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Autore: Ink_    31/10/2015    2 recensioni
[Felice Halloween!]
Dietro di Lei si stendeva quello che sembrava essere un bosco o magari solo le conifere di un parco, magari nelle vicinanze o che era stato abbattuto per costruire il parcheggio in cui aveva trovato la vecchia polaroid. Magari La Ragazza era vecchia o morta o abitava in un altro continente.
Ogni singolo particolare era impresso a fuoco sotto le sue palpebre, chiudeva gli occhi e riusciva a vederla: immobile e sorridente, così vicina da poterla sfiorare eppure irraggiungibile. Bloccata in quella fotografia [...]
L’asfalto era duro e impossibilmente freddo, le gambe gli dolevano e sentiva un peso invisibile schiacciargli il petto, ma era tutto troppo incredibile, troppo perfetto perché si fermasse. Lei era lì davanti a lui, la mano ancora alzata, lo stesso abbagliante sorriso e persino lo stesso muro di alberi alle sue spalle.
Genere: Horror, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La ragazza nella foto

 
 
Continuava a rigirarsi la vecchia polaroid tra le mani: non una data o una dedica, nemmeno una sbavatura del lucidalabbra che sembrava portare La Ragazza.

L’aveva ribattezzata con quell’ovvio appellativo in mancanza di un nome più calzante; ci aveva provato davvero ma nessun dei nomi da bionda che aveva pensato le stava bene – Amanda, Caroline, Emily, Michelle? Veronica forse? Gli restavano amari sulla lingua, come una medicina o sospesi nell’aria, interrogativi.

Alla fine si era arreso e aveva scelto La Ragazza nella Foto o semplicemente La Ragazza.

Certo, forse se avesse avuto un nome la sua ricerca a scuola e nei negozi della città avrebbe potuto risultare molto meno infruttuosa; magari girando per i corridoi domandando ai suoi compagni se conoscessero Emily Michelle Amanda Caroline e forse Veronica e mostrando loro la foto avrebbe potuto sperare che collegassero l’immagine al nome e che scattasse finalmente un trillo d’allarme.
Ma niente. Il campanello rimaneva ostinatamente muto e così La Ragazza nella Foto.

Aveva preso l’abitudine di conservarla nella grande tasca della felpa che sapeva, lo avrebbe accompagnato fino a che la temperature non si fossero abbassate troppo: una sorta di muta scadenza: quando sarebbe giunto il freddo – diciamo in meno di un mese – avrebbe letteralmente appeso lo strumento al chiodo, cosa che si era rifiutato di fare un po’ per paura di rovinare la fotografia bucandola con la puntina da disegno e un po’ per la malsana speranza di trovare un’anima che la riconoscesse.

Almeno di ciò si era convinto.

L’inammissibile verità era che si sentiva al pari di un tossicodipendente, o come i personaggi di un cartone che guardava la sua sorellina dove dei bambini erano stati ipnotizzati da adorabili conigli demoniaci e non potevano passare cinque minuti senza guardarli e coccolarli come peluche. Terribilmente imbarazzante.

La sua sindrome era simile a quella del tredicenne arrapato che tiene le appiccicaticce riviste della madre nascoste sotto al materasso. Sia ben chiaro: rifiutava animatamente di anche solo andare al bagno mentre o dopo o pensando alla Ragazza.

Per quanto fosse bella, e lo era davvero.

I lunghi capelli biondi leggermente smossi dal vento immobilizzati dall’obbiettivo e gli occhi semichiusi per il sole, anche se non avrebbe potuto dire di che colore fossero ma sperava verde, con riflessi dorati magari.

Teneva il braccio destro proteso, l’indice e il medio alzati a simboleggiare la pace, le unghie non strabordavano i polpastrelli pertanto doveva averle corte, immaginava dipinte di un rosa pallido.

Le labbra sottili mezze nascoste dalle dita alzate erano tirate in un sorriso luccicante (lucidalabbra? O forse aveva appena bevuto), una deliziosa fossetta sulla guancia sinistra che aveva accarezzato più volte sovrappensiero prima di arrestarsi brutalmente a quella realizzazione e scostando il dito dalla fotografia come se si fosse improvvisamente arroventata.

Dietro di Lei si stendeva quello che sembrava essere un bosco o magari solo le conifere di un parco, magari nelle vicinanze o che era stato abbattuto per costruire il parcheggio in cui aveva trovato la vecchia polaroid. Magari La Ragazza era vecchia o morta o abitava in un altro continente.

Ogni singolo particolare era impresso a fuoco sotto le sue palpebre, chiudeva gli occhi e riusciva a vederla: immobile e sorridente, così vicina da poterla sfiorare eppure irraggiungibile. Bloccata in quella fotografia.

