, quando gli era passato per la testa che Genetica potesse essere qualcosa di interessante da seguire? Doveva essere stato ubriaco. Possibile, pensò. Probabile, decise.
 
In ogni caso, se n’era pentito. Oh, se se n’era pentito. Alla fine, comunque, la cosa non fece molta differenza, perché se la sua paura era quella che avrebbe finito per addormentarsi durante le ore di lezione, ciò che non aveva programmato era che sarebbe arrivato ad addormentarsi ancor prima che esse iniziassero.
 
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La prima volta non fu colpa sua, non del tutto almeno. Alle otto della sera prima era rientrato a casa dalla palestra, alle nove e mezza aveva già cenato e si era fatto una doccia, alle dieci era sotto le coperte.
 
Alle quattro di notte, tuttavia, era ancora sveglio.
 
“Uno stupido gufo.” Aveva detto ad Emma, quando lei aveva posto l’attenzione sull’orribile aspetto che aveva quella mattina. “Tutta la notte, fuori dalla mia finestra.”
 
Non fu colpa sua, dunque, quando si addormentò appena cinque minuti dopo aver toccato lo schienale della sedia, fortunatamente in ultima fila, su cui la ragazza praticamente lo aveva spinto. E neppure troppo gentilmente. Perché era suo amico?
 
Nonostante i vari dubbi sul loro rapporto, comunque, qualcosa doveva riconoscerle. Aveva lasciato che dormisse tutto il tempo, senza punzecchiarlo o fargli stupidi scherzi nel sonno. Se perché volesse fare un gesto carino o se perché davvero il suo aspetto le avesse suscitato pena, quello non avrebbe saputo dirlo.
 
Si rese conto, a un certo punto della giornata, quando ormai la sua mente si era fatta abbastanza lucida da permettergli di formulare pensieri che non gravitassero solo attorno al suo letto e ad un paio di soffici cuscini, che non aveva seguito neanche un istante della sua prima lezione di Genetica, neppure un secondo.
 
A dirla tutta, non aveva la minima idea di che faccia avesse il suo professore.
 
“Ehi, com’è quello di Genetica? Il prof, dico.”
 
Emma alzò lo sguardò dal suo cellulare, lo sguardo annoiato e l’espressione vacua.
 
“Mh, noioso. Capisco perché hai dormito tutto il tempo.”
 
Lui sbuffò: “Non è stato per lui. Ero stanco. Magari è bravo.”
Stava cercando di convincere se stesso, questo era ovvio. Aveva ancora dubbi sulla scelta di quel corso.  
 
Emma alzò un sopracciglio e sorrise: “Bravo non saprei, ma carino decisamente.”
 
Si promise, Erik, che alla prossima lezione avrebbe prestato attenzione. O, come minimo, che sarebbe rimasto sveglio almeno abbastanza a lungo da vedere cosa la sua migliore amica intendesse dire.
 
 
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La seconda volta la colpa fu di Raven. In parte, diciamo. Ma a Erik piaceva scaricare sugli altri le sue responsabilità quindi dare la colpa a lei sembrava di gran lunga la scelta più invitante.
 
Lo aveva chiamato in lacrime la sera prima, singhiozzava al telefono come solo lei sapeva fare, con quel tono che ti lasciava sempre indeciso su quanto potesse essere seria o su quanto quel pianto fosse solo il risultato della sua eccessiva teatralità.
 
Decise di crederci, comunque, e acconsentì ad uscire con lei per consolarla da quella che sembrava essere stata la delusione d’amore più grande della sua vita. D’altronde, quello era esattamente ciò che Raven aveva detto le ultime quattro volte.
In quel momento sarebbe da tracciare la linea oltre la quale la colpa era diventata anche un po’ la sua. In quel momento, oppure in quello in cui ordinò il suo terzo drink, o quando disse “No, va bene, posso stare ancora un po’”, oppure, ad allargarci, quando aveva preso la decisione di seguire quel ragazzo carino nei bagni del locale.
 
