I.
Roma è distorta, quando piove.
Le pozzanghere, a terra, si
accumulano ai lati delle strade trafficate, sopra i marciapiedi, sulle soglie
dei negozi, alle uscite della metropolitana. Roma, quando piove è triste perché
si vede nera e non si ama, perché i suoi amanti non la possono ammirare,
coperti dagli ombrelli e con lo sguardo basso. Roma, con il sole, è una donna
piacente, vanitosa, egocentrica; ma con la pioggia, si mostra per quella che è
davvero: caotica, disorganizzata, capricciosa, distorta.
Roma non vuole bene ai suoi
amanti quando piove, ecco perché si concede le ottobrate, l’estate di San
Martino, la fredda tramontana che porta il sole e pulisce il cielo, le tiepide
giornate di febbraio e la primavera anticipata – ogni anno sempre un po’ di
più.
Il nove ottobre del duemilaquindici, a Roma pioveva e i vagoni della metropolitana erano stati presi d’assalto dai turisti, dai lavoratori che rientravano a casa, dagli adolescenti che avevano deciso di rimanere in giro, a cazzeggiare, per godersi quella bella giornata.
La banchina della stazione Termini, centro
nevralgico e nodo importantissimo – vitale – per la viabilità romana
sotterranea, era gremita di persone come suo solito. Persone che, dall’alto del
loro qualunquismo che le indentifica come “massa”, ignorano il concetto di curva
gaussiana e distribuzione uniforme che permetterebbe loro di viaggiare più
comodi e senza sovraccaricarsi di stress inutili.
Erica deve fare solo quattro
fermate di metro A – direzione Battistini – prima di
affermare con sicurezza di stare tornando a casa. Erica era pendolare dal
lontano 2005, quando il mondo era ancora normale, aveva meno cicatrici e il
venerdì non era giorno di sciopero. Erica se li ricorda bene quei tempi, quando
sua madre la mise, per la prima volta, su un vagone della metropolitana e le
disse di scendere dopo quattro fermate, che la strada la conosceva perché
l’avevano fatta tante di quelle volte assieme che è impossibile, Erica, che non
te la ricordi e non piangere – ti prego – perché ormai sei grande ed è quello
che le ragazze grandi fanno: viaggiare da sole, fare attenzione ai pazzi che
parlano al cielo, agli uomini – tutti, qualsiasi età abbiano, Erica, non
avvicinarti mai ad un uomo – e ai disegnatori sui marciapiedi, quelli che
incontra mentre corre su Via del Corso, per tornare a casa.
Sono passati dieci anni, ormai ed Erica ha visto l’espansione della linea della metro B, gli scioperi degli autisti, i controsoffitti crollati delle stazioni, gli incidenti e l’intera metropolitana bloccata. Erica, ormai, viaggia da dieci anni e il suo sguardo è appannato, spento dalla consuetudine del percorso, dalla mono-tonicità della gente. Vaccinata alla calca dei turisti, alla lentezza dei turisti, all’impiccio per la viabilità pedonale dei trolley; Erica non guarda più in viso nessuno ma osserva il suo cellulare, mentre digita messaggi alla velocità della luce – no, mai così veloce perché è impossibile – o legge febbrilmente sul suo e-reader. Erica, la metropolitana, quelle quattro fermate, le persone su quei cinque vagoni le conosce a memoria perché sono le stesse da dieci anni. I turisti cambiano, ma Roma è sempre quella – la metropolitana, la curva di Gauss e la distribuzione uniforme sono sempre loro.
Erica non si stupisce più se viene
rubato il portafoglio a una signora innocente, non si indigna se il vigilante
le risponde che non può farci niente lui perché mica c’ha l’occhi sulla
capoccia, eccheccazzo.
Non fa più caso agli sguardi ambigui del cinquantenne con la moglie a casa, che lo aspetta, tre figlie di buona famiglia sedute su un sofà di pelle bianco e un iPad fra le mani, a guardare Peppa Pig. Erica non si chiede a quale fermata sia arrivata perché sa che, dopo otto minuti e venticinque secondi è il suo turno di scendere dalla metropolitana. Si avvicina alla porta, scosta i turisti aggrappati al pilone centrale, evita la signora in tailleur e tacco alto dall’equilibrio precario e si avvicina alla porta scorrevole.