Mancavano pochi giorni alla fine dell’autunno. Gli alberi erano ormai spogli e le foglie giacevano ammucchiate e mezze marcite tra le loro radici, in attesa di essere ricoperte dalla neve; le temperature erano calate bruscamente e la sua fedele felpa cominciava a perdere l’effetto protettivo. Aveva persino dovuto aggiungere una coperta al letto poiché il freddo che riusciva a penetrare attraverso la finestra della sua camera gli lasciava i piedi costantemente congelati.

La sveglia sul comodino indicava le tre e tredici del mattino in cubici caratteri fluorescenti quando aprì gli occhi incontrando nient’altro che l’oscurità della sua stanza, resa meno minacciosa dalla poca luce lunare che filtrava dalla finestra.

Era stato un rumore che ancora persisteva a svegliarlo, come dita ossute che battono su una superficie solida. La prima cosa a cui pensò a rami possi dall’aria che picchiettavano contro il vetro della finestra, ma mentre i suoi si aggiustavano alla scarsa illuminazione della camera non udì l’ululare del vento e ragionando lucidamente benché avesse la mente annebbiata dal sonno, ricordò che gli arbusti che popolavano il giardino sottostante erano troppo bassi per raggiungere il secondo piano della casa.

L’ombra tremolante della finestra contro la parete opposta fu scossa da qualcosa e contemporaneamente il ragazzo sentì l’oggetto colpire seccamente il vetro. Sassolini. Per una frazione di secondo la pietra aveva colpito anche il riflesso sulla parete, mostrandogli una pioggerellina di piccoli oggetti tondeggianti.

Scostando le lenzuola ammucchiate sopra di lui scese dal letto, poggiando i piedi costantemente freddi sul pavimento ancora più gelido; si avvicinò lentamente alla finestra a piccoli passi e restando nel cono di luce che quella creava, come se temesse cha qualcosa potesse saltare fuori dal nulla e aggredirlo.

Quando raggiunse il vetro vi poggiò le mani sopra cercando di sporgersi per guardare meglio il cortile sottostante, ma l’oscurità era troppo fitta e non riuscì a scorgere nulla al di fuori delle spettrali ombre proiettate dal lampione sul lato opposto della strada.

Un'altra manciata di pietre colpì il vetro e il ragazzo emise un verso strozzato nel tentativo di soffocare un urlo mentre con un balzo si allontanava dalla finestra. Con il cuore a mille tornò immediatamente a scandagliare il vicinato sforzandosi si acuire la vista il più possibile.

E poi la vide; una figura pallida illuminata dalla luce del lampione dall’altro lato della strada limitrofa al bosco, come una lucciola nella notte.

Era Lei, non poteva sbagliarsi.

Aveva visto quel sorriso migliaia di volte nell’ultimo mese, le stesse spalline bianche che ora sapeva appartenevano ad una canotta leggera sopra ad un paio di pantaloncini corti, un abbigliamento insolito per una fredda notte di fine ottobre. Aveva i piedi nodi e un po’ sporchi, le guance più scavate ma le stesse dolci fossette della foto, i vestiti rovinati e i capelli biondi scompigliati come se avesse camminato per tutto il bosco per raggiungerlo.

Poco gli importava come fosse arrivata lì o perché fosse conciata in quel modo o come avesse fatto a lanciare i sassolini contro la sua finestra da quella distanza, La Ragazza era lì, appena a trenta metri da lui ed era vera e raggiungibile ma l’aveva cercata tanto a lungo che gli sembrava impossibile che lei avesse trovato lui per prima alla fine.

La Ragazza sollevò il braccio in un gesto ormai famigliare e coprendo mezzo viso dalla sua vista prese ad agitare lentamente la mano in segno di saluto invece di portare in alto l’indice e il medio a simbolo della pace.

Senza pensarci troppo afferrò la foto dal comodino e uscì dalla stanza, scese le scale di corsa e aprì la porta che dava sul giardino, mettendosi a correre sull’erba incrostata di brina. Il freddo lo pungeva da sotto i vestiti come una miriade di aghi sottilissimi e una luce doveva essersi accesa nelle sue spalle, probabilmente quella della camera dei genitori allarmati da quell’improvviso trambusto e dallo scattare di una serratura.

La Ragazza si faceva sempre più vicina mano a mano che la distanza tra loro diminuiva. Percorso per intero il cortile, con i piedi bagnati e ghiacciati e il respiro corto per la corsa e il freddo attraversò il marciapiede senza pensarci e camminò lentamente verso di Lei.

L’asfalto era duro e impossibilmente freddo, le gambe gli dolevano e sentiva un peso invisibile schiacciargli il petto, ma era tutto troppo incredibile, troppo perfetto perché si fermasse. Lei era lì davanti a lui, la mano ancora alzata, lo stesso abbagliante sorriso e persino lo stesso muro di alberi alle sue spalle.