Gli fu chiaro, insomma, mentre la mattina dopo indossava i suoi jeans che non gli erano mai sembrati più scomodi e beveva il suo caffè che non gli era mai sembrato più scadente, che forse avrebbe potuto imporsi un pochino di più. Ma la sua ammissione di colpa non andò oltre questa riflessione.
 
I suoi buoni propositi di rimanere sveglio almeno fino a che il professore non fosse entrato in classe rimasero inadempiuti. Non sapeva neanche spiegarsi come fosse arrivato in aula, o perché avesse deciso di andarci. A pensarci bene, quella era stata probabilmente opera di Emma.
 
La ragazza lo svegliò che l’aula si era già svuotata per metà, che il suo insegnante aveva già abbandonato la cattedra e che il suo quaderno di appunti era più bianco che mai, se non si contava la chiazza di saliva che a un certo punto doveva essere fuoriuscita dalla sua bocca.
Chissà se aveva russato.
 
“Ho russato?” Chiese, giusto per sicurezza.
 
Emma rise. “Non abbastanza forte perché Xavier si accorgesse di te. Ma di certo ti sei preso qualche brutta occhiata.”
 
Aggrottò la fronte. “Avresti dovuto svegliarmi.”
 
Lei si alzò e iniziò a camminare verso la porta, senza preoccuparsi di controllare che lui fosse abbastanza sveglio da seguirla.
Con qualche secondo di ritardo, Erik la raggiunse in corridoio e si affiancò a lei.
 
“Nah, ho sperato tutto il tempo che lo facesse qualcun altro in maniera molto meno gentile di quanto avrei fatto io.”
 
Erik fece una smorfia e borbottò qualcosa, prima di allungare il passo e distanziarla nel raggiungere la sua prossima lezione.
 
 
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La terza volta che accadde poté onestamente riconoscersi tutta la colpa.
 
“Lehnsherr, mi raccomando. Voglio quella ricerca per Lunedì. E stavolta non chiuderò un occhio se farai ritardo.”
 
Si era chiesto perché la professoressa di Fisica avesse deciso di fare proprio a lui questo appunto, non era di certo l’unico a cui era capitato di essere in ritardo con una consegna.
Quando si accorse che, come a volerle necessariamente dare ragione, aveva effettivamente dimenticato quella ricerca era Domenica, erano le dieci di sera ed Emma gli aveva inviato un messaggio.
 
Non fare tardi domani, magari riuscirai finalmente a seguire una lezione con Xavier ;) - E
 
E poi ancora un altro:
 
E per piacere, dimmi che hai fatto quella stupida ricerca. – E
 
Erik, lasciatemi essere ovvia, la ricerca non l’aveva fatta.
 
Entrò quel Lunedì mattina in aula senza neppure fingere di avere dei buoni propositi. Trovò Emma seduta in ultima fila con un posto vuoto accanto, chiaramente riservato a lui.
Le fece cenno con la mano di scorrere di alcune sedie, non riuscendo a trovare in se stesso l’energia necessaria a pronunciare nemmeno quelle poche parole. Lei obbedì silenziosamente, la fronte corrugata.
 
Non appena le sedie libere da una diventarono tre, si lasciò cadere orizzontalmente su di esse, gettando la borsa da qualche parte sul pavimento, la giacca sotto la propria testa a mo’ di cuscino e una piccola cartellina sul piano del tavolo davanti a lui.
 
Emma alzò un sopracciglio, poi due, e quando si rese conto che non avrebbe ricevuto risposta da un Erik già abbandonatosi tra le braccia di Morfeo, sollevò con un’unghia finemente curata la copertina della cartella.
 
Fluidodinamica applicata.
 
Sorrise e si voltò verso la cattedra. Xavier quel giorno indossava un buffo gilet verde di lana, degli orridi pantaloni a quadri e un sorriso di quelli che scaldano il cuore. Se Erik lo avesse visto anche solo una volta, pensò, avrebbe prestato tanta attenzione da valergli persino una lode all’esame di Genetica. Oltre che un’insufficienza in fisica.
 