Erica, però, fa il Grande Sbaglio.
Erica
si pente solo quando si renderà conto di essere arrivata a Ottaviano e di aver
mancato la sua fermata.
Erica si darà della stupida.
Erica ha alzato la testa e ha
incontrato due laghi verdi, come quello della serie che sua nonna segue in
televisione – quella con il prete che nel tempo libero fa la guardia forestale.
Erica alza lo sguardo dal
pavimento in linoleum, tra Spagna e Flaminio e la sua vita cambia
improvvisamente – per la seconda volta –, a quasi vent’anni, quando pensava che
tutto quello che doveva vedere lo aveva visto in quei dieci anni trascorsi in
bilico fra metro A e metro B, fra autobus in ritardo, tram datati e strade
affollate di turisti affamati di pseudo-storia.
Erica, quello sguardo lo
conosce perché c’ha vissuto insieme un terzo della vita. Davanti a quegli occhi
le sembra di sentire il ritorno della sua parte mancante, quella che prude
sempre se ripensa al passato, quella che le fa riempire la bocca di bile acida,
quella che le urla nelle orecchie che è ancora troppo giovane per avere gli
occhi appannati e la noia sulle spalle. Dopo tutti quegli anni, Erica si era
sempre detta fortunata di non averla incontrata sullo stesso tragitto che, a
quindici anni, erano solite fare assieme, quasi mano nella mano, quasi una con
la testa sulla spalla dell’altra. Quasi.
Michela aveva gli stessi occhi
verdi che Erica ricordava, i capelli – adesso molto più lunghi – le ciglia nere
e arcuate verso l’alto, le mani sottili e i polsi gentili. Michela teneva le
gambe accavallate, seduta nel vagone della metropolitana e in procinto di
alzarsi, e teneva gli occhi puntati su di lei.
Erica deglutì il vuoto. La
lingua schioccò, nel silenzio della sua bocca, contro il palato e il corpo ebbe
il riflesso di agganciarsi al supporto accanto alla porta, per non cadere a
terra. Michela la guarda e gli occhi di Erica cercavano, febbrili, i dettagli
di quell’adolescenza perduta, sregolata, distorta che le aveva accomunate alla
loro città, quando amavano viverla quasi mano nella mano. Quasi testa contro
spalla.
La metropolitana si ferma, Michela le passa accanto e non alza la testa. Erica si scuote quando un uomo, alle sue spalle, le dice di muoversi a scendere o di levarsi di mezzo, che non ha tempo da perdere ed Erica scende e quasi cade in avanti, contro una signora che riesce a sostenerla e le chiede se va tutto bene.
Gentile, pensa Erica e vede la
sottile figura di Michela sparire tra la gente. La vede svoltare a destra,
verso l’uscita e la immagina prendere l’uscita a un passo da Piazza del Popolo,
fuori tra le persone, con la camminata ancheggiante farsi spazio, attraversare
la strada e sparire.
Erica si scosta, prende la borsa da terra, ringrazia la signora e si rende conto che il tempo, con Michela di nuovo al fianco, si è dilatato. Erica vorrebbe piangere, vorrebbe rincorrerla e sperare che non sia troppo tardi. Erica vorrebbe tante cose, perché è passato un solo anno e anche se Michela le ha detto di no, anche se Michela è fuggita spaventata da casa sua, anche se Michela la odia, da quel giorno – da quel maledetto giorno in cui…
Anche Erica si odia.
Erica si odia da 363 giorni, 5
ore e 22 minuti. Erica si odia, mentre la metropolitana scappa via
nell’oscurità del tunnel. Erica piange, quando alza lo sguardo e legge
“Ottaviano”, invece che Flaminio. Erica bestemmia contro Michela, contro quella
ragazza che le assomigliava così
tanto ma che non era lei, perché Michela sarebbe scesa a Flaminio e avrebbe
attraversato il piazzale e poi costeggiato via Flaminia e poi svoltato per via
Cesare Beccaria e poi…
La odia perché non aveva gli occhi di Michela, ma lei se li era immaginati. Erica piange e si chiede quando smetterà di fare male, con i pugni chiusi contro il rivestimento in marmo della fermata, le lacrime a terra e quelle due spesse righe di matita e rimmel a rigarle il volto, realizza che non smetterà mai di fare male perché Michela le ha tenuto la mano. Perché Erica ha poggiato la testa sulla spalla di Michela. Perché Erica l’ha baciata e Michela le ha sputato sul viso e non ha potuto far altro che pensare a quanto Michela fosse bella anche mentre la uccideva.