Era così vicina, così bella. Allungò inconsciamente il braccio anche se era ancora troppo distante per toccarla ma già pregustava l’istante in cui i suoi polpastrelli avrebbero sfiorato la sua pelle diafana e un po’ sporca. Si sentiva felice e terribilmente sollevato, come se avesse finalmente trovato quello che – senza saperlo – stava cercando da una vita.

Nella mano sinistra stringeva convulsamente la foto. Magare gliel’avrebbe data o magari Lei gli avrebbe permesso di tenerla, magari dopo averci scritto sopra qualche parola – sperava morbosamente.

Il tempo si era come fermato, tutto intorno a loro era immobile, salvo il ritmico sventolare della mano della Ragazza e il suo frenetico respiro affannoso – avrebbe finalmente scoperto il suo nome e ancora gli sembrava impossibile, anche se lei era lì, fisica e reale.

 Era perso nei suoi pensieri e una sorta di febbricitante anticipazione lo avvolgeva come una nebbia, quali sarebbero state le sue prima parole? Com’era la sua voce? Cosa avrebbe fatto Lei? Cosa gli avrebbe detto? poche tra le mille domande che si era posto milioni di volte e a cui aveva provato a dare una risposta.

Come un pittore aveva dipinto un’infinità di scenari differenti nella sua testa, ma ora apparivano tutti sfuocato come se dell’acqua vi fosse stata versata sopra, facendoli colare e scolorire, riducendoli a pozzanghere colorate.

Era troppo euforico, troppo spaventato, troppo intento a distinguere i vari colori in quella pozzanghera caleidoscopica che aveva nella testa per rendersi conto del freddo che gli incollava alla pelle i vestiti, dell’asfalto sotto i piedi sporchi e lividi o degli abbaglianti fari dell’auto che stava svoltando la curva poco distante da loro.

L’ultima cosa che vide prima di voltarsi e trovarsi faccia a faccia con il paraurti rosso fuoco della jeep furono gli occhi verdi della Ragazza e le delicate fossette che aveva sulle guance.
 
 
 
 
L’uomo scese dall’auto tremando dopo un lungo conflitto interiore: poteva ancora fuggire, ingranare la marcia a rimandare il suo esame di coscienza ad un altro momento, ma le luci della casa di fronte erano accese e quanto tempo ci sarebbe voluto prima che qualcuno sarebbe uscito richiamato dallo stridio dei pneumatici contro l’asfalto e lo schiocco di ossa che si rompevano?

Soprattutto cosa ci faceva quel ragazzino in mezzo alla strada nel cuore della notte? In pigiama poi? Gli restava da sperare che fosse sotto l’influenza di qualche nuova droga sperimentale.

Stava coricato sull’asfalto, immobile e probabilmente freddo quanto l’aria che stava respirando. Il braccio destro era piegato in una posizione innaturale, la cui sola vista gli diede i brividi, le gambe divaricate, le piante dei piedi scorticate e umide, sporche di terra. E il sangue, Dio il sangue.

All’abbondante luci dei fari l’asfalto luccicava di scuro, una grande macchia scura e oleosa di stava espandendo sotto la testa del ragazzo, divorando lo spazio intorno ad essa e sporcando di cremisi i capelli del ragazzo. L’impatto con l’asfalto doveva avergli sfracassato il cranio oltre al braccio e alle costole che doveva essergli costate la colluttazione con la sua auto.

Si avvicinò ancora – temendo morbosamente che qualcuno potesse scoprirlo anche se era troppo tardi – e così facendo notò il ritaglio di giornale che teneva in mano. Si trattenne dal prenderlo per non contaminare la scena del crimine – la scena del crimine per dio! – ma si inginocchiò a terra per vedere cosa fosse visto cha pareva così importante per il ragazzino.

Non era un ritaglio di giornale, ma una vecchia polaroid schizzata di sangue e un senso di sgomento misto a bile gli salì dallo stomaco.

Cos’era? La sua fidanzata? Lo aveva lasciato? Era morta? Lo aveva visto arrivare con l’auto e si era appostato forse con l’intenzione di farsi ammazzare? Se così fosse stato e se avesse lasciato anche solo uno straccio di biglietto sul tavolo della cucina, un post-it con scribacchiato “Debbie mi ha lasciato e io non posso più vivere! Addio mamma!” forse e soltanto forse lui si sarebbe salvato e non avrebbe dovuto rimborsare la famiglia oltre che pagare le riparazioni dell’auto.

Guardò attentamente la foto: mostrava una ragazzina che non poteva avere più di diciassette anni con lunghi capelli biondi, gli occhi semichiusi per il sole; le labbra sottili tirate in un sorriso e una fossetta sulla guancia sinistra mentre dietro di lei sullo sfondo sfocato si stendeva una serie di conifere, forse un bosco o un parco.

Il volto era però mezzo nascosto dal braccio e dalla mano alzati e tre dita – il pollice, l’indice e il medio – campeggiavano in primo piano dimezzando il sorriso dolce della ragazza.

 
 

FINE?




 
   
 
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