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La quarta volta che accadde non era neanche troppo stanco, non più stanco di quanto si possa essere normalmente di lunedì mattina quando si ha una lezione alle otto e mezza.
Non era particolarmente interessato a seguirla, a dirla tutta, non dopo essersi perso le prime tre e senza avere uno straccio di appunto su cui fare affidamento per non trovarsi completamente spiazzato di fronte agli argomenti che avrebbero affrontato in classe. Si era ormai rassegnato all’idea che si sarebbe trovato a studiare per l’esame solo con l’aiuto di quel noiosissimo e straordinariamente pesante libro di Genetica.
 
Tuttavia, c’erano diverse ragioni per cui aveva deciso di andare anche quella mattina: la prima era che Erik detestava la sua stanzetta da studente universitario con pochi soldi, poco gusto nell’arredamento e una non proprio sorprendente incapacità di svolgere qualsiasi lavoro domestico e cercava di trascorrere meno tempo possibile al suo interno; in secondo luogo c’era il fatto che se fosse rimasto a casa il risultato migliore che avrebbe potuto ottenere sarebbe stato quello di rimanere a letto tutta la mattinata, e in qualche modo il pensiero di dormire in classe invece che nel suo letto lo faceva sentire quel pizzico più produttivo; la terza ragione… beh, la terza ragione era Emma.
 
“Ti trovo…sveglio.”
 
Disse, quando lo incontrò al suo armadietto quella mattina. Il che nel suo modo contorto ed enigmatico di dire le cose poteva essere un complimento come un insulto, ma Erik decise di non farci caso comunque. Rispose con un grugnito, che nel suo modo contorto di dire le cose poteva soltanto voler dire che non aveva ancora preso il suo caffè, perciò Emma sorrise divertita e fece un piccolo cenno del capo nella direzione delle macchinette.
 
Erik annuì. Quel caffè liofilizzato si trovava in quinta posizione nella sua lista di cose che odiava, ma che per una ragione o per un’altra doveva continuare a sopportare. Ad essere sinceri, non ricordava mai tutti i punti e non era come se l’avesse realmente messa per iscritto quella lista, ma era quasi certo che al secondo posto ci fosse la sua insegnante di Fisica.
In ogni caso, necessitava di quel caffè più di quanto avrebbe voluto ammettere e per un attimo gli venne da pensare che la sua unica vera fortuna fosse che con Emma non c’era mai bisogno di ammettere nulla.
 
Si voltò a chiudere l’armadietto in cui aveva riposto le sue cose e non fece neppure in tempo a registrare le parole che Emma disse, che per inciso furono “Erik, attento!”, quando sentì un forte tonfo al lato sinistro della testa. Che diamine...?
 
“Che diamine-?”
 
Qualcuno aveva dato un violento colpo all’anta dell’armadietto di metallo che aveva colpito in pieno la zona fra il suo occhio e l’orecchio. Pensò sinceramente che sarebbe svenuto, in parte perché Erik Lehnsherr era il re del dramma, in parte perché la botta aveva fatto davvero male. Chi poteva avere tanta forza?
 
“Logan.”
 
Emma lo salutò con un cenno del capo, un’espressione di rimprovero nello sguardo e un accenno di risata nella voce.
 
“Ciao, bambolina.” Un cenno del capo e due dita a sfiorarsi la fronte. “Erik.” Silenzio. “Che hai, Lehnsherr?”
 
Avrebbe voluto rispondere. Oh, se  avrebbe voluto rispondere. Tuttavia, in quel momento niente gli sembrava più difficile che articolare parole che avessero un senso. O pensarle, addirittura. Lanciò invece alla ragazza accanto a lui uno sguardo che era una via di mezzo tra disperazione, rabbia e frustrazione. Fortuna che non c’era da parlare molto, quando si trattava di Emma.
 
Il ghigno divertito di Emma lasciò spazio ad un’espressione gelida e vagamente inquietante, di quelle che non bastavano a provare che stesse meditando un omicidio, ma che di sicuro ponevano un legittimo dubbio.
Logan non aveva capito niente, glielo si leggeva nello sguardo, con ogni probabilità non aveva neanche realizzato di aver colpito Erik, ma strinse lo stesso le labbra in una linea sottile, girò i tacchi e si allontanò.
 