≠
Il primo concerto al quale
andarono assieme, fu uno di Fedez, perché a Michela
piaceva. Michela ascoltava di tutto e quel suo mp3 scassato era pieno di quella
particolare musica che Erica classificava come immondizia. Michela ascoltava
solo ciò che la stimolava a scrivere, solo quello che le permetteva di
esprimersi e, incredibilmente, annoverava anche il rapper, o Nicki Minaj che
all’altra sembrava solo casino controllato da un paio di sintetizzatori.
Erica amava la musica classica,
l’ordine matematico di note una dietro l’altra, in un pentagramma calibrato.
Erica era di Bach, mentre Michela era dell’elettronica, disco music anni ’80 e
tanta pazzia incoerente con se stessa. Michela amava andare in discoteca e
ballare in mezzo alla pista, scuotere il sedere contro il bacino di qualche
sconosciuto e schiaffeggiarlo, poi, quando quest’ultimo le avrebbe messo le
mani sui fianchi e chiamata “troia”, perché Michela voleva solo ballare e
divertirsi, non farsi ingravidare nel bagno qualunque di una qualunque
discoteca in un sabato qualunque – un
sabato italiano.
Erica, mentre Michela ballava,
stava di lato, seduta ai divanetti, stretta in un vestito che non era il suo e
si arrotolava, agitata, le punte dei capelli e li mordeva non sapendo cosa
altro fare. Erica s’annoiava nelle discoteche, ne usciva con il mal di testa e
per passare il tempo fumava sempre troppo e vomitava la pizza, perché le
Marlboro le avevano dato alla testa troppo in fretta.
Fretta
di cosa, poi? Fretta di crescere e di farsi vedere dagli altri – dagli altri
chi? – dal mondo, dalla vita che era una bastarda perché le aveva fatto
spuntare un brufolo proprio quando Matteo l’aveva salutata.
Erica lo aveva capito subito
che Michela sarebbe stata il suo grande problema, quando l’aveva vista la prima
volta. Erica l’aveva capito, nel lontano 2010, quando Michela era arrivata con
la macchina dei suoi – una Mercedes, ma allora lo ignorava – ed era scesa con
il suo bel vestitino a fiori che le nascondeva le prime forme da adolescente,
con due trecce che le scendevano lungo il busto e le davano quell’aria di finta
innocenza che le dava ai nervi. Michela aveva i capelli neri e gli occhi verdi.
Michela sembrava uscita da un libro di favole dei fratelli Grimm ed era uno di
quei personaggi belli che, alla fine della storia, avrebbe ucciso tutti quanti,
con il sorriso sulle labbra rosa e morbide.
Nonostante abitasse a Roma, nel
quasi centro, in via Cesare Beccaria, a due passi dalla stazione di piazzale
Flaminio, ogni condominio era un piccolo paese a sé stante e tutti vociferavano
dell’arrivo dei nuovi inquilini del terzo piano, di Milano, lui banchiere e lei
giornalista, coi due figli piccoli e una figlia di quattordici/quindici anni.
L’amministratore del condominio, il dott. Greschi,
era così contento del fatto che avrebbero ospitato un nuovo nucleo famigliare
unito e sano e cattolicamente eterosessuale – non come gli inquilini del quinto
piano. Michela era fintamente innocente, Claudio Morente era ignotamente bisessuale,
Marianna Cresciulo era paranoica e nevrotica, i
gemelli erano completamente diversi dai genitori e dalla sorella. Erano come la
città in cui si stavano trasferendo; erano come Roma perché erano imbarazzanti,
scostanti, allegri e solari. Erano irriverenti e avevano solo dodici anni.
Erano l’incubo di tutti e il sogno di Erica.
I Morente arrivarono di
domenica, a Roma. Il giorno peggiore in cui potessero arrivare. Erano abituati
all’ordine metodico di Milano, al traffico intelligente, alla vita tranquilla
di una metropoli nordica ed elegante. Giunsero a Roma e Michela capì che non
era mai stata fatta per l’ordine e che Roma, in quaranta minuti di traffico, le
era già entrata nel cuore con quel suo sole caldo e il venticello gentile che
proveniva dal Tevere.
Erica era convinta che Milano
le sarebbe piaciuta. Erica era sempre stata diversa dai suoi genitori
tipicamente romani, da sua sorella così espansiva e libera. Erica era una
sinfonia di Bach: noiosa per i più, sublime per gli intenditori e vecchia per i
ribelli. Erica era vecchia già appena nata, nonostante fosse nata il 29
febbraio del 1996. Era sempre stata piccola, confronto ai suoi compagni di
classe. Capelli rossicci e marroncini, occhi piccoli e coperti da un paio di
occhiali da vista troppo grandi per il suo viso, bocca dalle labbra troppo
carnose e una pelle troppo pallida per risultare affascinante. Aveva sempre
avuto il profilo perfetto per la ragazzina rapita e la madre, a dieci anni,
decise di farla salire da sola sulla metropolitana ed Erica ha sempre pensato
che desiderasse che la rapissero, per sbarazzarsi di lei e di quella sua
diversità scomoda, troppo intelligente, troppo appariscente per una ragazzina
di dieci anni che avrebbe dovuto correre dietro le foglie rosse degli
ippocastani.
Raccontami
una storia.
Il dottor Greschi,
assieme alla sua famiglia, era sulla soglia del palazzo ad attendere la nuova
famiglia. Indossava un maglioncino color carta da zucchero, sotto aveva una
camicia bianca con il colletto perfettamente stirato e la riga dei capelli neri
tendeva verso sinistra, sopra le rughe d’espressione della fronte. Sua moglie,
Maria Greschi, aveva passato l’ultima ora a lisciarsi
la gonna di ciniglia color verde bottiglia, lunga fino al ginocchio e si era
sistemata il maglioncino color crema e il filo di pelle agganciato al collo. I
suoi due figli – Augusto e Cesare – sostavano dietro le sue spalle, uno a
destra e uno a sinistra, con i capelli ben pettinati, le scarpe lucide e le
camicie stirate. I Greschi, erano una di quelle famiglie
appena arrivate con una DeLorean dal 1960. Erano
atterrati in via Cesare Beccaria giusto per un inconveniente tecnico ma tutti
sapevano che non sarebbero ripartiti così presto.
Claudio era bello, ma Erica
quando lo vide pensò che fosse una cosa sul momento, causata dalla novità che
rappresentava, ma anche Marianna, quando scese dalla macchina, era bella come
l’estate e Michela sembrava gelida e ingannatrice come l’inverno, i gemelli
erano le rappresentazioni umane di Febo.
I Morente, nonostante il cognome,
erano belli ed Erica s’innamorò di tutti loro, quando li vide sul suo stesso
pianerottolo, davanti all’appartamento 13/B, mentre scaricavano le valigie
dall’ascensore.
Il padre di Michela, aveva
luminosi occhi azzurri ed il colore dei capelli era molto simile al suo – forse
più ramato, che marrone – mentre Marianna aveva i capelli neri e lunghi, come
quelli della ragazzina dietro di lei, alta e longilinea, con gli occhi verdi e
le labbra strette in un’espressione di fastidio.
Era domenica e la madre di
Erica l’aveva mandata a comprare le paste, come sempre. Il sole di inizio
autunno entrava dalle finestre sulla tromba delle scale e mitigava il classico
freddo che faceva sui pianerottoli. Il civico 23 di via Cesare Beccaria, era
stato costruito nel classico stile della tarda Art Noveau,
che accomunava quel quartiere con i Parioli, con
Viale Buenos Aires e tanti altri sparsi per l’intera città. Il dottor Greschi arrivò, ansimando, dalle scale e si accorse solo
dopo della muta presenza di Erica sul pianerottolo.
«Buongiorno,
Erica. La mamma ti manda a comprare i bignè anche oggi?».