Erik si accasciò sul muro e si portò le mani alla testa, massaggiandola delicatamente ed emettendo grugniti e mugolii. Lo avrebbe ucciso. Appena fosse riuscito a rimanere in equilibrio senza bisogno di alcun sostegno, lo avrebbe ucciso in maniera lenta e dolorosa.
 
Emma lo scrutò per qualche secondo, le sopracciglia arcuate e in volto quell’espressione di derisione che aveva momentaneamente celato con l’intenzione di intimidire Logan e che, una volta sola con Erik, poteva nuovamente permettersi di assumere.
 
“Ti porto in infermeria? Ce l’abbiamo almeno, un’infermeria?”
 
Erik si sollevò dalla sua posizione e iniziò a camminare instabilmente verso l’aula, l’idea del caffè completamente abbandonata.
 
“Andiamo a lezione. Ho solo bisogno di riposare la testa.”
 
Emma rise apertamente stavolta.
 
“E quale posto migliore della lezione di Genetica? A quanto ho sentito, lì si dorme una meraviglia.”
 
Pensò, Erik, una volta seduto al suo solito posto in ultima fila, che doveva esistere una qualche specie di regola che riguardava il non dormire quando si è ricevuto un trauma cranico -che probabilmente trauma cranico neanche era, ma “re del dramma”, ricordate?-, ma se anche fosse stato quello il caso, niente gli avrebbe impedito di chiudere gli occhi, appoggiare la testa contro il banco e lasciarsi abbandonare a quella sensazione di oblio che avrebbe attutito il forte pulsare della sua tempia e il feroce mal di testa che aveva iniziato a farsi sentire.
 
L’ultimo pensiero lucido che gli apparve in mente fu che probabilmente avrebbe dovuto aggiornare quella famosa lista. Logan meritava il primo posto con tutti gli onori.
 
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Erik rientrò in uno stato di veglia dopo quelle che gli sembrarono diverse ore, e che invece potevano essere state soltanto due, quando si accorse della presenza di qualcuno che lo osservava da vicino, come se stesse ponderando se fosse il caso di svegliarlo oppure no.
 
Si chiese perchè Emma facesse tante storie, non era di certo la prima volta che lo svegliava dopo una lezione di Xavier. Aprì un occhio, cercando di adattarlo alla luce che sembrava stranamente intensa per quell’ora del giorno in quella zona dell’edificio, poi aprì l’altro e incontrò immediatamente un altro paio di occhi dritto di fronte al suo. Azzurri.
 
“Emma?”
 
Sentì una risata, il tono dolce e caldo, e rivolse l’attenzione all’unica persona che si trovava nell’aula con lui, persona che, a guardarla bene, non poteva certamente essere Emma.
 
Pensò per un attimo che avrebbe dovuto essere arrabbiato, furioso, perchè la sua migliore amica – la sua unica amica?- aveva probabilmente trovato assai divertente l’idea di abbandonarlo addormentato in un’aula deserta e di lasciare che a svegliarlo fosse un completo estraneo che si sarebbe certamente preso gioco di lui.
Avrebbe dovuto alzarsi, correre fuori dall’aula e andare a cercare la ragazza, per poi fare con lei una bella chiacchierata che, conoscendoli, si sarebbe ridotta ad un semplice scambio di sguardi piuttosto eloquenti e minacciosi.
Poi, l’altro smise di ridere.
 
“Oh, temo proprio di non essere carino come la tua amica.”
 
Erik aggrottò la fronte e si prese qualche minuto per osservarlo con attenzione. Non era Emma, questo lo avevano appurato entrambi, ma avrebbe avuto qualcosa da ridire sul resto dell’affermazione.
Quel ragazzo –giovane uomo?- non era carino, era bello. Di quelle bellezze timide che si nascondono sotto una massa di capelli voluminosa e spettinata, dietro un velo di lentiggini e sotto pesanti giacche di tweed. Di quelle bellezze che si intravedono fra ampi gesti delle mani e piccoli sorrisi e dolci risate.
Di quelle bellezze capaci di incantarti.
 
Forse, dopotutto, Emma avrebbe meritato un regalo.
 
Aprì la bocca per parlare, ma fu interrotto da un pesante sbadiglio, residuo del sonno da cui si era appena ripreso che era evidentemente durato molto più di un paio d’ore. Stirò le braccia sopra la testa e allungò le gambe sotto al tavolo, ricordando vagamente l’immagine di un felino appena svegliatosi.
 
L’altro ridacchiò.
 
“Allan Rechtschaffen diceva che se il sonno non ha alcuna funzione vitale assoluta, allora deve essere il più grande errore mai commesso dal processo evolutivo.”
 
Erik lo fissò con espressione vacua. Poi disse:
 
“Cosa sei, un professore o roba simile?”
 
L’altro rise ancora una volta. Era qualcosa che Erik reputava particolarmente fastidioso, quando una persona rideva troppo spesso, o sorrideva troppo spesso, o tendeva in generale a mostrarsi esageratamente allegra in ogni circostanza.
Non potè fare a meno di notare, tuttavia, come osservare quell’uomo ridere gli provocasse una imbarazzante, seppur piacevole, sensazione di calore allo stomaco. E al petto. E al volto.
E doveva necessariamente smettere di guardarlo ora, prima che le cose potessero peggiorare.
 
“Professor Charles Xavier. Insegno Genetica agli alunni dell’ultimo anno. Beh, a quelli che riescono a rimanere svegli almeno per i primi cinque minuti di lezione.”
 
Si chiese per un secondo, Erik, se capitasse spesso che gli studenti si addormentassero durante le sue lezioni o se quello fosse un rimprovero rivolto unicamente a lui.
Arrossì e se ne vergognò subito dopo, riuscendo così soltanto a farsi raggiungere il viso da un nuovo afflusso di sangue. Aveva forse dodici anni, mio Dio?
 
“Mio Dio.”
 
Charles –Il professor Xavier, si corresse Erik- strinse le labbra e aggrottò le sopracciglie, in una buffa riproduzione di quella che doveva essere un’espressione seria.
 
“Ah-ah. Evoluzionisti, ricordi? Da queste parti quel nome non è visto troppo di buon occhio.”
 
Fece un occhiolino. Un occhiolino. Voleva ammazzarlo o cosa? Erik si leccò le labbra, poi disse:
 
“Stessa cosa dalle mie parti.” Rise. “Sono ebreo.”
 
Charles - Oh, al diavolo i titoli!- sorrise, poi alzò lo sguardo al cielo come se qualcosa nell’aria lo avesse distratto, come se all’improvviso avesse iniziato ad inseguire con lo sguardo il volo di un qualche insetto.
Poi esclamò:
 
“Ah, Charlotte!”
 
Erik sollevò un sopracciglio. Per essere un insegnante sapeva essere davvero poco chiaro.
 
“Charlotte Auerbach, una genetista tedesca di origine ebrea. Una volta lessi una sua opera sulle mutazioni genetiche, mi lasciò estremamente affascinato. Sei tedesco, non è vero?”
 
Il mal di testa che segue uno schianto diretto della propria testa con una lastra di metallo, pensò Erik, non aveva niente a che fare con quello causato dal cercare di comprendere l’intricato filo logico dei pensieri di un professore universitario troppo giovane e troppo brillante per il suo ruolo.
 
Nonchè troppo bello. Decisamente troppo bello.
 
Decise di non rispondere, comunque, perchè non si fidava abbastanza che la propria voce non si spezzasse e perchè non era certo di riuscire ad aprire la bocca senza che un rivolo di saliva non fuoriuscisse da essa.
Annuì.
 
Charles sorrise, sembrava non saper fare altro, poi puntò i grandi occhi azzurri sul viso di Erik e chiese piano:
 
“Qual è il tuo nome?”
 
Era strano, Charles. Così aperto e sicuro e carismatico mentre parlava di tutte quelle cose scientifiche e citava grandi studiosi, ma così timido e –vulnerabile?- nel chiedere qualcosa di così insignificante come il nome di un suo studente, che poi tanto studente nemmeno era.
In ogni caso, era lui quello che avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo nel parlare con il suo affascinante, intelligente, sexy professore per cui aveva appena realizzato di avere una cotta, non certo Charles.
A meno che…
 
Oh.
 