L’altro
gruppo, dal lato opposto del pianerottolo, aveva iniziato a osservarla con
sguardi di curiosità. Marianna le sorrideva e i gemelli avevano smesso di
rincorrersi e di farsi i dispetti. Claudio stava solo aspettando il Greschi per aprire il loro nuovo appartamento, mentre
Michela se ne stava lì, appoggiata all’intonaco immacolato e la fissava.
Avevi gli occhi verdi.
Li ho ancora, gli occhi verdi.
Ma non verdi come quel giorno.
Sua
madre, Teresa, aprì la porta del loro appartamento e fece perdere l’equilibrio
alla piccola e occhialuta Erica che, per miracolo, riuscì a non cadere dalle
scale.
«Erica
ancora non…- buongiorno Tommaso! Come mai sei salito ai piani alti?».
Teresa,
una donna tipicamente mediterranea, dai capelli castano scuro e gli occhi color
castagna, con una presenza solare e per il dottor Greschi
estremamente molesta, dato il suo modo sempre fantasioso di imprecare, varcò la
soglia dell’appartamento e calamitò l’attenzione di tutti, ai danni del Greschi che tentava di svicolare.
«Piacere,
Teresa Borghese. Sono la madre di Erica e – Silvio?! Silvio vieni: ci sono i
nuovi vicini!» urlò all’interno dell’appartamento, battendo contemporaneamente
sulla porta. «Scusate tanto ma, sapete, c’è la partita della Roma» si
giustificò, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio sinistro.
L’uomo,
dopo un paio d’imprecazioni non sufficientemente ingoiate, raggiunse il
corridoio e l’uscita, ponendosi alle spalle della moglie che sovrastava di una
ventina di centimetri.
«Silvio
Leoni» si presentò, uscendo dall’appartamento e invadendo con il suo metro e
novanta, il pianerottolo del quarto piano. «Spero che vi… - cazzo, goooool!». Silvio rientrò, di corsa, nell’appartamento.
Teresa si voltò imbarazzata, ridacchiò nervosamente, fece gli ultimi saluti e
rientrò violentemente in casa. Si sentì un rumore di porcellana rotta.
Erica,
intanto, era rimasta bloccata sul pianerottolo non sapendo bene cosa ci si
aspettasse da lei. La madre, al suo rientro, non avrebbe mangiato i bignè
perché sarebbe stata incazzata con suo marito. Suo padre lo avrebbe ritrovato
ancora sul divano a guardare la partita e lei si sarebbe ritrovata fra i due,
senza nemmeno sua sorella come supporto, visto che era andata a Bomarzo, con il
“fidanzato dell’inverno”.
«Bene»
disse Tommaso Greschi, sbattendo le mani fra loro.
«Credo che possiamo entrare, per vedere se è tutto a posto».
L’amministratore
del condominio, però, venne interrotto di nuovo dal rumore della porta del
12/B, da cui ne uscirono Silvio Leone con la testa china e una battagliera
Teresa Borghese, con le mani sui fianchi.
«Saremo
felici» iniziò Silvio, «se poi, nel pomeriggio, voleste passare per un caffè,
un tè, un amaro, una birra…».
«Non
devi fare l’elenco delle cose che abbiamo, cretino» gli bisbigliò Teresa, alle
spalle.
«Sì,
insomma… qualsiasi cosa» e sorrise, per farlo sembrare un invito più
allettante.
Marianna
attraversò il lato neutro del pianerottolo e tese la mano verso Teresa: «Anche
mio marito fa le stesse cose, non si preoccupi. Saremo più che felici di
passare, più tardi».
Claudio
portò una mano dietro la nuca e si grattò la testa, colpevole. «Anche se non
con il calcio, ma con il rugby. Una birra me la farei volentieri, dopo tutte
queste valigie».
Silvio
gli sorrise, di rimando e batté il pugno sul palmo aperto dell’altra mano:
«Verso le cinque?».
«Sarà
ottimo» gli rispose Morente.
«Erica,
fa’ in fretta con quelle paste, mi raccomando».
Ancora non ci credevi.
Non ci ho mai creduto: è diverso.
Erica
riprese il controllo di sé, annuì con forza e prese a scendere, di corsa, le
scale reggendosi al corrimano di ferro che le grattava la pelle del palmo.