Oh.
 
Erik tornò a studiare quel suo volto delicato e lo vide arrossarsi sempre più con ogni secondo che passava. Osservò i suoi meravigliosi occhi per il cui colore non sarebbe stato in grado di trovare una giusta definizione –anche se certamente Charles avrebbe potuto fornigli la più scientificamente accurata- e li vide spostarsi rapidamente su tutta la lunghezza del suo corpo. Vide le sue mani fremere leggermente e poi aprirsi e chiudersi come nel tentativo di controllare uno specifico istinto.
Ammirò la sua bocca schiudersi e seguì il movimento della sua lingua contro il labbro inferiore.
Una, due, tre volte.
 
Erik sorrise.
 
“Lehnsherr. Erik Lehnsherr. Ti direi che puoi trovare i miei dati nell’elenco online dei tuoi alunni, ma ho appena deciso di ritirarmi da questo corso. Conflitto d’interesse o una stronzata simile.”
 
Rise e mostrò i denti in un ghigno che molti suoi conoscenti definivavo inquietante, ma che era realmente la massima espressione di gioia che fosse in grado di mostrare.
 
Gli occhi di Charles brillavano e non si poteva davvero dire se fosse una conseguenza dell’aver intuito il significato delle parole di Erik o se fosse semplicemente una sua naturale caratteristica.
Sorrise, ed Erik si pose lo stesso identico dubbio.
 
Poi lo baciò. E quello non poteva in alcun modo essere soggetto a fraintendimenti.
 
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“-win credeva che le mutazioni genetiche non avrebbero mai portato alla nascita di una nuova specie. Loro non creano, al limite eliminano. Ma cosa accadrebbe se sviluppassimo mutazioni in grado di aggiungere caratteristiche al nostro corpo? Pensa a quante cose potrebbero essere migliorate! Pensa a quanti nuovi sbocchi di studio si aprirebbero per l’evoluzione, Erik! Potremmo diventare esseri perfetti, un giorno.”
 
Silenzio.
 
“Erik?”
 
Smise di camminare avanti e indietro sul pavimento del salotto e si affacciò oltre lo schienale del divano, trovandosi davanti l’immagine del suo ragazzo addormentato supino, con una gamba stesa sopra il bracciolo ed una a toccare il pavimento, le braccia curiosamente intrecciate sul torso come a cercare di trattenere calore.
 
Charles sospirò. Prese una coperta dalla poltrona nell’angolo della stanza e lo coprì, piegandosi a sfiorargli la fronte con un bacio leggero. Erik non avrebbe mia assistito alle sue lezioni, doveva farsene una ragione.
Si voltò e si diresse in cucina a preparare la cena.
 
“Tu sei già perfetto.”
 
Disse Erik alle sue spalle. Charles sorrise.
 
“Parli nel sonno, adesso?”
 
“Meglio parlare nel mio sonno, piuttosto che in quello di qualcun altro.”
 
 



 
 
 
 
Nda:
1.Allora, la prima cosa che mi sento di dire è che il titolo fa un po’ pena, ma io e Lori ci abbiamo davvero provato a trovare qualcosa di buono, giuro. Non ci siamo riuscite, sigh.
E niente, è il titolo di una canzone dei Pentatonix, un gruppo a cappella che amo e che ha appena pubblicato il suo primo album originale. Can’t Sleep Love è uno dei singoli.
2.Qualsiasi persona o frase sulla genetica citata da Charles esiste ed è frutto di infinite ricerche da parte mia e del mio malsano interesse per tutto ciò che riguarda l’evoluzione della specie umana.
3.Non so come funziona il sistema accademico americano o inglese, quindi boh, ho usato l’impostazione di un’università italiana per tutto quello che riguarda l’ambientazione.
Ps. Spero sia chiaro che non ho voluto sottintendere una relazione professore/studente. Charles non insegna nello stesso Dipartimento di Erik e Erik ha deciso di abbandonare il suo corso (Genetica è, per Erik un esame a scelta per ricevere crediti in più).
 
Vi amo tanto.
Un bacio e un abbraccio,
Her. 
  
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